1.
Casaleggio e la Lega

L’esperimento prevedeva, fin dall’inizio, un’esecuzione: la presa del potere. Andare al governo, a tutti i costi. Che avvenga con la Lega non è assolutamente frutto del caso. Esecuzione perché, diceva Gianroberto Casaleggio, «parlamentari o ministri dovranno essere dei portavoce esecutori del nostro programma, revocabili con il recall. La delega parlamentare è morta, il compito dei nostri eletti è solo un’esecuzione delle nostre idee». Ma esecuzione anche per tanti altri motivi che capiremo via via, forse. Il figlio Davide, tanti anni dopo, si spingerà a spiegarne uno: «Tra qualche lustro è possibile che il Parlamento non sarà più necessario». Altri motivi giacciono nel sottosuolo.

L’esperimento in cui consiste il Movimento cinque stelle aveva dunque bisogno di un premier esecutore di un contratto, prevedeva non lontana l’esecuzione capitale del Parlamento, infine la convergenza in qualche forma di due movimenti paralleli, sia pure diversi: il Movimento cinque stelle e la Lega. Convergenza che non è affatto dettata dalle contingenze politiche successive al voto del 4 marzo 2018, e che porta anzi con sé una sorta di necessità immaginata da molto lontano, sulla base di tre presupposti: rivoluzione nordista contro fisco e tasse, chiusura ai migranti e – negli anni successivi – piano B per un’eventuale uscita dall’euro. In un video pubblicato dal «Corriere» il 19 maggio 2018, nei giorni convulsi della formazione del governo, si vede Matteo Salvini: «Il premier? Né io né Luigi Di Maio, ma ministri esecutori del programma». Le medesime parole dell’esperimento.

«C’era un grandissimo interesse da parte di Gianroberto per l’esperimento della Lega», ricorda Roberto Giacomelli, psicologo e naturopata, amico di vecchia data di Casaleggio e oggi socio dell’Associazione Gianroberto Casaleggio assieme a Davide Casaleggio e alla seconda moglie di Gianroberto, Sabina; solo loro tre, il che dice quanto sia intimo di quella famiglia. Anche la Lega, dunque, definita come un esperimento. «All’inizio Gianroberto vedeva la Lega come una forza rivoluzionaria nel panorama politico italiano», è la testimonianza di Giacomelli alla «Stampa», «ci consultavamo a lungo parlando delle spinte leghiste delle origini. C’era una fascinazione, da parte sua, non tanto per il disegno politico leghista, ma per il suo substrato culturale. Il mondo nel quale la Lega era cresciuta lo attraeva e incuriosiva. Dai riferimenti alla religiosità dei popoli nord europei alla secessione della Padania, dal linguaggio nuovo ai raduni di Pontida, fino ai riti dell’ampolla del Po».

L’appassionato di letteratura fantasy e fantascienza, il lettore onnivoro di Isaac Asimov e Ray Bradbury, di Tolkien e dello hobbit, l’oratore incerto che – dal palco di piazza San Giovanni a Roma – concluderà il suo intervento nel 2013 citando Obi-Wan Kenobi di Guerre stellari, «che la forza sia con voi», aveva un’inclinazione naturale verso i riti con i quali Bossi aveva inteso nobilitare l’epopea secessionista della prima Lega. Casaleggio semplicemente viveva quei riti e quel bizzarro esoterismo in modo più noir e cupo, più cerebrale e intellettuale, più Gurdjieff e meno Mel Gibson di Braveheart, privilegiando un lato dark che ha sempre fatto da sottofondo a questa storia.

Giacomelli, la persona scelta dalla famiglia per aprire la prima convention di Ivrea in ricordo di Casaleggio, citò in quell’occasione «una visione che gli sarebbe piaciuta profondamente», una frase della Bhagavadgītā, il poema sacro agli induisti: «Coloro che saranno ancora desti nel buio della notte, saranno i primi ad essere svegli nella luce dell’alba». Casaleggio, pur essendo nato a Milano, aveva le sue radici in un’altra provincia settentrionale, l’Astigiano. Era nato in una famiglia particolare (ci torneremo), e ha passato tutta la vita al Nord: dal Nord paterno nell’Astigiano fino a Milano, scegliendo infine come luogo d’elezione il misterico Canavese sopra Ivrea.

Sostiene Giacomelli che i due mondi, Lega e Cinque stelle, non sono affatto così distanti, come tende a spacciare il modesto dibattito pubblico italiano: «La base del Movimento sembra favorevole all’idea di un governo con la Lega, perché viene riconosciuta una comune visione su molti dei loro punti programmatici». Il governo guidato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte era assai difficilmente evitabile perché le sue premesse vengono da molto lontano nel tempo e, a guardarle dall’alto, appaiono spinte da una potente necessità. Lo fa capire una persona, come Giacomelli, che ha avuto accesso ai pensieri più riservati dell’inventore del Movimento cinque stelle. L’esecuzione è come contenuta, e prefigurata, nell’esperimento.

«Se il M5s facesse un governo con il Pd, io uscirei dal Movimento», risponde Gianroberto Casaleggio a Gianluigi Nuzzi il 21 luglio 2013, in un’intervista che nessuno nel Movimento avrebbe mai potuto ignorare; se e quando il Movimento fosse andato al governo, l’indicazione tassativa dell’uomo che ha inventato questa macchina è molto chiara: non andarci mai col Pd. Attorno, gli ospiti salottieri del festival Ponza D’Autore animato da Nuzzi e Paolo Mieli – festival per il quale l’intervista viene realizzata, e che quell’anno avrà come ospiti illustri altri personaggi interessanti, l’ex direttore del Sismi Nicolò Pollari, e il giorno dopo Luigi Bisignani – non fanno particolarmente caso a questa profezia. Ma la profezia c’è, anzi è un ordine: sono le colonne d’Ercole del Movimento, mai pronunciate in pubblico con tanta chiarezza. Mai col Pd.

Non si capisce in base a quale spinta, allora, cinque anni più tardi Davide Casaleggio dovrebbe, nel momento cruciale della trattativa per formare il governo nei quasi tre mesi dopo il voto del 4 marzo 2018, andare con il Pd anziché con la Lega, seguire cioè le pressioni di pezzi anche assai in alto nel sistema istituzionale italiano, o le vaghe sirene di Roberto Fico, o le campagne del «Fatto Quotidiano» di Marco Travaglio, o i talk show di La7 di Urbano Cairo, o le manovre di eterni ex ministri democristiani ansiosi di ritornare in sella, anziché il lascito consegnatogli espressamente, testualmente, dal padre.

La Lega appare invece una strada aurea, illuminata, predestinata, ai due Casaleggio, in questo in totale sintonia. Casaleggio senior era filoleghista essenzialmente nella rivolta fiscale e nella protesta contro i partiti. Marco Canestrari, suo ex dipendente in Casaleggio Associati, racconta qualcosa che pochi sanno con tale chiarezza: «Casaleggio era un vecchio leghista. Tentò di convertire perfino Di Pietro al federalismo fiscale: i più attenti ricorderanno il programma dell’Italia dei Valori del 2008: 75 per cento delle tasse alle regioni... Roberto commentò, ridendo: “Questi impazziranno, ho convinto Di Pietro a un programma più leghista di quello di Bossi”». Rideva, Gianroberto.

Le poche volte in cui parla in pubblico, anche suo figlio Davide espone concetti graditi alla Lega. Naturalmente una Lega diversa, non più quella di Bossi, ma sovranista, salviniana: per esempio quando, a fine marzo 2018, davanti a una platea di economisti, propone in Italia, sul modello francese, la creazione di una banca pubblica di investimento che faccia ordine tra tutte le finanziarie statali locali: «Il nostro Paese possiede già tutte le soluzioni al problema del finanziamento dell’innovazione. Ma il coinvolgimento di attori esteri come advisor, il finanziamento statale di soggetti esteri e gli investimenti all’estero e non in Italia da parte dei fondi istituzionali italiani sono sicuramente parte di questo problema». Musica per i leghisti Matteo Salvini e in particolare Giancarlo Giorgetti, poi potente sottosegretario a Palazzo Chigi. Nel mese di ottobre il settimanale «Panorama» domanderà a Davide Casaleggio: suo padre avrebbe gradito questa alleanza con la Lega? Risposta inequivocabile del figlio: «Sarebbe stato felice di vedere il Movimento al governo, che quel processo iniziato nel 2013 si sia completato».

Nei lontani anni in Webegg Gianroberto Casaleggio aveva anche un altro gruppo di lavoro, oltre a quello di cui abbiamo parlato in L’esperimento – oltre cioè a quel team ristretto di lavoro di cinque-sei persone che nel 1997 già testava le modalità di formazione, distribuzione, eventuale manipolazione del consenso interno utilizzando le possibilità offerte dalle prime reti intranet aziendali. Si trattava in questo caso di un gruppo più largo, non di cinque-sei persone ma di venti, nel quale ai dipendenti venivano insegnate tecniche di PNL (programmazione neurolinguistica, che si riteneva capace di modificare pensieri e comportamenti delle persone). Le classi, nelle quali c’erano sempre uno psichiatra e una psicologa – ha raccontato Carlo Baffè, l’allora ventottenne ingegnere informatico che faceva parte di entrambi i team, a un reporter britannico, Darren Loucaides –, a un certo punto cominciarono a focalizzarsi su uno psichiatra, Milton H. Erickson: «Ci dissero che questo ipnotista era capace di ipnotizzare le persone con un singolo gesto», ha spiegato Baffè. Le persone a quel punto diventavano meri esecutori. «I gruppi ai quali venivano insegnati i rudimenti di PNL erano più d’uno», spiega ancora meglio Baffè. «A rotazione venivano insegnate tecniche di ascolto e comunicazione, e cenni di PNL». Il lavoro si organizzava attraverso «due o tre gruppi, da 6 o 8 persone. Quello che ci venne detto su Erickson, oltre alla capacità di ipnotizzare, era che grazie all’ipnosi era in grado di fare terapia perché “parlava direttamente all’inconscio dei pazienti”, e “li aiutava a rimuovere i loro blocchi mentali”. Viene da sé che un’arma così potente potesse poi essere sfruttata anche per scopi non necessariamente curativi».

Nei mesi successivi al 4 marzo 2018, in cui tutti in Italia paiono non voler capire cosa accadrà e quale esecutivo nascerà, basta guardare due semplici bussole per intuirlo: i sondaggi e gli analytics dei social network, unici due parametri sui quali l’esperimento del Movimento si è sempre regolato. E Casaleggio junior sa che tutti i sondaggi parlano chiaro: metà dell’elettorato grillino (il 46 per cento, citiamo qui da Demopolis) vuole un accordo con la Lega, solo il 18 per cento col Pd, e appena il 25 per cento vuole tornare alle urne. I numeri sono concordi per tutti gli istituti di ricerca, in quel periodo. Tutti, nessuno escluso. Sarebbe possibile citarne tanti.

Quando a due passi da Montecitorio, in piazza Capranica, nel marzo 2018 appare il murale di Tvboy, nome d’arte di Salvatore Benintende (artista di strada ed esponente del movimento NeoPop), con il celebre bacio tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini – un disegno fatto cancellare in meno di mezz’ora dagli agenti, con uno zelo che sarebbe degno di miglior causa – si assiste alla lettura più acuta e corretta di quanto sta avvenendo nel processo tortuoso di formazione del nuovo governo: peccato che venga da un artista, e che invece la stragrande maggioranza dei commentatori e degli osservatori italiani sbagli o, peggio, svii di proposito la pubblica opinione italiana, diffondendo la tesi per cui «in fondo il M5S è più vicino al centrosinistra».

Nulla di più falso e manipolatorio, fatti e documenti alla mano. L’esperimento non è congegnato per andare al potere con il centrosinistra. Casaleggio lo ha sempre detto, a chiunque gli abbia parlato, mentre ha più e più volte parlato bene della Lega, e delle politiche care a quel mondo. E Casaleggio, non altri, è stato il cervello della macchina. Il figlio, da parte sua, non può tradire il padre su questa consegna che gli è stata affidata esplicitamente anche nella fase finale della vita di Gianroberto. Una specie di testamento: non andare mai col Pd. È questa la vera eredità dinastica lasciata dal padre al figlio, oltre naturalmente alle chiavi notarili dell’Associazione Rousseau, della quale il Movimento diventerà sempre più un asset e un ramo d’impresa. L’abdicazione dinastica, politico-aziendale, consegna a Davide un mandato chiaro di governo: l’esecuzione con la Lega.

Umberto Bossi e Gianroberto Casaleggio si stimavano a vicenda, come vedremo, pur senza frequentarsi. Condividevano più di un’idea: la sfiducia (eufemismo) verso lo Stato centrale, la riluttanza anche fisica a scendere a Roma, un atteggiamento di sostanziale chiusura verso l’idea di società multietnica, soprattutto la volontà di aiutare le piccole e medie imprese del Nord-Est con sostanziosi tagli alle tasse. Non è ancora la flat tax promessa dal governo Lega-Movimento, ma le sue premesse ideologiche sono chiarissime. Uno dei migliori amici di Gianroberto Casaleggio, Massimo Colomban, fondò un think tank essenzialmente nordista al quale Casaleggio era molto vicino: il Think Tank Group, che raccoglieva imprenditori prevalentemente veneti e lombardi, di idee spiccatamente filoleghiste, patrimonio condiviso con Gianroberto. Colomban, assieme ad Arturo Artom, uomo d’affari in passato vicino alla Lega e poi grande amico di Gianroberto, portò Casaleggio e Grillo a Treviso già durante la campagna elettorale del 2013 a spiegare le loro idee a questo mondo che appariva entusiasta di loro. Si tratta di un vero, persistente network di relazioni che si riuniva anche in una rete di associazioni chiamata Si – Salviamo l’Italia, creata «per uscire dalla crisi e rinascere come paese» e «mandare a casa la casta dei governanti», slogan programmatici in totale, evidente sovrapposizione tra la propaganda Cinque stelle e quella leghista.

Due castelli stanno all’origine dell’esperimento e dell’esecuzione. Salviamo l’Italia aveva sede a Cison di Valmarino, provincia di Treviso, al castello di Castelbrando di Colomban. In un altro castello – a Belgioioso, provincia di Pavia, echi della tavola rotonda di re Artù – Casaleggio riuniva spesso i dipendenti del suo team di lavoro in Webegg, alla fine degli anni Novanta. L’idea di fondo di questo supergruppo nordista, mi disse Artom già nel 2013, era «una rivoluzione fiscale a favore delle piccole e medie imprese».

Inizialmente il nome di Casaleggio compariva anche nel board dell’associazione. Fu detto che era un errore. Quindi fu tolto. Ogni tanto, quando vedeva il Movimento deragliare troppo sul tema del reddito di cittadinanza, che lui temeva virasse eccessivamente verso un assistenzialismo orientato al Sud, Casaleggio tornava a dire che occorreva riequilibrare la corsa del Movimento con temi del Nord, e lo faceva attraverso i parlamentari Cinque stelle del Nord. Sempre Casaleggio mostrò a uno dei suoi più intelligenti collaboratori alcuni grafici che non sono mai sostanzialmente cambiati: un cruccio del fondatore era che al Nord il Movimento non sfondava (e non sfonda), se si eccettuano Torino e la Liguria. L’asse che va da Vercelli al Veneto ha sempre visto il Movimento cinque stelle piazzato, a volte anche bene, ma assolutamente incapace di decollare.

In seguito Colomban – poi assessore alle società partecipate della giunta Raggi per un anno, a partire dal settembre 2016 – nei giorni delle trattative per la formazione del governo ha fornito una delle poche bussole per orientarsi su quanto stava accadendo: «Spero che Movimento e Lega si mettano d’accordo, e che si formi al più presto un governo, per il bene dell’Italia e dell’economia, che altrimenti va a picco». Una simpatia originaria tra i due movimenti che Colomban mi lasciò più che intuire nel 2017 a Ivrea, chiacchierando nelle Officine H della Olivetti alla prima convention dell’Associazione Casaleggio: allora ancora assessore in Campidoglio, spiegava – da vero imprenditore veneto e in pieno spirito culturale leghista – che solo tagli e privatizzazioni avrebbero potuto salvare un’azienda come Atac. «Non mi faccia dire quello che sarebbe necessario con i dipendenti ipersindacalizzati di Ama e Atac». Bisognava licenziarli in tronco, almeno così capii io.

Il giorno del funerale di Casaleggio a Milano, nell’aprile 2016, Bossi fu uno dei pochi politici di spicco presenti (l’altro era Antonio Di Pietro). Dopo la cerimonia espose, a chi lo aveva avvicinato, questa considerazione: «Ho sempre sentito affinità tra il Movimento cinque stelle e la Lega. Casaleggio vedeva in Internet lo strumento per collegare la politica alla gente e noi abbiamo inventato i gazebo, per lo stesso motivo. C’era qualcosa di simile tra noi». Cosa non molto diversa da quanto raccontava ai suoi dipendenti in via Morone, sede della Casaleggio Associati, il manager milanese: il Movimento dovrà essere nella rete ma anche nei luoghi fisici, nei bar delle valli, come la Lega delle origini, dove ad ascoltare Bossi «c’erano quattro gatti: ve lo dico perché uno di quei quattro gatti ero io». Ma Bossi, ricordando Casaleggio, disse anche qualcosa di più, da leggere tra le righe: alla domanda se i giovani eredi del Movimento, senza Gianroberto, sarebbero stati capaci di resistere, rispose sicuro: «andranno avanti. Casaleggio ha avuto l’intuizione che non si può far politica da soli».

Non si può fare da soli. Stava dicendo in modo clamorosamente esplicito che un dialogo, sotterraneo, a distanza, culturale, era cominciato da tantissimo tempo, tra i due movimenti. Quando Giancarlo Giorgetti, il potente braccio destro di Matteo Salvini, a fine agosto 2018 va a Marina di Pietrasanta, alla festa del «Fatto Quotidiano», per farsi intervistare da Peter Gomez, viene accolto dal pubblico con applausi scroscianti. Gomez era il direttore predestinato del Tg1. Nell’autunno 2018 racconterà di aver rifiutato l’offerta di dirigere quel telegiornale: «Sono convinto sarei stato libero, che sarebbe stato un primo passo, ok, ma che tutto il resto rimaneva lottizzato». A parte lui, tutto il resto sarebbe stato lottizzazione.

Da ben prima dei novanta giorni necessari alla formazione del governo, Beppe Grillo ha maturato un certo distacco anche umano dai protagonisti rampanti del Movimento al potere: il figlio di Gianroberto, Davide, e i giovani leader parlamentari incaricati di trattare con i leghisti, in primis Luigi Di Maio. Troppa la distanza anche emotiva da Casaleggio junior e dal giovane leader di Pomigliano, troppa l’estraneità di Grillo alla brama di potere di quei giovani. Grillo si sarebbe aspettato una qualche forma di riconoscenza, che non ha sentito di ricevere, e l’ha fatto capire: del resto, gli è impossibile staccarsi davvero dal Movimento, che vive come una creatura sua (e non di Casaleggio), e che lo consegnerà comunque sia ai posteri, nella storia d’Italia.

A Grillo non piaceva l’opportunismo e il carrierismo di tanti suoi figli politici; ma l’idea di accordarsi con la Lega non gli creava alcun problema, anzi: su questo ha sempre pensato esattamente quello che pensava il suo amico-mentore, Gianroberto Casaleggio. «Bossi è stato il più grande statista degli ultimi cinquant’anni», diceva il comico nel 2012, «ha denunciato le storture romane e stava con la gente, in mezzo alla gente». Cadde perché «poi ha fatto società con Roma ladrona». La Lega, ha raccontato Franca Equizi – per molti anni consigliera comunale della Liga veneta a Vicenza –, pensò addirittura di candidare (in un’èra pre-Movimento) l’ex comico a sindaco di Genova e Gianfranco Funari a Milano. Entrambi rifiutarono cordialmente. «Quel contatto – ha sostenuto la leghista – risale a uno dei primi ritrovi di Pontida». Grillo e Funari, il futuro Movimento e la tv populista (berlusconiana, ma lo stesso modello trionfò in Rai) sono stati elementi che hanno arato il terreno su cui è germogliato l’abbraccio tra Lega e Cinque stelle. Nel suo primo spettacolo dopo il varo del nuovo governo Conte, all’anfiteatro dell’Anima a Cervere, in provincia di Cuneo, mi capiterà di sentirgli pronunciare questa frase, che onestamente non mi stupisce: «Matteo Salvini è uno che sta facendo le cose, per davvero». Un endorsement così plateale e convinto da essere celebrato con le fanfare in un articolo apologetico di «Breitbart», il network di Steve Bannon, finanziato dal miliardario americano Robert Mercer e affidato alle sue due figlie Rebekah e Jennifer: i grandi finanziatori di Donald Trump. Bannon lo ritroveremo, naturalmente, nell’esecuzione. Tempo al tempo.

Il 28 maggio 2014 – proprio nel giorno in cui Grillo si incontra con Nigel Farage, leader dell’Ukip, a Bruxelles – il comico cofondatore del Movimento ha una lunga chiacchierata con Matteo Salvini. È un particolare che quasi nessuno nota, lì per lì, ma rimettendo assieme i pezzi del puzzle conferisce un altro elemento di necessità a quell’alleanza Movimento-Lega che, dopo il 4 marzo 2018, molti osservatori italiani vorranno spacciare come obbligata dal no di Renzi ai Cinque stelle. La storia è un’altra. È Salvini stesso a riferire, con dettagli più che sufficienti, la notizia e anche l’esito della chiacchierata, che sembra avere un sapore strategico, almeno secondo lui: «Volo a Bruxelles, pranzo con Marine Le Pen. A Malpensa ho incontrato Grillo. È sul mio aereo, lunga e interessante chiacchierata». Guarda il caso: Salvini e Grillo prendono lo stesso aereo verso Bruxelles. Dunque parlano, e non poco. E alla fine il leader leghista è molto contento. Non ci vuole granché a intuire dove si stia andando, ce lo lascia capire uno degli stessi protagonisti. Quel 28 maggio è un mercoledì. Anche Davide Casaleggio è a Bruxelles, racconta il «Corriere della Sera». È il suo esordio politico, in realtà stava lavorando da tempo a quell’intesa con gli ultraconservatori dell’Ukip, come vedremo più avanti. Non siamo in grado di dire se fosse anche lui sul medesimo aereo di Grillo e Salvini.

Nessuno dà a quella testimonianza diretta di Salvini un valore cruciale: eppure Lega e Movimento si stanno decisamente annusando. In Italia, e nello scenario (anti)europeo. Da allora in poi, cosa curiosa, parlare di colloqui, o addirittura incontri, tra i leader del Movimento e quelli della Lega diventerà una specie di sacrilegio, che costerà reazioni accesissime contro i giornalisti.

In un’altra occasione, nel giugno del 2017, Davide Casaleggio ha smentito indignato la circostanza, pubblicata da «Repubblica», di un suo incontro con Matteo Salvini, e fatto causa civile al giornale ritenendo diffamatorio che la sua smentita sia stata definita falsa (Casaleggio farà anche un esposto all’Ordine dei giornalisti, Di Maio farà invece una causa penale; l’esposto all’Ordine dei giornalisti è stato archiviato, mentre non si conosce l’esito degli altri procedimenti nel momento in cui scrivo). Un anno dopo il Movimento stringerà con il capo della Lega addirittura un contratto di governo, e quella che Salvini chiama «una coalizione», senza andare troppo per il sottile. La notizia di un filo, questa volta probabilmente a distanza, tra Casaleggio junior e Salvini è stata in seguito, nell’aprile 2018, riproposta anche sulle colonne di «Libero», da un giornalista non ostile verso il Movimento, Franco Bechis, successivamente indicato da Alessandro Di Battista come uno degli otto «giornalisti liberi» del panorama italiano, già tra i moderatori nel 2017 della prima convention di Ivrea per ricordare la figura di Casaleggio. A un altro quotidiano di destra, «La Verità», Casaleggio junior concederà la sua più importante intervista nella stagione nascente del nuovo governo, quella in cui preconizza una possibile fine del Parlamento nell’èra imminente della democrazia diretta.

Giancarlo Giorgetti non ha mai fatto mistero di aver avuto un dialogo a distanza con i Cinque stelle nella stagione che precede il governo e che simbolicamente si apre con una frase-manifesto di Matteo Salvini pronunciata il 7 giugno 2016: «Se fossi a Roma o a Torino, ai ballottaggi voterei Raggi e Appendino». Una modalità che si ripete. Ventitré anni prima, nel 1993, da un ipermercato a Casalecchio sul Reno, Silvio Berlusconi aveva preannunciato più o meno nello stesso modo la sua discesa in campo e la futura alleanza con la destra di Alleanza nazionale: «Tra Rutelli e Fini», aveva detto in piena campagna elettorale per il Campidoglio, «voterei Fini». La foto che ritrae Chiara Appendino e Matteo Salvini nell’ufficio del neoministro dell’Interno al Viminale, nei giorni dell’estate xenofoba del 2018 in cui il governo ha chiuso i porti alle Ong nel canale di Sicilia, è emblematica: a margine di un incontro per parlare di sicurezza, la prima cittadina appare sorridente e radiosa accanto al ministro del pugno duro contro i migranti. Sono le due facce, propagandisticamente diverse, di un’entità politica nata per convergere nello stesso campo, nell’idea di chi l’ha concepita: Gianroberto Casaleggio.

Insomma, due esperimenti che vengono da storie diverse, in epoche diverse – prima la Lega, poi il Movimento –, ma che condividono questo carattere di test compiuto sulla politica, alcuni schemi fondamentali d’azione e una cassetta degli attrezzi comune. Entreranno in competizione, sì, ma non perché sono diversi: perché si contendono lo stesso campo. «Stiamo facendo sperimentazione. Non c’è la democrazia diretta. Siamo i primi in Europa a perseguirla e non abbiamo esempi», dirà testualmente Gianroberto Casaleggio nell’aprile 2014 a Peter Gomez e Gianni Barbacetto sul «Fatto Quotidiano». L’esperimento conteneva in sé l’esecuzione per la natura stessa con la quale è progettato: una macchina di consenso che lascia agli eletti e ai governanti Cinque stelle semplicemente il compito di essere messa in pratica. «Il governo? Non sappiamo neanche noi cosa stanno decidendo», mi dirà desolato un parlamentare neoeletto nella primavera 2018.

Anche Beppe Grillo si esprime più o meno in questi termini, in un’intervista a «Newsweek» del maggio 2018 in cui racconta la genesi del Movimento parlando di «esperimento», e lasciando capire che agli eletti non tocca nient’altro che eseguirlo: «Tutto è partito dal mio incontro con Gianroberto Casaleggio, il manager di una piccola azienda di Internet, che aveva appena pubblicato un libro su Genghis Khan. Volevamo avviare un blog, e lo abbiamo fatto insieme. Abbiamo creato un blog tra i più popolari al mondo. Ero solo un comico, un motivatore di folle. Gianroberto mise a mia disposizione il potere del web e l’esperimento funzionò».

Se l’esperimento è il vero sistema operativo, l’esecuzione è la app, l’applicazione e l’insieme delle azioni contingenti necessarie appunto a eseguirlo e inverarlo: un software totalmente indifferente ai contenuti perché gli esecutori, a partire dal premier Giuseppe Conte, possono solo mettere in atto un contratto, aprire una app e seguire i comandi guidati. Dirà Grillo a «Repubblica»: «Noi siamo un po’ Dc, un po’ di destra, un po’ di sinistra. Possiamo adattarci a ogni cosa». L’esperimento è adattabile a tutto poiché la sua esecuzione è decisa a monte, dal cervello del Movimento, non dai suoi eletti e meno che mai dai militanti o simpatizzanti. Quando ci sarà da votare, diciamo così, il governo assieme alla Lega sulla piattaforma Rousseau, il 94 per cento degli iscritti al Movimento voterà sì.

Nel primo discorso al Senato per ottenere la fiducia, il presidente del Consiglio incaricato riassumerà il senso della sua missione usando tre parole, tutte concepite con l’aiuto dei collaboratori di Casaleggio – che nel frattempo ha aperto una sede fisica a Roma – con la supervisione di Davide Casaleggio e del suo braccio destro Pietro Dettori. Nell’aula di Palazzo Madama Conte si limita a leggere qualcosa su cui non trasmette l’impressione di avere integrale potestà: «Sul piano metodologico la nostra iniziativa si articolerà su tre fronti: ascolto, perché prima di tutto vengono i bisogni dei cittadini. In questo ci aiuteranno anche il Parlamento e i nuovi strumenti di democrazia diretta [...]. L’esecuzione, vogliamo essere pragmatici. [...] Il controllo. I provvedimenti che adotteremo hanno degli obiettivi che devono essere raggiunti. Saremo i primi a monitorare con severità e rigore la loro efficacia». Il giorno dopo, in una travagliata replica del discorso, stavolta nella più calda dimensione della Camera dei deputati, Conte perde i foglietti e si gira, in un momento quasi di panico, verso il suo vice, Luigi Di Maio. Il microfono è acceso: «Questo posso dirlo?». E Di Maio, secco: «No». La dimensione orwelliana dell’esperimento s’invera nella disponibilità a tutto dell’esecuzione. Un giurista esperto chiede il permesso a un giovane senza particolari esperienze, che però in quel momento rappresenta il trait d’union tra Casaleggio e il Movimento ormai dentro le istituzioni.

Claudio Messora, ex capo della comunicazione del Movimento al Senato e poi al Parlamento europeo, ha raccontato che «per Gianroberto la politica era anche un esperimento, non certo un percorso facile. Voleva a ogni costo evitare le derive tipiche dei partiti, e per questo c’era l’idea dei parlamentari come portavoce, la rotazione negli incarichi di vertice». Esperimento, ancora, ed esecuzione. Messora è stato uno degli uomini del vasto network di relazioni sovraniste che in questi anni hanno avvicinato sempre più le due linee convergenti del Movimento e della Lega, con tanti personaggi e reti di rapporti che incontreremo e descriveremo più avanti.

Del resto, che l’esecuzione potesse portare in modo quasi necessario all’incontro con la Lega lo fece capire qua e là proprio Gianroberto Casaleggio, anche nel riferimento esplicito al concetto di sovranità, innanzitutto economica. Una volta, intervistato dal «Fatto Quotidiano» nell’aprile 2014, ricostruì così la storia della rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale: «C’è quell’invito all’ambasciata inglese a Roma. Era il 10 aprile 2013, una settimana prima delle presidenziali. Eravamo Grillo, io e due nostri collaboratori. L’ambasciatore ci chiese di incontrare Enrico Letta, allora vicesegretario Pd, che aspettava in un’altra stanza. Rifiutammo. Allora ci fecero salire al piano di sopra da una scala di servizio per pranzare con alcuni addetti dell’ambasciata, mentre l’ambasciatore pranzava al piano di sotto con Letta. A un certo punto l’ambasciatore o il suo braccio destro ci domandò: voi che ne pensate della rielezione di Napolitano? Poi, quando due settimane dopo ci trovammo Napolitano rieletto e Letta presidente del Consiglio, ci dicemmo che forse qualcosa non quadrava... È una prova della forte influenza che i governi stranieri hanno sulle scelte politiche italiane. Non certo solo la Germania». Dove, al di là della teoria cospiratoria sulla vicenda, colpisce soprattutto, a ripensarci oggi, il riferimento lessicale esplicito al sovranismo: «È una delle tante facce della nostra perdita totale di sovranità: quella territoriale la perdemmo nel ’45, quella monetaria con l’ingresso nell’euro, quella fiscale con il fiscal compact, quella politica negli ultimi anni. Per andare al governo dovremo vincere le Politiche in almeno tre paesi del mondo».

Non è dato sapere se Casaleggio pensasse, in successione, al referendum sulla Brexit, alla vittoria di Donald Trump nella campagna presidenziale americana, e al voto del 4 marzo 2018 in Italia. La Russia possiamo escluderla, perché lì l’esito del voto per Vladimir Putin non è mai stato in discussione. Ma sappiamo anche, da frasi come queste, quanto l’orizzonte di Gianroberto Casaleggio si sia giocato su un piano più vasto di quello semplicemente italiano.