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Soros. L’antisemitismo
Alle 9,45 di sabato 27 ottobre 2018, durante la cerimonia per shabbat, un terrorista fa irruzione nella sinagoga The Tree of Life, nell’area residenziale di Squirrel Hill, a Pittsburgh, e apre il fuoco all’impazzata. Uccide undici persone, ne ferisce gravemente altre sei. L’attentato avviene nei giorni in cui tredici pacchi bomba vengono recapitati a leader democratici americani, tra i quali l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama, e a George Soros, il miliardario ungherese di origini ebraiche. Il terrorista di Pittsburgh si chiama Robert Bowers, è bianco, ha 46 anni. È un estremista di destra attivo sul social media di alt-right Gab: la sua pagina viene immediatamente cancellata, ma negli archivi restano post di brutale violenza antisemita, con scritte come «gli ebrei sono figli di Satana», invettive contro Israele, diffusione di disinformazione e istigazione alla violenza contro fondazioni come quella presieduta da George Soros. Nell’ultimo post archiviato prima della sparatoria, Bowers scrive: alla no profit Hebrew Immigrant Aid Society «piace portare invasori per uccidere la nostra gente. Oggi vado. Sono stanco di vedere la mia gente macellata».
Gab è un social network relativamente piccolo, che il fondatore Andrew Torba definisce un luogo consacrato al totale free speech, ma che nei fatti – come spesso accade a chi teorizza una libertà senza regole in nome del no a ogni censura – ha assunto sempre più una chiara piega di strumento dell’ultradestra americana e delle sue propaggini organizzate ma non ufficiali. Torba cita, tra le due ragioni che l’hanno spinto ad aprire Gab, il fatto che Facebook abbia a suo dire completamente soppresso le notizie della galassia conservatrice, e «il Grande Monopolio dei social interamente di sinistra». La circostanza naturalmente stride con la mole enorme di pagine e gruppi Facebook che vanno in tutt’altra direzione, politica e ideologica, ma fa capire chi fosse l’attentatore di Pittsburgh, e il social su cui amava esprimersi: un soggetto paranoico chiuso a chiave in uno dei social più claustrofobici, monolitici e monotematici, con una predominanza sconfortante di antisemitismo, suprematismo bianco e razzismo.
Su Gab, che dopo l’attentato viene chiuso, ha libera cittadinanza Alex Jones, animatore di «Infowars», bannato invece, sia pure tardivamente, da Twitter e Facebook. Twitter stessa, proprio il sabato della strage in sinagoga, è costretta a pubblicare una dichiarazione di scuse per non aver chiuso l’account di Cesar Sayoc (o Cesar Altieri), il terrorista dei pacchi bomba. Anche Sayoc aveva una carriera di minacciatore seriale sui social (tra l’altro, anche di giornaliste come Rochelle Ritchie) ed era stato più volte segnalato sul network, ma mai bannato. Per un pugno di dollari (e traffico), social mainstream, non solo le nicchie come Gab, tollerano praticamente tutto sulle proprie piattaforme ancora nell’inverno 2018, quello delle elezioni americane di midterm in cui, nonostante tutto, Donald Trump riesce a superare una prova che si annunciava difficile, conquistando il Senato (sia pur perdendo la Camera).
Jonathan Albright, professore di digital media alla Columbia University, uno dei massimi esperti in materia, ha pubblicato nell’autunno 2018 una ricerca relativa a Instagram in lingua inglese, il cui focus era il comportamento anomalo, coordinato e addensato, attorno all’hashtag #Soros. Albright ha rilevato non solo la profonda clusterizzazione di una serie di account della destra alternativa, sovranista e pro-Trump, ma anche una notevole vicinanza topologica, di rete, tra quegli account e lo stesso account ufficiale del presidente americano. Lo studioso ha anche invitato il network a chiudere quell’hashtag, ormai una chiarissima istigazione alla violenza antisemita. La cosa non è avvenuta.
L’antisemitismo non è però una prerogativa esclusiva dei network della alt-right americana, o del particolare movimento alt-tech che di fatto la fiancheggia e affianca, offrendole piattaforme quasi dedicate in nome del più malinteso concetto di libertà d’opinione. Attorno agli stessi modelli, alla medesima valigetta di utensili – per esempio le violentissime campagne contro George Soros, che non a caso verrà scelto come personaggio positivo dell’anno dal «Financial Times» – si celebrano i sabba più sconsiderati un po’ ovunque. A Parigi, nel febbraio 2019, un gruppo di gilet gialli avvicina per strada il filosofo francese di origini ebraiche Alain Finkielkraut – accademico di Francia, figlio di ebrei polacchi rifugiati in Francia dopo essere stati internati ad Auschwitz e aver visto sterminate le proprie famiglie – e gli grida: «Vattene, sporco sionista di merda», «bastardo», «sporco razzista», «è venuto apposta per provocarci», «la Francia è nostra», «torna a casa tua», «torna a Tel Aviv», «il popolo siamo noi», «il popolo ti punirà». La scena, agghiacciante, viene ripresa e finisce online. Qualcuno si ostina a volerci vedere una critica al sionismo, anziché antisemitismo. Il «Corriere della Sera» titola appropriatamente: «Parigi, gilet gialli contro Alain Finkielkraut: grida aggressive e insulti antisemiti». Il presidente francese Emmanuel Macron non ha dubbi che sia così: «L’antisemitismo si maschera sotto l’antisionismo. Non si tratta di modificare il codice penale, e neanche di impedire le critiche al governo israeliano. Si tratta di riaffermare che sotto l’odio di Israele si nasconde spesso l’odio degli ebrei».
Il Movimento ha vigilato abbastanza, nel suo mondo, contro i rischi di narrative di tale violenta intensità? C’è una storia esemplare, ognuno darà la sua risposta. Alle 17,06 del 20 gennaio 2019, un senatore Cinque stelle, Elio Lannutti, twitta: «Gruppo dei Savi di Sion e Mayer Amschel Rothschild, l’abile fondatore della famosa dinastia che ancora oggi controlla il sistema bancario internazionale, portò alla creazione di un manifesto: “I Protocolli...”». E, di seguito, un link che rimanda a un testo che riassume i «Protocolli dei Savi di Sion», un celebre falso della polizia politica zarista, l’Ochrana, all’origine di tanto antisemitismo contemporaneo. Lannutti, che cancellerà il tweet negando di essere antisemita, viene querelato da Ruth Dureghello, a nome della Comunità ebraica romana, per istigazione all’odio razziale, e oggi è indagato dalla Procura di Roma. Non è la sola polemica che attraverserà l’universo Cinque stelle.
Nel novembre 2018 viene ripubblicato online un video di Rocco Casalino, attuale portavoce del premier, che in una lezione alla scuola di giornalismo della Provincia di Milano (nel 2004) diceva: «Bush parla di Bene contro il Male e semplifica un paese come l’Iraq che ha una complessità storica. Lo può fare perché siamo abituati alla semplificazione. Un periodo come la Seconda guerra mondiale siamo abituati a semplificarlo come “Hitler=Male” e “Ebrei=poveretti”, e basta, senza comprendere la complessità storica che ha portato i tedeschi a odiare gli ebrei e poi incenerirli, per quanto ingiusto». Benché Casalino si sia difeso spiegando che si trattava di una performance, di fatto recitata, al Centro teatro attivo di Milano (ma il Centro smentisce di aver organizzato quel corso, e il giornalista che lo organizzò, Enrico Fedocci di Mediaset, ha spiegato che si trattò di una lezione in un corso di giornalismo), la Comunità ebraica ha protestato formalmente col governo chiedendo «un chiarimento più convincente delle motivazioni finora addotte». Casalino ritenne di andare infine in tv da Fazio a spiegarsi. Se del resto fosse stata una recita, sarebbe stato davvero meno grave recitare quelle frasi sui down o sugli ebrei?
Fatto è che episodi sconcertanti sono avvenuti ciclicamente, persino in epoca recentissima, quella che porterà i Cinque stelle al governo. Nel maggio del 2017, sul blog delle stelle ancora gestito dagli uomini di Davide Casaleggio, Beppe Grillo firma un altro dei suoi post incendiari, uno dei più pericolosi, proprio contro Soros, il «miliardario grazie alle speculazioni finanziarie sulla pelle dei cittadini come quella del ’92 contro l’Italia che causò una perdita del 30 per cento del valore della lira e una perdita valutaria pari a 48 miliardi di dollari», che «ieri è stato accolto con tutti gli onori dal presidente del consiglio Gentiloni. In barba alla trasparenza, doverosa nel suo ruolo di istituzione, il premier ha tenuto l’incontro nascosto: Palazzo Chigi non ha rilasciato alcun comunicato né prima né dopo l’incontro e la vicenda è diventata di dominio pubblico grazie a un’agenzia di stampa. In che veste Gentiloni ha incontrato Soros e in che veste Soros è stato ricevuto da Gentiloni? Se lo ha fatto da premier perché lo ha tenuto nascosto? Sono amiconi e si sono visti solo per un tè? Difficile da credere e da accettare che il presidente del Consiglio si dedichi a momenti di svago mentre attorno a lui c’è un Paese a pezzi».
E ancora, alimentando il più torvo complottismo, Grillo chiede: «Presidente Gentiloni, di cosa avete parlato con Soros? Il miliardario l’ha avvisata che è in vista un’altra speculazione? Vuole comprare a prezzi ridicoli qualche gioiello italiano che ancora non è passato in mani straniere? Si è lamentato per l’inchiesta del procuratore Zuccaro sulle Ong che agirebbero come taxi del Mediterraneo e che sono finanziate con milioni di dollari ogni anno da Soros stesso? Le ha chiesto di intervenire per bloccare l’inchiesta? E lei invece: le ha chiesto conto dei danni arrecati all’Italia 25 anni fa? Le ha chiesto conto dell’attività delle Ong da lui finanziate nel Mediterraneo?». Traduciamo noi, e perdonate la brutalità, il sottotesto che penetra di fatto nel dibattito come un veleno: l’ebreo Soros sta finanziando l’immigrazione clandestina.
Quando il «New York Times» scopre e ricostruisce, fatti alla mano, alcune esagerazioni contenute nel curriculum del professor Giuseppe Conte, l’autore dell’articolo, il capo dell’ufficio di Roma Jason Horowitz, diventa l’oggetto di una operazione di diffamazione pesante sui social pro-Movimento e pro-Lega: una serie di account gli scagliano addosso il peggiore arsenale antisemita, omofobo e reazionario (conserviamo gli screenshot dei tweet e dei loro autori, che non vogliamo qui riprodurre). Nessuno nel Movimento cinque stelle si dissocia da quelle aggressioni antisemite.
Quando Federico Fubini, mesi dopo, ricostruisce sul «Corriere» il ruolo di Paolo Savona nel fondo britannico Euklid, e l’ammontare dei suoi soldi legittimamente detenuti all’estero, si scatena contro di lui un’analoga contraerea che anche qui trascolora nell’antisemitismo: se cito queste aggressioni ripugnanti è perché riguardano passaggi importanti della storia di governo del Movimento, e perché se ne fanno a volte latori anche personaggi ufficiali del Movimento. Sempre il senatore Cinque stelle Lannutti, incredibilmente, scrive su Twitter: «Fubini, ventriloquo di Soros, criminale speculatore sulla lira e dei brigatisti degli spread agitato dalle élite per schiavizzare i popoli e la sovranità democratica, nemico degli italiani. Informatevi!». Nessuno dice niente. Casaleggio e Di Maio vollero a tutti i costi candidare Lannutti, e si rese necessario un «responso giuridico» ad hoc perché secondo le regole del Movimento non può correre alle elezioni chi è stato già eletto in un altro partito (Lannutti lo fu nell’Italia dei Valori, anche quella una formazione politica di cui Casaleggio curò la comunicazione online).
Il neoeletto senatore già prima del 4 marzo aveva proposto cose come questa: «Le ong finanziate da Soros e altri ideologhi della sostituzione etnica, oltre ad essere bandite dovranno essere affondate. Tolleranza zero!». Dopo, arrivò anche a twittare: «Una norma per arrestare il criminale speculatore [Soros] sulla lira, nemico dei popoli liberi, appena mette piede sul suolo italiano». In piena consonanza culturale con celebri tirate di Matteo Salvini, ripetute tante volte. Citiamone una delle più sobrie, consegnata al «Giornale»: «Penso che Soros sia una persona assolutamente negativa, che sta finanziando con centinaia di milioni di euro la dissoluzione della civiltà occidentale». Guarda caso, la stessa tesi sostenuta da Beppe Grillo nel post che abbiamo citato, e variamente poi rilanciata nella propaganda, a volte anche da soggetti ufficiali, di Lega e Movimento cinque stelle. Soros come il grande finanziatore dell’invasione di migranti e della «sostituzione etnica».
Operazioni di disinformazione, nella stagione dell’esecuzione che porta l’esperimento da movimento a governo, continuano dunque ad avvenire, ma hanno allargato i bersagli. Se prima erano Matteo Renzi e Giorgio Napolitano, i leader del Pd o la casta, ora diventano sempre più il «complotto della finanza ebraica», Soros, appunto, o i poteri forti, l’Unione europea, i mercati, Goldman Sachs: pazienza che proprio Steve Bannon venga da quella banca. Si produce, nella macchina social italiana a favore dei partiti di maggioranza, disinformazione letale, come la notizia di un’intercettazione tra Soros e Rothschild, nella quale alla fine del 2018 il primo dice «farò cadere Salvini e Di Maio entro tre mesi». Intercettazione falsa, ovviamente, ma diventa virale.
Il network sovranista è tra i più scatenati, e in questo network compariva spesso anche l’account ufficiale di Marcello Foa (fino alla nomina in Rai; poi chi lo gestisce ha deciso di non taggare più il suo account in quelle Twitter list). Foa in compenso va ripetendo la narrativa anti-sorosiana ormai in sedi mainstream: nella prima intervista pubblica da presidente Rai dice al giornale israeliano «Haaretz» che «un enorme numero» di parlamentari europei, inclusa «l’intera delegazione del Pd», è finanziato da Soros. Il vicepresidente del Parlamento europeo, l’eurodeputato del Pd David Sassoli, lo querela: «Mai avrei immaginato di dover querelare un presidente della Rai».
Ma la stagione è pericolosa, e succedono cose culturalmente inimmaginabili anche solo fino a poco tempo prima. In un’intervista divenuta celebre, il «Corriere della Sera» domanda a Foa: «Lei è ebreo? Glielo chiedo solo perché i suoi detrattori la accusano persino di questo». Foa, particolare allarmante, non ribatte a quella domanda con la più giusta delle risposte (ossia: e anche se fossi ebreo?), anzi: «No, sono cattolico come i miei genitori. La mamma, greca, nacque ortodossa. Era ebreo il nonno Egizio, che s’innamorò di una cattolica e la sposò». L’intervistatore il giorno dopo si scuserà sul «Corriere», spiegando che il suo sentimento era l’opposto dell’antisemitismo, ma la risposta di Foa «ha contribuito a rafforzare l’equivocità del quesito».
Nella stagione di governo torna alla mente la vicenda, raccontata per esteso nell’Esperimento, dell’uscita del socio di Casaleggio, Enrico Sassoon, dall’azienda di Gianroberto, e della sua delusione per il fatto di non esser stato difeso, dal manager che fondò il Movimento, quando Sassoon fu oggetto di una vergognosa campagna antisemita nella rete pro-Grillo. Senonché oggi atteggiamenti e clima culturale si riflettono in decisioni concrete, governative o parlamentari. Poco prima del 16 ottobre 2017, la giornata dell’anniversario del rastrellamento degli ebrei nel ghetto di Roma, la Cinque stelle Marta Grande, oggi diventata presidente della Commissione esteri di Montecitorio, ritenne di ospitare alla Camera le tesi antisemite di Morteza Jami e Alireza Bigdeli, i due iraniani del medesimo istituto (l’Institute for Political and International Studies) che aveva tenuto a Teheran un famigerato convegno negazionista sull’Olocausto.
Sentimenti e dichiarazioni anti-Israele si mescolano spesso e si confondono, nell’universo del Movimento, con echi neanche tanto lontani di antisemitismo. Un cortocircuito che viene da lontano: Menachem Gantz, corrispondente in Italia del giornale israeliano «Yedioth Ahronoth», nel 2012 fece a Grillo un’intervista che suscitò grande allarme, per i giudizi del paziente zero del Movimento su Israele e sulla lobby ebraica nell’informazione, e per le visioni pro-Iran (Grillo citava come fonte suo suocero, il padre di sua moglie, iraniana). Si parla di tanti anni fa; ma con il Movimento ormai lanciato verso il governo, le cose non sono cambiate. Manlio Di Stefano, grande ammiratore di Vladimir Putin, uomo di contatto con emissari del presidente russo, oggi sottosegretario al ministero degli Esteri, nel maggio 2017 compila su Facebook una lista di giornalisti a suo dire «complici di Israele». Operazione pericolosissima in sé, e infatti la stura dei commenti sulla sua pagina fu tremenda.
Nella settimana precedente le elezioni del 4 marzo 2018, «Pagine ebraiche 24», quotidiano dell’ebraismo italiano edito dall’Ucei, descrisse con estrema preoccupazione le posizioni di un consigliere di Luigi Di Maio, da lui candidato a ministro dell’Industria: «Ha destato inquietudine e indignazione nel mondo ebraico italiano la notizia della candidatura a ministro dell’Industria da parte del M5S – in un eventuale governo Di Maio – di Lorenzo Fioramonti, docente di economia contraddistintosi in passato per aver sostenuto la campagna d’odio e boicottaggio contro Israele». Il giornale ricordava anche come il candidato di Di Maio «fosse arrivato persino a rifiutare di partecipare a un evento in Sudafrica, dove insegna, perché era prevista la presenza dell’ambasciatore israeliano Arthur Lenk». Di Maio negò risolutamente che Fioramonti fosse antisemita. Spiegò che il professore avrebbe parlato con l’ambasciatore per chiarire l’equivoco. Grillo stesso ha sempre negato di essere antisemita, talvolta protestando vibratamente, e professandosi non responsabile dei commenti sul suo blog, spesso inondati di chiose razziste o esplicitamente antisemite. E certo è del tutto legittima ogni critica ai governi di Israele: ma il complottismo di cui sono spesso venate queste critiche nella vicenda del Movimento ha alimentato un humus che di fatto ha rilegittimato atteggiamenti antisemiti, fossero anche al di là delle intenzioni. Era Grillo – sul suo blog gestito alla Casaleggio – ad aver scritto contro «l’industria dell’Olocausto»? Era Grillo ad aver difeso gli attacchi di Mel Gibson agli ebrei? O era una mano diversa dalla sua ad aver scritto?
La situazione si è complicata, nella stagione dell’esecuzione, perché gli stessi schemi e stilemi della propaganda antisemita sono stati abbracciati non solo dalle destre e dai populisti in Europa, con l’hashtag #Soros dominante, ma persino dalla destra israeliana più dura, che spesso ha finito per agitare lo stesso nemico sui social: Soros. Nell’estate 2017, in vista delle elezioni ungheresi della primavera successiva, il partito di Viktor Orbán ha tappezzato le città con un manifesto col volto di Soros e la scritta: «Il 99 per cento degli ungheresi rifiuta l’immigrazione clandestina. Non lasciate che Soros rida per ultimo». L’ambasciatore israeliano a Budapest protestò energicamente, ma intervenne il premier Benjamin Netanyahu a smussare, attaccando Soros, anziché Orbán: «In nessun modo l’affermazione [della nostra ambasciata] voleva delegittimare le critiche a George Soros, che continuamente indebolisce i governi d’Israele democraticamente eletti, elargendo fondi a organizzazioni che diffamano lo Stato ebraico e tentano di negare il suo diritto all’autodifesa». Non molto tempo dopo, Netanyahu era in visita da Orbán.
Yair Netanyahu, il figlio ventiseienne del premier israeliano, ha postato su Facebook un meme, «La catena del cibo», nel quale si vedono Soros che guida come burattini i rettiliani – alieni che secondo teorie complottiste sarebbero sulla terra per dominarla –, un mercante massonico dal naso adunco e accanto il simbolo degli illuminati, l’ex premier Ehud Barak, e Eldad Yaniv, oppositore di Netanyahu. Curioso come, anche a Gerusalemme come a Roma, figli scatenati e ultrasovranisti portino ancora più a destra, nel populismo autoritario, la destra dei loro stessi genitori.
Le destre sovraniste e ultranazionaliste, e i populismi anti-establishment più o meno autoritari – compresa la compagine della maggioranza di governo italiana –, trovano un terreno comune anche con la destra israeliana? Esisteva un filo, tra tutte queste propagande anti-Soros, anti-internazionaliste, nazionaliste, populiste nel segno dell’autoritarismo? O erano tutte e solo coincidenze? Esistevano, per caso, anche interessi geopolitici comuni?
Il «New York Times» ha raccontato che il 3 agosto 2016 un israeliano nato in Australia, Joel Zamel, offrì a Donald Trump junior i servizi di un’azienda israeliana, Psy Group, legata a elementi provenienti dall’intelligence di quel paese, e specializzata in operazioni psicologiche e disinformation warfare, guerra di disinformazione nelle campagne elettorali. Servizi che il figlio di Trump avrebbe accettato con entusiasmo (la campagna Trump ha poi negato di aver mai usato i servizi di Psy Group). Il 31 ottobre 2018 un giornale israeliano molto accreditato sui temi della sicurezza nazionale, «Walla! News», ha scritto che vi sarebbe stata un’altra società israeliana, Inspiration, fondata da un agente dei servizi israeliani in pensione, Ronen Cohen, in contatti con la campagna Trump tre mesi prima del voto di novembre 2016. Christopher Wylie, il whistleblower di Cambridge Analytica, aveva rivelato che la società che ha lavorato per la campagna presidenziale di Trump era al lavoro anche con uomini dell’intelligence israeliana. Zamel fu l’uomo che offrì il sostegno al figlio di Trump.
Il reporter investigativo Seth Abramson, nel suo libro Proof of Collusion, ha ricostruito altri passaggi anche grazie a un’inchiesta del giornale israeliano «Haaretz»: un altro uomo collegato all’entourage Trump, Ben Carson, presentò a un comitato non ufficiale pro-Trump (uno dei Super-Pac più grossi della campagna elettorale trumpiana) un’altra azienda di “psy ops” israeliana. Con Carson avevano già collaborato in precedenza – scrive Abramson – sia il generale Michael Flynn (primo consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, e anche il primo costretto a dimettersi per aver mentito agli investigatori federali nell’inchiesta Fbi sul Russiagate) sia George Papadopoulos, un giovane consigliere reclutato nella campagna Trump. Papadopoulos incrocerà anche la storia italiana, la storia dell’esecuzione, quando si troverà sulla strada di un uomo chiamato Joseph Mifsud.