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Steve Bannon
Il 4 marzo 2018 le elezioni politiche italiane assegnano al Movimento il 32,68 per cento e alla Lega il 17,35, primo partito della coalizione di centrodestra. Insieme, potenzialmente, hanno dunque metà dell’elettorato. L’elenco delle prime persone nel mondo che esultano, o manifestano soddisfazione alla vittoria di M5S e Lega, è questo: Steve Bannon, Nigel Farage, Marine Le Pen, Julian Assange, Dmitri Peskov, il portavoce di Vladimir Putin. Curiosamente, tutti i soggetti elencati sommano già questi partiti, li trattano come un vincitore unico.
Tre giorni prima del voto è arrivato in Italia Steve Bannon, ex senior strategist alla Casa Bianca con Donald Trump, fondatore e poi vicepresidente di Cambridge Analytica – la discussa società di profilazione ed estrazione dati finita al centro dello scandalo con Facebook, per esfiltrazione illegale di dati da 280mila profili Facebook di partenza, che hanno poi consentito di profilare e targettizzare 87 milioni di americani nella stagione delle elezioni che eleggeranno Trump presidente. Facebook subirà nell’autunno 2018 un altro enorme data breach, stavolta diretto, una violazione da parte di hacker non ancora identificati che hanno messo le mani sui token – in pratica le chiavi digitali – di accesso a 50 milioni di profili. In sostanza, in una stagione elettorale fondamentale, quella che va dalle elezioni politiche del 4 marzo in Italia alle elezioni europee del 2019, passando per le elezioni americane di midterm, dati sensibili di milioni di utenti sono ormai in liberissima uscita nel mercato delle targettizzazioni politiche. Non c’è neanche più bisogno di esfiltrarli con la frode, o eventualmente rubarli: i dati sono stati ampiamente hackerati. Circolano. Si tratta solo di saperli macinare, con algoritmi adeguati.
Come che sia, Bannon si incontra a Milano con Matteo Salvini e un ristretto ma interessantissimo gruppo di persone. L’ex strategist di Donald Trump, tra l’altro amico e sodale di Nigel Farage (l’alleato europeo di Davide Casaleggio) e del finanziatore principale dell’Ukip, Arron Banks, ha trascorso la settimana pre-elettorale in Italia, acquartierato all’hotel Raphaël di Roma: l’hotel utilizzato a suo tempo da Bettino Craxi e dal suo mondo, teatro e fondale dello storico e feroce lancio delle monetine contro l’allora leader socialista, simbolico punto d’inizio di una storia che venticinque anni dopo sfocia infine nel trionfo dei populisti in Italia. All’indomani del risultato elettorale italiano, Bannon confida subito a Jason Horowitz del «New York Times» che un’alleanza di governo tra Lega e Movimento cinque stelle è «the ultimate dream», «il sogno finale» per il quale sta lavorando da tempo. Quell’alleanza, nella visione di un certo gruppo di persone, si colloca in un network internazionale che fa parte di un esperimento più generale. «L’Italia è leader, è la summa di tutto, siete un laboratorio», spiega a chi lo intervista. Ma in quel momento siamo solo all’inizio di un vasto tour europeo di Bannon, che ha l’ambizione per nulla nascosta di incunearsi nelle divisioni dell’Unione europea e amplificarle.
Attenzione, Bannon è un frontman, particolarmente estroverso, forse anche desideroso di autopromozione, non il genio diabolico cui a volte indulge l’industria dei media. La sua figura è però estremamente rilevante, perché portatrice di un’idea che lo oltrepassa, e appartiene a circoli ultraconservatori americani che hanno in lui uno dei tanti esecutori. I tanti pazienti zero di un virus. Quell’idea era cominciata a circolare almeno quattro anni prima, nelle riviste, nei network, e tra i finanziatori della alt-right anglosassone, con ottimi amici russi. Due mesi dopo le elezioni italiane del 2018, a maggio, questo vulcanico, intelligentissimo, miliardario agit-prop della destra americana e internazionale (un patrimonio stimato tra i 20 e i 40 milioni di dollari, e una evidente abilità nel fare rete, a partire dai suoi due primi sponsor, i miliardari americani Robert e sua figlia Rebekah Mercer, che lo collocano sulla tolda di comando di «Breitbart», il sito dell’ultradestra americana, e poi di Cambridge Analytica) sarà in Ungheria ospite di Viktor Orbán, il premier ungherese di destra xenofoba. Un uomo con il quale anche Matteo Salvini, da mesi, sta costruendo un rapporto di grande sintonia. E a favore del quale Lega e Movimento voteranno compatti una mozione alla Camera dei deputati.
Bannon è uomo di origini semplici, è nato a Norfolk, Virginia, da una famiglia di operai democratici. Sa farsi capire dal popolo, sa parlare chiaro, sa essere anche avvolgente. Si veste con vecchi pantaloni Chinos e camicie bianche stazzonate, usa compulsivamente un Blackberry, ama parlare in pubblico. Il 6 marzo ha proseguito il suo giro europeo in Svizzera. È stato a Zurigo, a un evento organizzato da un settimanale di ultradestra, «Die Weltwoche», invitato da Roger Köppel, parlamentare dell’Udc, la formazione di destra radicale svizzera. E lì ha tessuto un elogio delle criptomonete intese come strumento alternativo per finanziarsi a disposizione dei partiti populisti e anti-sistema. Jeffrey Wernick, un ex trader nella banca d’investimenti americana Salomon Brothers, che si è reinventato come evangelista di blockchain e criptomonete, ha dichiarato a «Wired» che Bannon starebbe concretamente lavorando a un progetto di criptomonete per finanziare movimenti alternativi al sistema politico e finanziario dominante. Cosa che è stata confermata anche da un imprenditore che sta lavorando al progetto. Quelle stesse criptomonete che un report dell’Atlantic Council ritiene invece uno strumento chiave nel riciclaggio e nell’occultamento di finanziamenti ai partiti politici in questa fase geopolitica.
In Svizzera Bannon è stato poi a Castagnola, Lugano, a casa del miliardario Tito Tettamanti. Incontro cruciale. Tettamanti, finanziere di destra del Ticino, patrimonio stimato in un miliardo, con il suo gruppo Fidinam ha in portafoglio facoltosissimi clienti. Una rete di relazioni e di potere economico che certamente potrebbe aiutare il progetto di cui il vecchio Steve è solo il mediatore, diciamo così: lanciare un Movimento internazionale che si chiamerà – tra i tanti possibili nomi – The Movement, avrà sede a Bruxelles, nel cuore dell’Europa, e la forma giuridica di una fondazione che prenderà il via qualche mese più tardi, nel settembre 2018. Per un progetto così ambizioso servono naturalmente soldi.
Non sappiamo cosa i due si dicano a Lugano. Certo è che Tettamanti, tra le tante altre cose, ha scritto in questi ultimi due anni pezzi encomiastici per Donald Trump sul «Corriere del Ticino», amministrato da Marcello Foa, giornalista italo-svizzero, ex capo degli esteri della redazione del berlusconiano «Il Giornale», un intellettuale diventato negli anni sempre più filoputiniano, nonché ospite fisso di «Sputnik» e RT (Russia Today), il network del Cremlino. All’incontro Bannon-Tettamanti è tra gli invitati anche Foa, che a fine luglio 2018 verrà indicato – dalla Lega ma, attenzione, è stimatissimo anche nell’ambiente delle persone più vicine a Casaleggio – come presidente Rai; una nomina non sorprendente di una figura a cavallo tra universo leghista e Cinque stelle, già totalmente intrecciati. Ci torneremo.
In quel momento, però, Foa è solo un giornalista dai punti di vista eccentrici, molto vicino alle narrative di Mosca (sulla Crimea, sul Donbass, sulle basi Nato), difeso ed elogiato dal sito «Silenzi e Falsità», che ne rilancia a spron battuto gli articoli e i post Facebook. «Silenzi e Falsità» è un luogo originale dell’Italia di questi anni, vero incubatore per l’intesa di Movimento e Lega: gestito da Marcello Dettori (per un periodo a Praga) da Cagliari, sede della nuova Moving Fast Media, è un sito che pubblica contenuti web molto orientati, agiografici verso Vladimir Putin (i critici dicono propaganda, e al limite misinformation o clickbaiting, spesso anche sui migranti, all’insegna dello slogan «quello che i media non dicono»). Le notizie pubblicate dal sito sono state spesso riprese e rilanciate in questi anni dentro un vasto network non ufficiale di pagine e gruppi Facebook pro-Movimento cinque stelle e pro-Lega, nei quali da anni era ormai evidentissima una convergenza. I bersagli di questo mondo sono ovviamente la casta, le élites, gli establishment liberal, soprattutto i leader del Pd, gli ultimi due presidenti della Repubblica italiani, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, il tutto quasi sempre condito da una polemica fortissima anti-migranti.
Marcello Dettori è fratello di Pietro, il factotum storico dei Casaleggio, Gianroberto prima, Davide poi. Pietro è stato social media manager della Casaleggio per lunghi anni, spesso autore materiale di post del blog di Grillo (oggi è fisicamente a Palazzo Chigi, chiamato dal vicepremier Luigi Di Maio). Prima di lavorare per la Casaleggio (per cui anche Marcello ha lavorato per alcuni anni) è stato a Londra, dove ha operato nel web marketing.
Il lavoro dei Dettori, vicinissimi ai due Casaleggio, ha di fatto contribuito a creare, assieme a Foa e altri, uno degli ambienti principali, su Internet, di convergenza del Movimento cinque stelle con la Lega. Marcello Dettori, per smentire la notizia (apparsa sull’«Espresso») che il Gruppo Corriere del Ticino, diretto da Marcello Foa prima che fosse indicato come presidente Rai, fosse cliente di Moving Fast Media, ha però detto che effettivamente le strade dei due ambienti s’erano incontrate da vicino: «Io, Marcello Dettori, attuale amministratore unico di Moving Fast Media, ho collaborato in passato come consulente con il Gruppo Corriere del Ticino (allora Media TI Holding). Ho tenuto un corso sulla comunicazione social ai giornalisti del gruppo. La collaborazione è cominciata a gennaio 2016 e si è conclusa ad aprile dello stesso anno. La mia attività da consulente è terminata a dicembre 2017, e a gennaio 2018 ho fondato Moving Fast Media». Nicola Biondo, ex capo della comunicazione del Movimento alla Camera, e a lungo amico e collaboratore di Gianroberto Casaleggio, mi ha raccontato una volta: «Ricordo bene quando Pietro [Dettori] mi disse che Marcello Foa era “un amico”». Biondo – coraggioso reporter di mafia per «l’Unità», autore di un libro molto bello su Bernardo Provenzano – sgranò gli occhi, all’epoca. Foa ai suoi occhi era la destra-destra, filoputiniana, cosa ci faceva col Movimento? Semplice, anticipava i tempi.
Mentre gli opinionisti italiani si chiedono se il Movimento non sia in fondo «più vicino al centrosinistra», la realtà non solo è platealmente diversa, ma le reti personali di relazioni sono al lavoro da anni, e vanno in direzione opposta alla sinistra.
Il 10 marzo, congedati Foa, gli svizzeri e Tettamanti, e in seguito Salvini a Milano, Bannon è a Parigi, ospite d’onore del congresso del Front National (ora Rassemblement National) di Marine Le Pen. «La storia è dalla nostra parte. Lasciate che ci chiamino razzisti. Indossatela come una medaglia d’onore», sono le parole con cui conclude, applauditissimo, il suo discorso. Dal palco saluta, in collegamento, «brother Salvini». Anche il saluto avviene con un braccio destro abbastanza teso, che sembra tesissimo nelle fotografie. La foto è un piccolo pezzo di storia della nuova stagione sovranista. A Roma, a trovarlo al Raphaël, c’è stato anche Louis Aliot, vicepresidente del Front National, altro tassello europeo di questa rete. Florian Philippot, ex numero due della Le Pen, ha litigato col Front National e dove ha trovato casa in Europa? Nel gruppo a Bruxelles Ukip-Movimento cinque stelle. Ritroveremo anche lui, più avanti, grande amico del Movimento.
Due giorni prima del viaggio a Parigi, l’8 marzo, Steve e «brother Salvini» si sono incontrati a Milano, si diceva; l’incontro avviene allo Spazio Pin. I contatti tra Lega e Bannon sono stati tenuti soprattutto da due personaggi: Guglielmo Picchi e Armando Siri. Hanno collaborato alacremente a tessere legami col mondo trumpiano anche Federico Arata, un ex dirigente di Credit Suisse, e dal lato americano Leonardo Zangani, imprenditore, da trent’anni in America, fondatore del comitato Italians for Trump. Ovviamente in contatto diretto soprattutto con Siri e Giorgetti.
Picchi, leghista, consigliere di Salvini sulla politica estera, arriva anche lui a una visione geopolitica filorussa, ma via Londra, non dalla Casa Bianca come Bannon. Fiorentino, master in business administration alla Bocconi, anima un think tank, il Machiavelli, che organizza seminari sovranisti e filorussi («Globalismo e sovranità: opzioni politiche per l’Italia che verrà» è il titolo di uno di essi) dove transitano l’ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi e l’economista no-euro Alberto Bagnai, con personaggi provenienti dall’IsAG, altro think tank eurasista e filo-Putin. Picchi è poi dirigente (ora in aspettativa) di Barclays, banca d’investimenti a Londra, la città chiave di ogni tela che guarda a Mosca. Anche Bannon, curiosa coincidenza, ha un passato nella finanza (a Goldman Sachs). È Picchi che lavorò per propiziare quello che lui definisce «l’incontro» tra Salvini e Trump (la cosa si ridusse a una semplice fotografia di Salvini col neopresidente Usa). «È impossibile – spiega – mettere in sicurezza il quadrante mediorientale senza la Russia». Estimatore dunque di Trump, e molto incline all’apertura geopolitica con Mosca: un riassunto vivente delle politiche care anche al Movimento cinque stelle.
Armando Siri, invece, responsabile economico di Noi con Salvini, è un ex craxiano (da giovane), ex berlusconiano (da grande), poi convinto leghista, quindi sottosegretario e teorico della flat tax. «Non ho padri politici», ha raccontato al «Foglio». Ma non ha problemi a elogiare Bettino Craxi: «Basti pensare a quando schierò i carabinieri a Sigonella. Ha portato l’Italia a essere un paese rispettato e importante sul piano internazionale. Aveva una visione di forza dello Stato che doveva mantenere posizioni chiare in campo economico». E di Berlusconi dice che era «un innovatore di sistema».
Mentre Picchi all’incontro a Milano non è presente, Siri c’è e fa la parte del leone. Bannon ha raccontato a Joshua Green, che lo riporta nel suo libro Il diavolo, che Siri «era un signore che ho tentato di contattare fin dall’inizio, per incontrarlo e conoscerlo». Accanto appare Giuseppe Valditara, a lungo senatore in varie formazioni di centrodestra, oggi assai apprezzato dalla Lega. Valditara ha scritto un libro intitolato Sovranismo. Una speranza per la democrazia. E la postfazione di chi è? Di Marcello Foa, sempre lui: che è presente anche al rendez-vous milanese Salvini-Bannon, un incontro che Foa definirà avvenuto «in circostanze fortuite». La prefazione del saggio di Valditara è invece di Thomas D. Williams, ex sacerdote cattolico, poi spretato, oggi capo della redazione romana di «Breitbart», il sito a lungo diretto da Bannon, di cui è grande amico. Anche Williams è presente all’incontro, lui che da due anni andava dicendo a tanti interlocutori: «Trump guarda a Movimento cinque stelle e Lega». Bannon confida in giro che «Breitbart» aprirà presto molte sedi europee.
Bannon è stato sempre abbastanza elusivo su chi finanziasse tutto questo. Ha ripetuto che sono fondi personali, e di un paio di finanziatori. Sappiamo, dalla sua disclosure finanziaria personale, resa pubblica dalla Casa Bianca nel marzo 2017, che Bannon ha raccolto negli anni molti soldi da una serie di società no profit (legate prevalentemente alla produzione di film e documentari, come Citizens United, o Young America’s Foundation), privilegiate da un regime di esenzioni fiscali. Queste organizzazioni hanno versato somme cospicue a società di Bannon come Glittering Steel e Bannon Film Industries (Bannon ha poi percepito stipendi a sei zeri da «Breitbart News» e da Cambridge Analytica, entrambe finanziate prevalentemente da Robert Mercer). Bannon ha riferito in quel documento che la sua rete di finanziamenti vale tra gli 11,8 e i 53,8 milioni di dollari. Ma né lui, né la Casa Bianca hanno risposto a numerose richieste del «Washington Post» per conoscere l’importo esatto del totale dei finanziamenti, e i nomi dei finanziatori.
Molti nomi naturalmente si ricostruiscono dai documenti, ma bisogna sempre passare da organizzazioni. Alcune organizzazioni con cui ha lavorato in passato Bannon, per esempio Young America’s Foundation, sono guidate da un attivista conservatore, Ronald Robinson. L’accordo di Bannon con la Mercer Family Foundation è del 2011, e la fondazione nel 2012 aveva a disposizione un patrimonio di 38 milioni di dollari. È Bannon che scrive per la fondazione Mercer il piano di investimento di circa 10 milioni per «Breitbart News», guidata dall’amico di Bannon Andrew Breitbart. I soldi della fondazione Mercer cominciano ad andare ad alcune delle stesse organizzazioni no profit che hanno finanziato i film e il lavoro precedente di Bannon. La medesima fondazione Mercer e il Donors Trust – una organizzazione no profit conservatrice legata ai ricchissimi fratelli Koch – avrebbero donato, secondo il «Washington Post», più di sette milioni di dollari al GAI, un’organizzazione no profit fondata direttamente da Bannon nel marzo 2012, nei successivi tre anni. Considerando la ricorrenza degli stessi nomi nella carriera dell’ex strategist di Trump alla Casa Bianca, è possibile chiedersi se questi nomi siano intervenuti anche nella nuova impresa europea del vecchio Steve, la fondazione di Bruxelles, The Movement.
Racconta uno dei partecipanti al pomeriggio milanese che Bannon «ha continuamente suggerito a Salvini quanto fosse necessario e utile l’accordo con il Movimento cinque stelle per fare un governo nazional-populista e alternativo in Italia. Gli ha detto che l’Italia sarebbe diventata il laboratorio unico per il resto del mondo, e che questa esperienza era guardata con simpatia oltreoceano, nei circoli trumpiani, con i quali lui è rimasto in ottimo rapporto, nonostante l’uscita dalla Casa Bianca, e anche nella Gran Bretagna della Brexit». La nostra fonte ci chiede di poter restare anonima, e quando le domandiamo la reazione di Salvini a questi suggerimenti di Bannon, spiega che Salvini ha annuito tutto il tempo ai ragionamenti del suo interlocutore americano, sembrava condividerli in pieno. Non c’era insomma affatto bisogno di convincere il futuro vicepremier su quella linea: governo tra Lega e Movimento. Sono idee di cui Bannon non fa mistero. Al «New York Times» racconta di aver esposto a Salvini questo ragionamento: «Tu e Di Maio siete le prime persone che possono davvero rompere il paradigma destra-sinistra. Potete dimostrare al mondo che il populismo è il nuovo principio organizzatore». Naturalmente, altri in Europa seguiranno, spiega lo stratega americano al leader leghista.
Pochi giorni dopo, in un’intervista alla «Stampa», Bannon spiegherà: «L’Unione europea sta già implodendo e l’Italia potrebbe rivelarsi determinante», e negli Stati Uniti «i nazional-populisti nelle elezioni di midterm per il rinnovo parziale del Congresso di Washington si batteranno contro il movimento Team Up». Nella sua idea, insomma, si tratta di uno scontro fra due rivoluzioni: «Noi vogliamo aggredire le sovrastrutture dei governi e restituire gli Stati ai cittadini, loro aggrediscono il patriarcato e vogliono famiglie senza figli». La Russia – anche su questo Bannon e Salvini concordano – «non è affatto un nemico»: le identiche parole pronunciate da Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista in ripetute occasioni pubbliche. «La Russia è bianca e anti-islamica, appartiene al nostro mondo euroamericano che deve invece guardarsi dai veri avversari ovvero Cina, Iran e Turchia», sostiene l’ex consigliere di Trump, che vede una specie di percorso di una nuova «via della Seta» di Xi Jinping «che unisce queste tre nazioni, frutto di civiltà antiche e combattive, tutte estranee alla cultura giudeocristiana. Preoccuparsi della Crimea invasa dai russi non ha senso, perché i veri nemici sono a Pechino, Teheran ed Ankara e ci stanno aggredendo nel Mar della Cina, nel Golfo e nel Mediterraneo». Ecco perché – è uno dei ragionamenti fatti alla «Stampa» da Bannon – i legami della Russia con Lega e Cinque stelle «fanno i nostri interessi», a differenza dei legami di coloro che continuano «a tramare con Bruxelles e Bce per impoverire sempre di più il ceto medio».
È l’8 marzo, ripetiamolo: quasi tre mesi prima che il governo della Lega-Movimento nasca davvero, dopo una serie di contorsioni più o meno fantasmagoriche, e più o meno recitate, dei due contraenti del contratto di matrimonio. Il 5 giugno 2018, nel discorso sulla fiducia al governo pronunciato in Senato, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte dirà, in maniera abbastanza sbalorditiva: «Intendiamo preliminarmente ribadire la convinta appartenenza del nostro Paese all’Alleanza atlantica, con gli Stati Uniti d’America quale alleato privilegiato. Ma saremo fautori di una apertura alla Russia, che ha consolidato negli ultimi anni il suo ruolo internazionale in varie crisi geopolitiche. Ci faremo promotori di una revisione del sistema delle sanzioni, a partire da quelle che rischiano di mortificare la società civile russa». L’esecuzione esegue, ma di chi sono le volontà? E Bannon ha incontrato anche persone del Movimento?
La risposta è sì, ci dice Bannon stesso in almeno due occasioni, e non viene mai smentito dal Movimento. Il 3 giugno, per la prima volta in assoluto, è Bannon stesso ad ammettere pubblicamente ad Antonello Guerrera su «Repubblica»: «Sì, mi sono incontrato con alcuni del M5S. Non le posso dire di più, ma sì, li ho incontrati». Chi, nel Movimento, ha i galloni, il ruolo e lo status per potersi permettere un incontro politicamente così rilevante? Il 7 giugno, sullo «Spectator», Bannon scrive di suo pugno: «Abbiamo avuto incontri con Alternative für Deutschland, la Lega, il M5S, Fratelli d’Italia, il partito cattolico per la famiglia, e con Louis Aliot del Rassemblement National (che prima si chiamava Front National). Tutti i fratelli sono venuti a Roma. È difficile non avvertire che siamo dalla parte giusta della storia».
Una fonte molto vicina a Bannon ha confermato che, quand’era a Roma nel giugno 2018, Bannon si è incontrato con Davide Casaleggio. «Wired» e, in Italia, «La Stampa», l’hanno raccontato il 14 febbraio 2019, con altri particolari: l’incontro era avvenuto il o intorno al 3 giugno. Il 4 febbraio, dieci giorni prima dell’uscita dei due articoli, avevo chiesto per mail diretta a Davide Casaleggio conferma o smentita, senza ottenere risposta. Alle 19,17, qualche ora dopo l’uscita degli articoli, l’agenzia Adnkronos ha scritto: «L’incontro viene confermato dall’entourage di Casaleggio».
Sono in tanti in quelle ore a chiedere all’imprenditore come mai un colloquio così rilevante sia stato tenuto nascosto per più di otto mesi. Gli elettori italiani del Movimento non avrebbero il diritto di sapere che è in corso un dialogo ormai personale tra gli elementi più di spicco dei Cinque stelle e l’ultradestra americana? Roma è davvero di nuovo importante, in quei mesi (assieme a Lugano, e Milano, naturalmente). «Roma è il posto giusto per Bannon – ha detto una volta Hillary Clinton – perché lì, da che mondo è mondo, sono abituati a che si dia loro panem et circenses. Falli divertire, fai appello ai loro pregiudizi, falli sentire parte di qualcosa più grande di loro, e intanto consenti a politici e affaristi di lasciarli in mutande. È una vecchia storia, e Steve Bannon è solo l’ultimo interprete».
Manlio Di Stefano, sottosegretario agli esteri M5S pro-Putin, dopo che la notizia era ormai pubblica ha commentato: «Bannon ha uno standing importante a livello mondiale e merita di essere ascoltato». Come mai l’opinione pubblica non era stata informata di quel contatto con l’ex stratega di Trump?
Il 30 dicembre 2018, Bannon dirà a Viviana Mazza, sul «Corriere della Sera»: «Un anno fa Merkel e Macron avevano grande appoggio, poi le elezioni italiane hanno rivelato che un’alternativa è possibile». Alternativa che, ritiene lui, dopo le elezioni europee del 2019 può portare a un’alleanza tra popolari e populisti: «C’è una buona probabilità, ma dipenderà dai numeri». Il giorno della Befana del 2019, Luigi Di Maio giura al «Corriere» che nel nuovo Parlamento europeo il Movimento non andrà con i sovranisti, «vogliamo essere l’ago della bilancia», dice, «e con i nuovi numeri saranno i gruppi storici a dover venire da noi». Al di là di un elemento di sopravvalutazione di sé stesso, i contorni di tutta questa operazione europea dei Cinque stelle restano come sempre imprecisati, e aperti a tutto, come racconteremo più avanti. Così come il manifesto-contratto che producono per le elezioni europee.
Bannon è sicuro: Lega e Movimento cinque stelle «saranno all’avanguardia nella ridefinizione dell’Unione europea e di ciò che è l’euro. Penso che alla fine spingeranno per tornare alla lira. Penso che tutti questi paesi si muoveranno in questa direzione. Si renderanno conto che questa è stata tutta una truffa che la Germania ha inflitto a noialtri». Noialtri, sì: come se ormai si identificasse con il suo progetto di portare la rivolta in Europa, e non più negli Stati Uniti di Donald Trump. Bannon spiegò a Salvini che mettendo insieme populismo e nazionalismo avrebbe conquistato una leadership mondiale di queste idee. La risposta del leader della Lega – è stato lo stesso ex strategist di Trump a riportarla – fu questa: «Mostreremo non solo all’Europa, ma a tutto il mondo, ciò che è possibile fare. Scrivilo nel tuo libro: stiamo arrivando».
Quattro giorni dopo l’incontro Bannon-Salvini-Foa a Milano, Giancarlo Giorgetti – il vero ufficiale di collegamento di Salvini nella politica italiana, l’uomo che più ha tessuto la tela per formare il nuovo governo con l’alleato, il Movimento, nella veste che gli ha dato Davide Casaleggio, in questo fedele esecutore delle volontà filoleghiste del padre Gianroberto – ha in agenda un secondo incontro politico cruciale, di congiunzione tra gli universi della Lega e quelli del Movimento cinque stelle. L’incontro è pensato nell’ottica, evidentemente prediletta a monte, di costruire assieme un nuovo governo.
Mentre sulla scena pubblica la gran parte dei media suona la grancassa, per ignoranza o malafede, in favore di un impossibile governo tra Movimento e Partito democratico, e tanti pezzi dell’establishment istituzionale anche ad altissimi livelli provano a pressare in questa direzione un Pd ormai sbandato (e quasi ci riescono), a cena a casa del costruttore romano Fabrizio Parnasi (finanziatore dichiarato della Lega di Matteo Salvini, con 250mila euro, ma anche di Eyu, una fondazione vicina al Pd di Matteo Renzi) si siedono l’avvocato Luca Lanzalone – il numero uno di fatto del Movimento cinque stelle in Campidoglio, e più in generale plenipotenziario del Movimento su dossier economici e nomine – e appunto Giorgetti. Il quale oggi derubrica la cena ad affare di routine («ma quale cena, solo un paio di fette di salame»). Fatto sta che tre mesi dopo Parnasi e Lanzalone vengono arrestati, con accuse gravissime di corruzione; il superconsulente grillino secondo la Procura di Roma avrebbe ricevuto consulenze pagate al suo studio, per almeno centomila euro, da Parnasi.
Le accuse riguardano la vicenda dello stadio della Roma, e dalle intercettazioni dell’inchiesta veniamo a sapere alcuni particolari politici decisivi per capire come – non solo nel laboratorio internazionale di Steve Bannon, ma anche nel demi-monde della Roma degli affari – si stessero costruendo vere e proprie camere di compensazione per far nascere l’esecutivo comune. Si abbracciano di sopra e di sotto, Lega e Movimento, nell’iperuranio dei network internazionali sovranisti come nella Roma galeotta degli affari a cavallo tra politica e cemento. Raccontando quella cena del 12 marzo, tre giorni dopo al telefono con il suo commercialista, il costruttore Parnasi dice: «Il governo lo sto a fare io eh! Non so se ti è chiara questa situazione». E per dire quale ruolo chiave avesse Lanzalone nel Movimento, basti la testimonianza di un uomo al di sopra di qualunque sospetto, il missionario padre Alex Zanotelli, che rivela al «Corriere della Sera»: «Ho incontrato Luca Lanzalone, il manager messo dai 5 Stelle alla presidenza dell’Acea, partner della Gori, che gestisce gli acquedotti vesuviani. Mamma mia! Un uomo così sprezzante... Mi rivolgerò a Virginia Raggi, gli ho detto. E lui: “Il sindaco non conta nulla, decido io”».
Lanzalone, insomma, come il vero sindaco dei Cinque stelle a Roma, uomo forte del Movimento nella Capitale. Medesima sensazione di strapotere di questo avvocato si ricaverà da alcune intercettazioni del processo a Virginia Raggi, pubblicate sui giornali a fine ottobre 2018: in una di queste, con la sindaca che gli chiede per favore di fornirle alcune date possibili nella sua agenda per incontrare i sindaci dei paesini affacciati sul lago di Bracciano, durante una grave crisi idrica, Lanzalone le risponderà con una battuta semiseria: «Caspita: praticamente mi fai da segretaria!». Come se gli eletti del Movimento non riuscissero a fare un passo senza la tutela di questo mondo intermedio di studi legali e affari.
La cena Giorgetti-Lanzalone era stata preparata da lunghe conversazioni tra Parnasi e Lanzalone, il 9 marzo, intervallate da sms a Giorgetti. Parnasi istruisce Lanzalone, vista la delicatezza politica dell’abbraccio Lega-Cinque stelle che stanno contribuendo a creare: «dobbiamo essere super-parati perché se ci vedono siamo fatti, eh...». Poi manifesta la volontà di conoscere personalmente Luigi Di Maio, di cui Lanzalone è diventato intimo, e Lanzalone gli risponde così: «Allora, io vedo Luigi tutti i giorni, lo sento tre volte al giorno, l’ho visto due ore fa, lo risento domani mattina. Però in giro non lo dico, perché per la cosa che fai... parlare poco... con nessuno... Luigi è un po’ come Salvini... cioè molto chiuso il cerchio. Io, due, tre persone, punto. Con la gente non dire mai cose che non si devono dire».
Parlando successivamente col suo commercialista, Parnasi spiegherà anche: «Domani c’ho un altro meeting dei Cinque stelle, perché pure ai Cinque stelle gliel’ho dovuti dare eh». Si sta parlando di soldi dati in cambio di favori, e oltretutto in coincidenza con il processo delicatissimo di formazione di un governo italiano? In ogni caso, da questi passi dell’inchiesta pubblicati sui giornali emerge ciò che a noi qui interessa sottolineare: Lanzalone, Giorgetti e Parnasi sanno che è il governo Lega-Movimento l’obiettivo politico vero che unisce i quattro attori principali che giocano la partita del governo, Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti, Davide Casaleggio, Luigi Di Maio. Su questo, nessuno dei soggetti in campo ha il minimo dubbio: il problema non è se fare l’alleanza Lega-Movimento, ma come arrivarci.
Negli atti della Procura – lo riferisce «Il Fatto Quotidiano», giornale non ostile al Movimento di Davide Casaleggio – sta scritto che il 6 aprile Lanzalone e Parnasi si incontrano ancora, e l’immobiliarista riferisce all’avvocato vicino ai Cinque stelle una circostanza importante: Giorgetti gli ha detto che il contratto di governo tra Lega e Movimento va firmato subito, perché loro sono di Varese «mentre “lui” [cioè Luigi Di Maio] è di Pomigliano d’Arco». Lanzalone, sta scritto poi in quelle carte, «dice che c’è una spinta forte dai media ad andare verso il Pd e non verso il centrodestra». Il che, tra parentesi, è verissimo. Ma non è questo il destino politico immaginato da Gianroberto Casaleggio per il Movimento, non è questa l’esecuzione pensata per l’esperimento e consegnata a Davide in punto di morte; quello che il visionario manager milanese non poteva immaginare, è che per arrivarci si sarebbe passati da questi attori e queste modalità così tanto, troppo romane.