3.
Arron Banks, Leave.EU.
La Brexit in via Morone
Nel giugno del 2014, poco dopo le elezioni europee del 25 maggio, Gianroberto Casaleggio convocò una riunione con i diciassette nuovi europarlamentari europei del Movimento, nella sede della Casaleggio Associati in via Morone 6 a Milano. La racconta così uno di loro, un testimone d’eccezione, Marco Zanni, europarlamentare molto attivo nel collegamento tra il gruppo e Milano, poi uscito e confluito nel gruppo europeo della Lega: «Casaleggio ci annunciò senza tanti giri di parole che avremmo fatto un gruppo con Nigel Farage. Fece un grande elogio di quell’uomo e arrivò a dire, senza esitazioni: “Andiamo con quello che sarà il prossimo primo ministro britannico”». La previsione su Farage premier nel momento in cui scriviamo non si è avverata, tuttavia Zanni tornò a Bruxelles con la netta sensazione che la decisione fosse presa, e che fosse strategica: collocare il Movimento nel campo dell’euroscetticismo più radicale, ai limiti – eufemismo – dalla galassia no-euro, quell’universo politico europeo, e di relazioni personali internazionali, orientato a una critica molto decisa all’euro e alla volontà di riconquistare sovranità nazionale anche attraverso la via monetaria. Lo stesso campo, appunto, di Nigel Farage, del suo grande finanziatore Arron Banks e del loro comune amico Steve Bannon. Il comitato per la Brexit fondato da Arron Banks, Leave.EU, manderà il suo ceo in visita alla Casaleggio. L’Ukip oggi è sostanzialmente irrilevante, Farage lavora ad altri contenitori, come il comitato Leave Means Leave, e il Movimento cerca di traslarsi – come vedremo, con difficoltà – verso una nuova incarnazione populista-sovranista, con i gilet gialli francesi, l’estrema destra polacca, gli euroscettici croati, un piccolo partito finlandese. Ma quella rete di relazioni non è mai scomparsa. Arriviamoci per gradi.
Prima è necessario un passo indietro. Casaleggio, tanti anni prima, era già entrato in contatto con il mondo ultraconservatore britannico? E se sì, quali erano stati i tramiti? C’entra qualcosa la precedente esperienza di lavoro di Gianroberto con una joint venture inglese-italiana, di cui abbiamo scritto in L’esperimento?
Di sicuro Casaleggio senior per lunghi anni aveva stabilito rapporti con uomini di industria e finanza, anche britannici. Alberto Peano, già presidente di Logicasiel, ci ha raccontato, nella sua bella casa in Crocetta a Torino, che Casaleggio in quell’azienda che fu antecedente storico di Webegg teneva i rapporti con le banche e gli fu affidato il settore finanza.
La stima maturata nel corso degli anni era reciproca anche con pezzi di industria e finanza italiana con ottimi rapporti nel Regno Unito. Per esempio con uomini come Franco Bernabè, l’ex numero uno di Telecom (quando Webegg finì appunto in Telecom), come il banchiere Matteo Arpe, o come Antonio Guglielmi, head advisor di Mediobanca nella sede di Londra, una figura su cui torneremo. È un fatto che Gianroberto cominciò a puntare tanto su una specie di osmosi e di filo diretto tra i due movimenti, quello italiano e quello londinese, che può essere spiegata solo in due modi: con un colpo di fulmine, o con un progressivo avvicinamento all’universo dei conservatori euroscettici e sovranisti in Gran Bretagna, che andava avanti da anni. E Casaleggio era abbastanza indifferente ai colpi di fulmine.
Sostiene l’ex capo della comunicazione del Movimento cinque stelle prima in Senato, poi nel Parlamento europeo, Claudio Messora: «sono stato io a presentargli materialmente Farage» (ma un’intervista a Farage pubblicata sul blog gestito dalla Casaleggio nel 2013, un anno prima del periodo a cui fa riferimento Messora, testimonia che il rapporto esisteva già da prima, e ci torneremo). Di certo Casaleggio aveva individuato la Brexit e il Regno Unito come un elemento strategico, un rapporto strutturale per il Movimento. Anche se Messora non è certo che fosse nato per questo, di sicuro in un particolare momento è quella la direzione decisa dalla srl: «Non so per cosa fosse pensato, il Movimento, ma Gianroberto ha sognato un’alleanza sul lungo periodo con un Farage primo ministro britannico, realizzando un nuovo asse Italia-Regno Unito». Sul lungo periodo. Il fondatore dell’esperimento non pensava in nessun modo di collocarlo col centrosinistra, meno che mai di allearsi, di lì a pochi anni, con il Pd – campagna che verrà sostenuta spensieratamente in Italia da molti media, nel 2018, anche nel mondo non ostile al Movimento, come «Il Fatto Quotidiano».
La testimonianza di Messora va ascoltata perché quella svolta cruciale ha solo quattro veri testimoni, almeno per poter capire come è stata organizzata materialmente: lui, Davide Casaleggio, Beppe Grillo e David Borrelli. Su quest’ultimo, e sulle modalità misteriose della sua uscita improvvisa dal Movimento nel gennaio 2018, torneremo più avanti. Per la vicenda Farage, Messora racconta la storia che ha visto: «Quando mi diedero l’incarico di organizzare lo sbarco a Bruxelles, andai al Parlamento europeo già a maggio, e mi fu subito evidente che qualunque altro gruppo politico europeo del Parlamento europeo non avrebbe soddisfatto i criteri di Casaleggio, che non voleva alleanze, e tanto meno voleva patti con gruppi eccessivamente ideologizzati. Il gruppo di Farage [Efd] era l’unico che consentiva una “loose alliance”, ovvero non condannarsi all’irrilevanza entrando nei non iscritti, ma non impicciarsi alla necessità di votare insieme su tutto». Così chiese al segretario generale dell’Efd, Emmanuel Bordez, di incontrare Casaleggio e Grillo, «e lui accettò, correndo a Milano il giorno dopo. C’è da dire che fu l’unico a rispondere così entusiasticamente: facemmo la proposta anche agli altri gruppi, ma presero tutti le distanze (Verdi compresi), con la sola tenue eccezione dell’Ecr, il gruppo dei conservatori inglesi». Il presidente dei Verdi Philippe Lamberts ha però raccontato al «Foglio» una storia diversa: fu Casaleggio stesso a dire apertamente di non voler andare coi Verdi. Lo stop venne da Casaleggio: Verdi e progressisti, no.
Il giorno dopo, Bordez fu condotto negli uffici di via Morone, dove c’erano sia Casaleggio che Grillo. «Durante la riunione chiamammo Farage. Il quale disse che avrebbe preferito discutere a voce. Quindi fissammo un incontro a Bruxelles. Casaleggio non venne perché ormai le sue condizioni di salute glielo impedivano. Venne il figlio e venne Grillo. Arrivammo al ristorante con mezz’ora di ritardo. L’incontro fu a base di vino, foto e battute. Quasi nessun tema politico fu toccato se non qualche vago confronto sui temi dell’immigrazione e dell’energia. I due, Farage e Grillo, si piacquero dal primo istante». Una percezione che non è mai cambiata negli anni, e che ci regala una delle foto storiche del Movimento cinque stelle: Grillo e Farage che, lievemente accaldati, brindano a base di boccaloni di quella che sembra birra. Stanno piazzando il Movimento tra le braccia dei sovranisti anti-europei. Ma loro due sono solo i frontmen, in questa storia.
Quando avvenne la votazione sul blog (che di fatto non lasciava altra scelta se non votare per Farage o astenersi), la direzione di fondo che avrebbe preso il Movimento negli anni successivi era già stata presa a monte, dal suo fondatore, il manager informatico milanese. Le percentuali curiosamente furono molto simili a quelle dei favorevoli, nella primavera 2018, all’accordo di governo con la Lega. Un plebiscito.
Sappiamo con certezza che Chiara Appendino – per fare solo un nome illustre – capì perfettamente l’importanza drammatica di quella decisione, ed era assai contraria a quell’apparentamento con l’Ukip, come mi ha raccontato una mattina, seduti a un tavolino di un bar in piazza Vittorio a Torino, il suo ex capo di gabinetto Paolo Giordana; ma Appendino tacque, allora e negli anni successivi, quand’era ormai diventata sindaca. Scelse di non ritagliarsi il percorso verso l’autonomia al quale la poteva portare una felice serie di incastri torinesi che l’hanno condotta a guidare la città della Mole, oggi sempre più insofferente verso il M5S no-Tav; ma questa è un’altra storia. Appendino era contraria a collocare il Movimento nella galassia delle destre europee, ma non parlò, né da semplice militante, né – successivamente – da sindaca. Si mise sotto l’ala della Casaleggio e non ne è mai più uscita; finendo con l’accettare personaggi che ne hanno appannato l’immagine, come il portavoce Luca Pasquaretta, silurato dopo che finirà indagato (con l’ipotesi di concorso in peculato per una consulenza al Salone del Libro nel 2017) e poi ripescato dal Movimento come addetto stampa del viceministro all’Economia Laura Castelli. La Procura di Torino indagherà Pasquaretta anche in un altro procedimento con accuse ancora più gravi, per estorsione, ipotizzando che abbia addirittura ricattato la sindaca Appennino per ottenere nuovi contratti di lavoro dopo il suo siluramento. Sono giorni in cui tutta la Torino produttiva contesterà la sindaca e il consiglio comunale che, sotto la spinta del Movimento, vota contro la Tav. Le indagini non sono ancora arrivate a una sentenza nel momento in cui scrivo.
È dunque infondato sostenere che all’improvviso, nella primavera del 2018, dopo il voto del 4 marzo e la vittoria senza maggioranza assoluta, il Movimento volesse andare a una forma di accordo con il Pd per formare un governo: una direzione sovranista di Gianroberto Casaleggio era stata impressa tanto tempo prima, con le modalità tecniche descritte sopra, ma anche con la riattivazione dei buoni rapporti inglesi-italiani del Movimento.
A Londra, in quel cruciale 2014, emerge il ruolo di una figura importantissima per l’Ukip, che ha qualche intreccio con la storia che stiamo raccontando: quella figura si chiama Arron Banks. Vulcanico uomo d’affari inglese, Banks è il fondatore e presidente di Leave.EU, il principale comitato di sostegno e finanziamento della Brexit (quello che appoggiò l’Ukip di Farage, appunto; Vote Leave, per restare ai due soggetti principali, faceva lo stesso con i conservatori di Cameron). Banks ha donato 8 milioni di sterline all’Ukip, la più grande donazione nella storia politica della Gran Bretagna, e da allora, inevitabilmente, le origini della sua ricchezza sono finite sotto le lenti di un certo scrutinio. Il 1° novembre 2018 la National Crime Agency britannica l’ha messo ufficialmente sotto inchiesta, assieme alla ceo di Leave.EU Liz Bilney, dopo che la Commissione elettorale nazionale aveva spiegato di avere «ragionevoli basi per sospettare che mr Banks e ms Bilney, responsabile di Leave.EU, abbiano nascosto le vere circostanze nelle quali questo denaro fu fornito». A metà novembre sono state pubblicate (su Open Democracy, sul «Guardian» e sul «New Yorker») mail che rivelano i contatti di Arron Banks con Bannon, già a ottobre 2015: in cerca di finanziamenti alla Brexit, Banks chiede apertamente che Cambridge Analytica lavori a uno schema di finanziamento dagli Usa, utilizzando i cittadini britannici con parenti americani (i finanziamenti elettorali esteri sono illegali, anche nel Regno Unito). In un’altra mail, Brittany Kaiser, dirigente di Cambridge Analytica, chiede a Leave.EU di consegnare login di Facebook e tutti i dati informatici potenzialmente utili di cui dispone quel comitato per la Brexit.
Luke Harding e Carole Cadwalladr hanno raccontato sul «Guardian» che a Banks fu offerto dai russi un affare enorme, che coinvolgeva una presunta società mineraria russa legata all’estrazione dell’oro, e l’offerta gli fu ventilata attraverso l’ambasciatore russo a Londra, Alexander Yakovenko. Molti parlamentari britannici, anche sulla scorta di questa storia, hanno sollevato dubbi e interrogazioni, chiedendo ripetutamente che un’inchiesta formale fosse aperta anche nel Regno Unito sul ruolo di Mosca nella Brexit, convinti che il Cremlino abbia cercato di arricchire (e nella sostanza finanziare) i principali sostenitori della campagna per la Brexit attraverso una serie di operazioni di business coperte. L’inchiesta del «Guardian» si basa su carte messe a disposizione da Mikhail Khodorkovsky, miliardario oppositore di Vladimir Putin finito in esilio, che ha fondato un centro investigativo, il Dossier Center, con il quale ha reso pubblici quei documenti, poi finiti sul sito russo Tsur.
Nonostante Banks, inizialmente, avesse circoscritto a una sola il numero delle sue visite all’ambasciata russa, è stato poi costretto ad ammetterne prima tre, poi quattro (il numero è poi salito ancora ed è al momento imprecisato). In particolare, è stato costretto ad ammettere che vi fu anche un certo numero di incontri con Alexander Udod, un diplomatico russo in seguito espulso dal Regno Unito con accuse di spionaggio, dopo l’avvelenamento dell’ex spia russa Sergej Skripal. Fu Udod a invitare Banks e il suo partner in affari, Andy Wigmore, poi capo della comunicazione ufficiale di quella campagna per la Brexit, a incontrare l’ambasciatore russo a Londra. Il 6 novembre 2015 i russi discussero un accordo sull’oro con Banks. Il 17 Yakovenko presentò a Banks Siman Povarenkin.
Povarenkin è il presidente di una società di estrazione mineraria, GeoProMining, che possiede miniere in Siberia e Armenia e stava per fondersi in quella fase con “sei o sette” società dell’oro rivali. In questo modo sarebbe diventata un soggetto non lontano per dimensioni dal primo attore russo nel settore, Polys Gold (qualcosa del valore di 8 miliardi di dollari). Ben Bradshaw, parlamentare laburista, ha rivolto un’interrogazione al Parlamento britannico sostanzialmente per ottenere una risposta a questa domanda: perché i russi hanno offerto accordi milionari di questa portata a Arron Banks?
Banks ha detto di non aver poi dato seguito a quella proposta: «Non c’è nessun accordo coi russi sull’oro, solo una piccola schiera di giornalisti anti-Brexit, da Channel 4, Bbc e “The Guardian”, impegnati in una campagna di diffamazione contro di me». È attestato tuttavia che reagì attivamente alla proposta, ne discusse con l’ambasciatore russo il 17 novembre, e il giorno dopo scrisse a Povarenkin di aver girato la presentazione di quell’affare a Andrew Umbers, di Oakwell Capital, una compagnia della quale era uno degli azionisti principali, e a Jim Mellon, un altro dei grandi sostenitori della campagna per il Leave, con queste parole: «Sono molto ottimista sull’oro, ed entusiasta di darci uno sguardo». Il sasso lanciato a Banks attraverso l’ambasciatore russo faceva anche riferimento al fatto che dietro l’accordo vi fosse una delle entità più potenti dell’economia russa di Stato, Sberbank Capital (sussidiaria di Sberbank, la prima banca in Russia), azionista di GeoProMining, la società mineraria di Povarenkin. Ma perché i russi dovevano offrire un accordo così generoso? L’offerta sarebbe stata fatta, tra parentesi, nella stessa settimana in cui venne lanciato il comitato Leave.EU. Secondo il «New York Times», a Banks fu offerto anche un secondo business: investire nella società di diamanti Alrosa. Il governo russo pensava di venderne il 10 per cento, e un consigliere di Banks scrisse a Povarenkin che Banks non aveva «dimenticato il vostro progetto su Alrosa». Sostiene Banks, anche in questo caso, di non aver poi dato seguito a quelle discussioni. Invece il fondo Occo (Eastern European Fund), gestito da Charlemagne Capital, di cui Jim Mellon era azionista, alla fine investì in Alrosa. Mellon, sodale di Banks nel lanciare la campagna per il Leave, spiega di non essere stato coinvolto nelle decisioni su quell’investimento, e di non aver avuto alcun ruolo gestionale, né di essere un beneficiario del fondo.
Tutta questa vicenda non ha a che fare direttamente con l’Italia. Tuttavia vi è un momento in cui Banks si appassiona e si interessa molto da vicino all’ascesa, al modello organizzativo e all’uso del web del Movimento cinque stelle. Banks stesso ci fornisce in tal senso informazioni preziose, che siamo in grado di documentare. Il 1° marzo 2017, già deluso della piega troppo soft presa dai negoziati per la Brexit, e da quelle che giudica timidezze eccessive anche nell’Ukip (ben prima dell’abbandono di Nigel Farage), Banks scrive a Mark Reckless, conservatore gallese e membro di Vote Leave (l’altro comitato per la Brexit): «Il nostro prossimo passo è rimescolare un po’ le cose Mark, più di un milione di persone ormai seguono Leave.EU, e vogliamo prendere spunto dal Movimento cinque stelle». Cosa significa questo riferimento esplicito al M5S da parte del principale finanziatore dell’Ukip, in quel momento deluso dalla gestione post-Farage?
Banks nel 2017 è scontento della leadership Ukip assunta da Paul Nuttall, e poco prima, a fine febbraio 2017, gli ha scritto una lettera: «Il Partito laburista sta morendo nelle sue zone più tradizionali, ormai sconnesso da milioni dei suoi elettori tradizionali. Le ultime elezioni generali l’hanno visto collassare in Scozia. Con l’attuale leadership avrà lo stesso destino in Inghilterra e Galles». Noi, ragiona Banks, non ne abbiamo approfittato perché «abbiamo adottato una strategia da “Ukip rosso” che non ha avuto appeal sugli elettori tatticamente conservatori sui quali contavamo». I conservatori con Theresa May «dicono le cose giuste ma non mantengono le promesse. Nel momento in cui tradiranno la Brexit, e perderanno l’opportunità di combattere davvero l’immigrazione, l’appetito per un partito come l’Ukip tornerà in gran voga». E, se non per l’Ukip, per una hard Brexit. Come poi avverrà, il 15 gennaio 2019, dopo il voto che boccia l’accordo di Theresa May con l’Unione europea.
L’Ukip è stato criticato, osserva Banks, per non aver ricavato i frutti elettorali della sua vittoria al referendum, ma «ha guidato l’agenda, e indotto Theresa May a ribrandizzare totalmente il partito conservatore, nella forma desiderata dall’Ukip». Nel frattempo, però, mentre «la campagna del Labour ha deciso di adottare i messaggi dell’Ukip per sopravvivere, l’Ukip copiava i messaggi del vecchio Labour al Nord – non proprio intelligente», chiosa sarcastico Banks. Il contrario di quello che a suo dire andava fatto. Poi ricorda come lui e Richard Tice crearono dal nulla Leave.EU, e quindici mesi dopo «è il più grande movimento politico del Regno Unito, quasi un milione di follower, centomila iscritti, e un fantastico engagement online. Di recente abbiamo cominciato a rinnovare iscrizioni e presenza Internet».
Lasciamo stare qui una circostanza che scompaginerà questi piani: Nigel Farage nel dicembre 2018 abbandonerà l’Ukip, in polemica – a suo dire – con l’atteggiamento troppo morbido sui negoziati per la Brexit in corso tra la premier Theresa May e l’Unione europea. Lascia insomma l’Ukip intenzionato a serrare le fila di una nuova formazione politica anti-europea, un nuovo contenitore – forse in tandem con il politico conservatore Jacob Rees-Mogg? O c’è qualche relazione tra la sua fuoriuscita e il fatto che Banks, il suo principale finanziatore, è diventato ormai oggetto di interesse dell’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller negli Stati Uniti? Nel febbraio 2019, è certo, Farage sarà nel gruppo che dà vita a un nuovo partito, The Brexit Party. Catherine Blaiklock, la fondatrice del partito, ha una lunga storia di commenti e testi anti-musulmani e destrorsi, viene intervistata spesso da «Sputnik», il media del Cremlino, e nel novembre 2018 è stata ospite di «Breitbart» nel celebre podcast del cofondatore, James Delingpole, amico di un’altra figura su cui torneremo: il braccio destro europeo di Steve Bannon, Raheem Kassam.
Fatto sta che in quel momento, quando ancora si immagina una possibilità di «nuovo Ukip», la lettera di Banks si rivolge alla politica italiana, e al rapporto con il Movimento cinque stelle. «Noi siamo stati i pionieri nell’uso della tecnologia di AI (intelligenza artificiale), per la prima volta nelle elezioni britanniche, usando tecniche simili a quelle che poi hanno aiutato Donald Trump a conquistare la vittoria», scrive. Leave.EU ha raccolto 11 milioni di sterline di donazioni, più della campagna ufficiale del Leave. È qui che Banks annuncia la nascita di una specie di Ukip 2.0: «Il prossimo mese pubblicheremo un’agenda radical che il nostro team ha messo insieme per delle consultazioni in cui chiederemo al pubblico e ai nostri membri di darci idee. Le migliori di queste saranno aperte, in un sistema di Democrazia Diretta [le maiuscole sono nel testo] che permetterà a tutti di votare le politiche migliori». Siamo, com’è evidente, in una sfera culturale assai vicina alla piattaforma online che detiene i dati e garantisce il funzionamento della macchina del Movimento. Ed è cruciale, a tal proposito, quanto scrive Arron Banks nelle righe successive: «L’amministratore delegato di Leave.EU ha visitato la scorsa estate il Movimento cinque stelle per acquisire una più ampia comprensione della tecnologia che sta dietro il Movimento, siamo stati abbastanza occupati a riprodurre il loro sito web, e l’elemento di Democrazia Diretta della loro campagna, e anche a esplorare tecnologie di intelligenza artificiale in grande dettaglio».
Il ceo di Leave.EU in quel momento è Liz Bilney, una neanche quarantenne inglese, molto convincente e telegenica, assertiva nei dibattiti televisivi, anche lei assai contenta il 4 marzo all’esito delle elezioni italiane, usata a volte come trait d’union con i parlamentari europei della galassia sovranista, e poi finita anche lei sotto inchiesta nel Regno Unito per ipotesi di violazioni delle leggi britanniche sul finanziamento elettorale e abuso di dati informatici. È lei a occuparsi della visita al Movimento cinque stelle di cui parla Banks? E dove può avvenire una intensa visita di lavoro al Movimento cinque stelle sulla tecnologia, sulla piattaforma, sull’intelligenza artificiale, se non alla Casaleggio Associati? Banks tra l’altro, piccola curiosità, è appassionato sciatore sulle montagne italiane.
Bilney retrodata all’inverno precedente, al gennaio 2015 (Banks aveva scritto in estate), l’incontro alla Casaleggio. I contatti politici del Movimento, dunque, non sono stati solo con Ukip-Farage, ma anche con la ceo di Arron Banks (nel capitolo 7 vedremo con chi altro). In secondo luogo, quei contatti risalgono a una tessitura già avviata con Gianroberto Casaleggio ancora in vita, ormai tanti anni fa. Non sono un frutto successivo alla sua scomparsa. Bilney dice che fu quel meeting a «piantare il seme delle idee» che poi avrebbero portato al successo della campagna social media di Leave.EU per la Brexit. In quella riunione si parlò anche di modalità di crowdfunding, alle quali entrambi i movimenti erano molto interessati. Leave.EU nasce sei mesi dopo quell’incontro a Milano alla Casaleggio Associati, un incontro dal quale si tirano tanti altri fili di relazioni rivelatrici.
Nel novembre del 2015, la scena a cui assistiamo in una presentazione pubblica di Leave.EU a Londra è la seguente: seduti allo stesso tavolo, proprio accanto a Liz Bilney, ci sono Arron Banks, Gerry Gunster (un esperto americano di campagne elettorali e di dati, già al lavoro sulla campagna Trump), Jim Mellon (un “ambasciatore” della Brexit, l’uomo che presenta Farage a Banks) e Brittany Kaiser, dirigente di Cambridge Analytica (in seguito diventerà una discussa whistleblower). Banks scrive nel suo libro, The bad boys of Brexit, che Cambridge Analytica ha lavorato per Leave.EU (in seguito ritratterà dicendo che il contratto alla fine non fu chiuso, e nessun lavoro fu svolto). Liz Bilney nel frattempo diventerà ceo anche di una nuova società di big data, Big Data Dolphins, che lavorerà con un team di scienziati dell’Università del Mississippi, uno Stato chiave della connessione tra brexiteer britannici e alt-right Usa. Alcuni mesi dopo, il Regno Unito ha votato per lasciare l’Unione europea. Nel febbraio 2019, Brittany Kaiser è diventata, da whistleblower, oggetto di interesse dell’inchiesta americana: è la prima britannica ad aver ricevuto una citazione a comparire da Mueller, che sarebbe particolarmente interessato alla natura del contatto tra la Kaiser e Julian Assange.
Nella lettera pubblica che abbiamo fatto riemergere, Arron Banks – l’uomo d’affari e bad boy della Brexit, al centro ormai di diverse inchieste in Regno Unito e Stati Uniti – vede ormai il mondo ultraconservatore anglosassone e il Movimento cinque stelle quasi come una sola cosa: «Il movimento sarà aperto a chiunque vi si voglia unire. Vi spingo a iscrivervi!».
A quel punto tira quindi le fila, proponendosi come futuro presidente Ukip, e stilando un programma che di lì al 2020 avrebbe dovuto riprogrammare il movimento britannico in questo modo: totale rebranding dell’immagine del partito; un target iniziale di 100mila iscritti in 18 mesi; un team di professionisti installato nel cuore del partito e composto da 15 professionisti al lavoro sugli obiettivi del 2020; creazione di un’agenda politica radicale, con input ricevuti direttamente dal sistema online di democrazia diretta; infine, occorreva assolutamente «coinvolgere di nuovo Nigel [Farage] nell’Ukip – lui è il nostro asset più grande, e ha bisogno di esser di nuovo immesso nel partito. L’Ukip è a un bivio: dobbiamo essere radicali per diventare rilevanti ancora una volta. L’Ukip può rimpiazzare il Labour come partito di opposizione». Nigel Farage – in fondo, quasi come Grillo che era il primo influencer di Casaleggio – viene definito da Banks «un asset». E come tale riappare prepotentemente sui media britannici, e non solo: ospitato da Giovanni Floris su La7, lo sentiremo propagandare la distruzione dell’Unione europea anche nei talk show italiani, una sera d’autunno del 2018.
La notte a cavallo tra 4 e 5 marzo 2018 Katya Adler, Europe editor della Bbc, twitta: «Gli elettori hanno punito il governo di centrosinistra in Italia come hanno fatto in tante altre nazioni europee di recente». Andy Wigmore, sodale di Banks in Leave.EU e capo della comunicazione della campagna per la Brexit, ritwittando la notizia trolla la giornalista della Bbc: «Maledetti russi». A quel punto Banks non si trattiene e interviene: «Immagino che, data la grande conoscenza di Nigel Farage del Movimento cinque stelle, potrebbe esser lui il prossimo ambasciatore britannico a Roma, vero Gavin Barwell». Barwell, capo di gabinetto di Theresa May, per fortuna ha glissato alla battuta, in compenso Banks ha ricevuto una spiritosa risposta da un’altra amica del loro network, Janice Atkinson, europarlamentare eletta nel 2014. Atkinson, che combatté nel 2010 per un seggio per i conservatori nel Sud-Est britannico, divenne in seguito membro dell’Ukip ed è poi confluita nel gruppo europeo Enf (Europa delle nazioni e della libertà) con Marine Le Pen, Geert Wilders e Matteo Salvini. «Data la mia vicinanza a Salvini – scherza dunque Atkinson con Arron Banks e Nigel Farage – penso che dovrei essere io ambasciatrice a Roma. Che ne dici Gavin? Amerei davvero vestirmi a Milano e vivere a Roma». Stiamo parlando di un gruppo internazionale di buoni amici.
«Chi ha presentato Cambridge Analytica ad Arron Banks?», domanda Carole Cadwalladr, la giornalista a cui si deve lo scoop che ha scoperto le esfiltrazioni illegali di dati da parte di Cambridge Analytica, grazie a un whistleblower esclusivo, Christopher Wylie. È una domanda retorica, ricorda Cadwalladr: «Brittany Kaiser dice che fu Steve Bannon», ossia l’uomo così impegnato nei colloqui italiani post-4 marzo con Lega e Movimento cinque stelle. Brittany è una ex dirigente di Cambridge Analytica, risultata poi in contatto anche con Julian Assange, con il quale si è incontrata nel febbraio 2018 – come risulta dai log nell’ambasciata ecuadoregna a Londra – per discutere secondo «The Guardian» su cos’era accaduto durante le elezioni americane (Wikileaks nega che abbiano parlato di questo). Sempre secondo «The Guardian», Kaiser avrebbe affermato di aver trasferito, attraverso criptomonete, pagamenti e donazioni a Wikileaks – informazione che sarebbe stata passata a inchieste parlamentari e del Congresso, rispettivamente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Wikileaks in una dichiarazione ufficiale ha smentito la circostanza: «Wikileaks non ha conoscenza di donazioni da alcuna delle parti menzionate, non ebbe un meeting per discutere di elezioni Usa».
Cambridge Analytica, va ricordato, aveva contattato Assange nel luglio 2016 con la proposta di aiutarlo a indicizzare e distribuire le 33mila email che erano state rubate a Hillary Clinton – ora sappiamo – direttamente dal Gru, il servizio segreto militare russo, secondo l’accusa del procuratore speciale Robert Mueller; Assange dichiarò di aver rifiutato la proposta di Cambridge Analytica. Ancora una volta, se è vera questa testimonianza di Kaiser, da Banks torniamo a Bannon, in un pieno triangolo politico-culturale che incrocia anche l’Italia, e non poco.
È Bannon o qualcun altro a mettere in contatto Banks con Cambridge Analytica? Osserva Cadwalladr: «Andy Wigmore mi disse che fu il segretario generale dell’Ukip e avvocato di Robert Mercer, Matthew Richardson». Cambierebbe l’intermediario, ma la sostanza e l’ambiente politico rimarrebbero i medesimi. Persone che, in varie forme, hanno stabilito un link con i due partiti italiani, ancora apparentemente lontani dal formare il loro governo insieme: Movimento cinque stelle e Lega.
Durante il suo intero soggiorno romano, scrive Rob Cox, Global editor a Reuters, citando sue fonti, «Steve Bannon era sorvegliato dai servizi segreti italiani. Si trovava lì per fare amicizia con la Lega, che ha suggerito di riconsiderare le sanzioni alla Russia». Ovviamente anche all’ambasciata americana di via Veneto tenevano particolarmente d’occhio il viaggio italiano del vecchio Steve, cercando di capire se rispondesse al vero la notizia di un suo presunto contatto con Beppe Grillo, e nel contempo le evoluzioni della trattativa italiana per formare il nuovo governo. «Politico» ha scritto che sabato 22 settembre, a Roma, oltre a partecipare al congresso di Atreju, la costola giovanile di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, Bannon ha incontrato anche Luigi Di Maio. L’articolo, uscito domenica 23 settembre, non riceve per quattro giorni alcuna smentita ufficiale dal Movimento. La giornalista, Silvia Borrelli, mi conferma di aver avuto due ottime fonti, una dalla parte di Bannon, e una dalla parte del ministro del Movimento, che ha chiesto l’anonimato. Solo cinque giorni dopo l’uscita dell’articolo, Di Maio, sollecitato dalla domanda di un giornalista in una occasione pubblica casuale, risponderà brevemente: «Non ho incontrato Bannon». Abbiamo verificato che nessuna richiesta di smentita, rettifica o azione legale è arrivata a «Politico», mesi dopo quell’articolo, nel momento in cui scrivo. La giornalista, Silvia Borrelli, aveva basato il suo report su due fonti registrate.
Una tempistica interessante pone a cospetto del nuovo ambasciatore americano a Roma, Lewis Eisenberg – filantropo, fundraiser, repubblicano moderato ma amico personale di Donald Trump, nonché ex presidente del Comitato repubblicano per il finanziamento, in pratica ex tesoriere del Gop –, prima Matteo Salvini e poi Luigi Di Maio, rispettivamente il 21 e il 22 marzo 2018. Un governo che, a giudicare anche da eventi successivi, si stava facendo già in quei giorni, e non dispiacerà affatto al presidente Usa. Ambienti americani, a un certo punto dei quasi tre mesi necessari per mettere in piedi il governo, hanno guardato con simpatia – come ci ha confermato una fonte che ha guidato nel recente passato un ministero italiano cruciale – un governo col Movimento, ma in qualche modo accompagnato e messo sotto tutela.
Un’altra circostanza interessante è che il 20 dicembre 2017, in piena campagna elettorale, l’ambasciatrice britannica a Roma Jill Morris riceve Davide Casaleggio in ambasciata. Non sfugge neanche che sia stata proprio l’ambasciata (non Casaleggio, tanto meno il Movimento) a render pubblico l’incontro con Davide, uomo che ha sempre dichiarato di non ricoprire alcun ruolo nei Cinque stelle. Allora per quale motivo l’ambasciatrice twitta: «Lieta di incontrarlo per capire meglio il programma e gli obiettivi del M5S»? Il Foreign Office ci sta forse dicendo qualcosa, o sta ricordando qualcosa al figlio di Gianroberto, che tra l’altro ha doppio passaporto, in quanto figlio di madre inglese? Nel tweet Jill Morris tagga anche (cioè si rivolge a) Luigi Di Maio, Virginia Raggi e Chiara Appendino.
Donald Trump, qualche tempo dopo, ricevendolo il 30 luglio 2018 alla Casa Bianca, elogerà apertamente Giuseppe Conte, il poco noto avvocato italiano diventato premier del nuovo governo Lega-Movimento: «Sono totalmente d’accordo con quello che state facendo rispetto all’immigrazione, all’immigrazione illegale, e persino a quella legale», dirà Trump. «Conte ha assunto una posizione molto ferma sui confini, posizione che poche altre nazioni hanno preso. E sinceramente, a mio giudizio sta facendo la cosa giusta».
Quando, nell’inverno 2018, il governo britannico di Theresa May entra in crisi per le dimissioni a raffica di una serie di ministri guidati dall’ultraeuroscettico Dominic Raab, critici con il primo ministro per aver accettato un accordo sulla Brexit troppo morbido con l’Unione europea, Farage esulta e lancia quello che sarà il vero tema (anche in Italia) della campagna elettorale per le europee 2019: lo scontro con l’Europa. «Ogni membro del governo che sia un vero Brexiteer ora deve dimettersi o non sarà mai più creduto», è l’invettiva dell’alleato di Casaleggio senior, che si riprende il campo degli ultraconservatori anti-europei contro i troppo cauti Tories. È, questa, l’autentica portata della campagna elettorale per le europee 2019 anche in Italia. Anche se mancherà l’apporto dell’Ukip, e il Movimento – come vedremo più avanti – deve tentare altre strade, affini, sempre fortemente euroscettiche, per esempio quella dei gilet gialli francesi, di formazioni di destra radicale polacche, o dei croati più filoputiniani.
Insomma, tra Farage-Gianroberto Casaleggio, il nuovo Movimento di Davide, il lavoro comune «in grande dettaglio» sull’intelligenza artificiale messo per iscritto da Arron Banks, e la presenza costante di Steve Bannon, si arriva anche qui a Salvini e al matrimonio Lega-Movimento da molto prima che ce ne accorgessimo in un’Italia anestetizzata o complice, incontrando una serie di «brothers», personaggi che tra loro si considerano fratelli: sono loro a creare l’humus di simpatie e relazioni dentro cui nascerà il governo italiano della Lega e del Movimento cinque stelle. Un altro è un grande amico di Nigel Farage e Arron Banks. Si chiama Ted Malloch.