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Sovranisti e gilet gialli

Durante uno dei momenti iniziali dell’imbarazzante confronto in streaming tra Matteo Renzi, premier incaricato, e Beppe Grillo, il 19 febbraio 2014, Grillo pronunciò una frase importante per capire la vera natura del Movimento; una frase che pochi, nel flusso emotivo di quel momento, annotarono: «Noi siamo opposti. Tu vuoi svendere la nostra sovranità, noi la vogliamo mantenere». Accanto a lui Luigi Di Maio, già capo politico predestinato, annuiva. Sovranità. Prima di Trump. Prima di Bannon. Prima della Brexit. Poi Grillo aggiunse: «Noi siamo i conservatori».

Pochi se lo ricordano e pochissimi lo sanno, ma Beppe Grillo è stato un fan e un propagandista ante litteram del sovranismo in Italia. Il 18 settembre 2013, in uno di quei post di profonda linea politica che di tanto in tanto il blog della Casaleggio pubblicava, intitolato «La guerra dell’euro», Grillo o chi per lui scriveva: «C’è stata una guerra, la guerra dell’Euro e come dopo ogni guerra persa ci sono i debiti di guerra da regolare. La guerra l’ha vinta la Germania che ora reclama i suoi settecento miliardi di euro di crediti concessi alla periferia dell’Europa, di cui duecento miliardi dall’Italia. Vanno avanzate proposte su come gestire e regolare i debiti di guerra per evitare il nostro fallimento».

Il Movimento era entrato trionfalmente in Parlamento sei mesi prima, e dunque queste elaborazioni andavano già prese molto sul serio. «Sono passati tre anni di recessione, disoccupazione e crollo dei consumi e la situazione è peggiorata», stava scritto nel blog della Casaleggio, con Gianroberto ancora al comando e nel pieno delle sue forze. «L’euro ha scaricato su lavoratori e pensionati aggiustamenti di competitività con gli altri paesi dell’area euro ottenibili solo con austerità e disoccupazione. I media in difesa dell’establishment ignorano completamente un legittimo dibattito sull’euro. Colpevoli e complici». Con le parole successive il Movimento veniva indirizzato nella galassia nettamente euroscettica, se non proprio già sovranista: «Il M5S è l’unico in Parlamento a parlare di sovranità monetaria e di signoraggio. I cittadini si stanno informando. Più Europa e meno banche. È necessario un nuovo concetto di Europa, solidale e veramente comunitaria». Le parole «sovranità monetaria» e «signoraggio» erano già totalmente esplicite, a chi avesse voluto ascoltare, sulla direzione profonda del Movimento, ma quello che si leggeva subito dopo lo era ancora di più: «Il ruolo dell’Italia in Europa è fondamentale, ma dobbiamo ridiscutere le condizioni in cui partecipiamo, a partire dall’emissione di eurobond che tutelino le economie più deboli, di una rinegoziazione del debito pubblico e della cancellazione del Fiscal Compact, un nodo scorsoio che impiccherà il nostro Paese». Dietro la maschera degli eurobond si stava in realtà prefigurando – e quasi auspicando, a giudicare dai toni del blog – una situazione totalmente post-euro. Ricordiamoci la data: 18 settembre 2013. Ci torneremo tra poco.

Erano anni che Grillo e Casaleggio si erano avvicinati alle teorie sovraniste, da sempre così care al mondo della destra radicale italiana. Uno dei vettori più curiosi era stata l’opera (e la persona) di Giacinto Auriti, un giurista che aveva cofondato l’Università di Teramo ed elaborato, soprattutto nel suo libro Principi ed orientamenti per una moneta europea (1977), una teoria per dimostrare che la proprietà della moneta appartiene giuridicamente al popolo, non alle banche centrali, e dunque va restituita ai cittadini. Auriti, che era stato militante del Movimento sociale (si candidò, ormai anziano, alle europee 2004 con Alternativa sociale, la coalizione elettorale di Alessandra Mussolini con Forza nuova e Fronte sociale nazionale), sperimentò anche concretamente la sua teoria: a Guardiagrele, il suo paesino d’origine, emise nel 2000, con l’accordo del sindaco, il Simec, una moneta parallela da distribuire nella comunità sul presupposto teorico che sarebbe stata la comunità locale a oggettivizzare (e detenere) il valore reale della moneta. Creò anche un «assessorato al reddito di cittadinanza», uno dei successivi cavalli di battaglia, com’è noto, del Movimento cinque stelle.

Fin dai primi anni Settanta documenti rivelano che, col suo Raggruppamento italico – una formazione politico-culturale di destra di cui Auriti fu reggente assieme al conte Paolo Sella di Monteluce, Alberto Milani, Alberto De Stefani (ex ministro delle Finanze del governo Mussolini) e vari missini, tra cui spiccava Giuseppe Gonella, già fondatore del Guf (Gruppi universitari fascisti) –, Auriti teorizzò una protoversione del sovranismo che curiosamente tornerà poi nella stagione del Movimento al governo. Sul presupposto della «illegittimità delle clausole dei trattati di pace», Auriti rivendicava «l’intangibilità della sovranità nazionale, vulnerata dalla cessione della sovranità monetaria». Bisognava dunque «additare alla nazione i responsabili di ogni rinuncia di sovranità come traditori del mandato politico e burocratico e come complici dello straniero per le punizioni conseguenti alle leggi di guerra che dovranno essere ripristinate».

Siamo nel 1973. Sfrondando dal linguaggio di un’altra epoca, dal cupo rumor di sciabole che lo rendeva inquietante, e dal passatismo bellico-militare, la fetta sovranista e nazionalista di quelle idee, benché antiquate per tanti altri versi, sarebbe suonata musica per personaggi della scena politica odierna come Bannon, Banks o Kassam. E suonò musica per Grillo, che iniziò a studiare il professor Auriti e anche, talora, a frequentarlo. Nel 1996 partecipò a un convegno con Auriti e Giano Accame, studioso di Ezra Pound, orgogliosamente fascista, dal titolo «Studi dei valori giuridici e monetari». Il sito di destra «Camelot Destra Ideale» ha ricordato un particolare troppo spesso dimenticato: sul numero del 30 novembre 1998 di «Area», la rivista della destra sociale di Gianni Alemanno e Francesco Storace, il comico loderà le idee di Accame e un suo libro: «Quando parla del potere del denaro che svuota le democrazie, Accame ha perfettamente ragione, dice una cosa che dovrebbe essere chiara agli occhi di tutti, se solo si smettesse di fare demagogia [...]. Così dovrebbe essere la vera sinistra, invece questi discorsi li fa la destra». Curioso che uomini vicini alla destra romana incroceranno le vicende di pezzi della giunta di Virginia Raggi a Roma, tanti anni dopo. In quell’articolo oggi dimenticato, peraltro, Grillo arrivava a scrivere, in un discorso contro le grandi aziende mondiali, «veri centri di potere mentre noi ancora pensiamo a Bertinotti»: «Bisognerebbe poter decretare la pena di morte per le aziende che procurano danni».

Quel post sovranista sul blog della Casaleggio del 18 settembre 2013, però, aveva una ragione contingente. Casaleggio aveva fiutato, con le antenne sensibili che aveva, una ripresa del dibattito e dei movimenti sovranisti in Italia, quando davvero pochi se n’erano accorti. E aveva deciso che lì bisognava dirigere l’esperimento. Una settimana prima, il 12 settembre, c’era stato un evento che a guardarlo oggi appare uno spartiacque e una prima prefigurazione della stagione sovranista al potere in Italia. Nell’aula dei gruppi della Camera, fatta riservare dalla Lega, l’associazione Asimmetrie (nel cui comitato scientifico siedono Alberto Bagnai, professore a Pescara, Luciano Barra Caracciolo, del Consiglio di Stato, Claudio Borghi Aquilini e, soprattutto, Paolo Savona) assieme all’Università di Pescara e alla Link Campus University (nessuno fa tanto caso, allora, a questa presenza) organizza un seminario dal titolo «L’Europa alla resa dei conti». Partecipano appunto Bagnai, Borghi, Antonio Maria Rinaldi (animatore del sito scenarieconomici.it) e Savona. Al tavolo c’è anche Giuseppe Guarino, decano degli amministrativisti – lo stesso milieu, gli amministrativisti, di Giuseppe Conte. Siede poi tra i relatori anche Vincenzo Scotti, ex potente ministro democristiano, reinventatosi come tessitore di reti dalla presidenza della Link University. Nessuno ci fa caso. Sulla Link torneremo, ma quel convegno apre effettivamente una stagione. E sarà battistrada di altri eventi e passaggi.

Passano solo due anni e, nell’ottobre 2015, è proprio Paolo Savona a tenere la relazione introduttiva in un altro convegno a Roma intitolato «Un Piano B per l’Italia». Piano che, stando a questo titolo e al documento connesso lì presentato, in una qualche forma esiste eccome: bisogna solo capire, esattamente, da chi sia stato sposato. Il convegno è organizzato da scenarieconomici.it, il sito di Rinaldi, un saggista economico, allievo di Savona, che verrà elevato a una docenza a contratto alla Link University. Savona in quella occasione s’intrattiene a parlare del «Piano A», un’analisi di cosa bisognerebbe fare per rendere davvero l’euro una moneta comune. Tuttavia subito dopo enuncia anche un «Piano B» per lasciare la moneta unica e riprendersi la sovranità monetaria italiana, se il Piano A non dovesse funzionare. Non v’è chi non veda come, tanto in politica quanto in politica economica, quando si introduce una subordinata il focus diventa quello: la subordinata. Come si legge chiaramente nei testi pubblicati sul sito di «Scenari economici», il Piano B è però un autentico Piano A: l’uscita dall’euro non è una necessità estrema in circostanze catastrofiche ma, testualmente, un’occasione da cogliere per gestire la «nuova èra economica sovrana».

Per una tesi così ardita, stavolta, si preferisce non chiedere l’uso della Camera. Dove avviene allora il convegno? Alla Link di Vincenzo Scotti, un’università che, in un modo o nell’altro, torna sempre nell’esecuzione. Tra i partecipanti vi sono, ormai apertamente, parlamentari Cinque stelle, per esempio Giorgio Sorial. D’altra parte in quell’anno le idee sovraniste incontrano le simpatie di sempre più eletti chiave, nel Movimento, per esempio di Laura Castelli, poi viceministro dell’Economia. A una domanda di Lilli Gruber in tv, poco prima delle elezioni del 4 marzo, se avrebbe votato per uscire dall’euro in un ipotetico referendum, Castelli risponderà impacciata: «Non glielo dico».

Il Piano B, più nel dettaglio, prevede alcuni elementi non dissimili dalle tesi del Raggruppamento italico di Auriti. Ne citiamo alcuni: bisogna nazionalizzare la Banca d’Italia; la Banca d’Italia deve esser pronta a immettere quantità di liquidità enorme nel sistema bancario; via Nazionale deve diventare prestatore di ultima istanza a supporto del fabbisogno pubblico, e deve poter agire sul cambio; occorre reintrodurre gli anticipi di Bankitalia per finanziare il deficit; bisogna agire pensando a un obiettivo di svalutazione del cambio tra il 15 e il 20 per cento, e intanto «evitare di manipolare il valore della moneta e consentire il cambio libero». A corredo di tutto questo, occorre abolire l’articolo 81 della Costituzione (quello che recita al primo comma «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico»), consentire al ministero dell’Economia di ricapitalizzare, laddove necessario, banche e assicurazioni, e attuare una moratoria sul servizio del debito pubblico, in vista di una sua ristrutturazione. Ovviamente non è ben spiegato quale passaggio politico in Europa renderebbe possibile la ristrutturazione, ma non siamo lontani da una sorta di teorizzazione del default e dalla stampa di nuova moneta, il tutto in «segretezza», con il compito affidato a una specie di commissario, un «fiduciario esterno alle istituzioni».

Nella prima bozza del «Contratto di governo Lega-M5S», scoperta da un team di giornalisti dell’«Huffington Post», si legge a pagina 35 l’obiettivo di introdurre «specifiche procedure tecniche di natura economica e giuridica» che consentano a singoli Stati di uscire dall’euro e «recuperare la propria sovranità monetaria», o di «restarne fuori attraverso una clausola di opt-out permanente» per avviare un «percorso condiviso di uscita concordata» in caso di «chiara volontà popolare».

È nella stagione del «Piano B», poco meno di un anno dopo quel convegno, nel 2016, che Paolo Savona conosce e si parla con Luigi Di Maio. Almeno stando a quanto ha raccontato il professore, perché la versione di Di Maio è stata diversa, anzi diciamo opposta. Sia Alessandro Di Battista (in tv a Otto e mezzo), sia Giancarlo Giorgetti, il braccio destro di Matteo Salvini (in tv a Bersaglio mobile), spiegheranno che Savona era il vero perno del governo giallonero. Ma mentre le due versioni, sia Cinque stelle sia leghista, su quando Savona fa irruzione come trait d’union chiave nel mondo del governo convergono, quasi fossero addirittura concordate, ce n’è una che diverge clamorosamente: quella narrata da Savona, anni fa, in pubblico.

Giorgetti ha raccontato di essere stato lui a presentare Savona a Salvini e Di Maio. E a maggio del 2018 il leader di Pomigliano d’Arco ha sostenuto (in tv a Pomeriggio 5) una versione consonante, di aver conosciuto Savona solo una decina di giorni prima, assieme a Matteo Salvini. Succede però che in un video su Internet, pubblicato anche in tv dalla trasmissione Agorà, si vede Savona che, il 16 settembre 2016, dal palco di un convegno al T-Hotel di Cagliari, dice serenamente: «Ho avuto un lungo colloquio con Di Maio [su euro e sovranità monetaria] e dicevo, ma qual è la tua risposta? [E Di Maio rispondeva:] “Niente, dobbiamo uscire dall’euro”. Eh, va beh, sono il primo ad averlo detto». Un resoconto talmente esplicito, anche sulle date, da lasciare poco spazio a dubbi: nel settembre 2016 Savona già aveva avuto, presumibilmente qualche mese prima, (almeno) un colloquio con Di Maio nel quale la fiducia del futuro vicepremier era talmente ampia da sbilanciarsi sulle vere posizioni nei vertici del Movimento: uscita secca dall’euro. È forse per questo che Di Maio e la Lega postdatano questi incontri? Che bisogno ci sarebbe di contraddirsi su un evento così innocuo come l’ingresso di un professore nella galassia di due partiti politici sovranisti, chi più chi meno? Forse perché l’uscita dall’euro è un tema che deve restare coperto? Quelle di Di Maio su questo argomento sono giravolte, o una forma di nicodemismo?

Nella sua autobiografia, Savona scrive cose che sarebbero suonate come musica ad Auriti, e che sicuramente piacciono al suo allievo Beppe Grillo, e sarebbero piaciute a Gianroberto Casaleggio: «La Germania non ha cambiato la visione del suo ruolo in Europa dopo la fine del nazismo, pur avendo abbandonato l’idea di imporla militarmente. Per tre volte l’Italia ha subìto il fascino della cultura tedesca che ha condizionato la sua storia, non solo economica, con la Triplice alleanza del 1882, il Patto d’acciaio del 1939 e l’Unione europea del 1992. È pur vero che ogni volta fu una nostra scelta. Possibile che non impariamo mai dagli errori?».

In questa visione l’euro è una «gabbia nazista», qualcosa da cui evadere, perché dalle gabbie, ça va sans dire, si evade, quasi fosse un dovere morale. Nel frattempo, racconta Federico Fubini sul «Corriere», Savona risulterà ancora (a inizio ottobre 2018; le sue dimissioni diventano esecutive il giorno dell’uscita dell’articolo) direttore di un fondo di investimenti speculativo nel Regno Unito, Euklid, e titolare di 1,3 milioni di euro custoditi in Svizzera, in parte su una polizza e in parte su un conto. Savona replica al «Corriere della Sera» di essersi dimesso da mesi. Nel frattempo sceglie riviste russe come «Ogoniok» per consegnare parole come queste: «In Europa nessuno vuole che l’Italia entri in una crisi finanziaria perché questo potrebbe provocare la crisi di tutta la zona euro» (22 ottobre 2018). È una rassicurazione, o una profezia che potrebbe autoavverarsi? Non è chiaro, e forse non lo è programmaticamente.

Il 13 dicembre 2014, in piena terra leghista, a Bovisio, Luigi Di Maio era stato la star del «Firma day», una giornata per raccogliere le firme per un referendum sull’euro nel quale lui, disse, avrebbe votato per uscire: «Uscire dalla moneta unica significa più energia nostra, più investimenti per le imprese, e significa meno troika, e quindi meno tasse e meno stritolamento dei nostri connazionali», si ascolta in un video ben rilanciato sui siti della Casaleggio, che fece record pubblicitari e di visioni. E lo ripeté varie altre volte in tv.

Beppe Grillo, al netto di tante differenti affermazioni e minimizzazioni, ha sempre tenuto la posizione su cui tante volte discusse in piena sintonia con Gianroberto Casaleggio: il 18 dicembre 2014, alla sede della stampa estera in via della Mercede, il paziente zero dell’esperimento dichiarò solenne una frase storica: «Il problema vero non è uscire dall’euro: è uscire il più velocemente possibile. Sperimentare un altro modello di sviluppo». Con il governo Conte ormai insediato, in un’intervista con il saggista americano Ian Bremmer, Grillo è stato forse ancora più brutalmente esplicito, come avviene quando si rilassa: «Noi non abbiamo un Piano B, se succedesse qualsiasi cosa. Devi avere un Piano B sulla moneta. Sono sicuro che ce l’ha la Germania, ce l’ha la Francia». Sono andato a ricontrollare le parole che dice in italiano, non la traduzione inglese, e sono testualmente queste: esattamente le stesse – identiche – spesso pronunciate da Savona.

Sono discorsi che circolano, vengono ripetuti, echeggiano. Dai tempi in cui erano confinate a siti alternativi, o al blog della Casaleggio, le proposizioni anti-euro si sono spostate in un’università come la Link, o direttamente alla Camera. Il 4 luglio 2018, nell’aula dei gruppi parlamentari di Montecitorio, si ripete la scena di cinque anni prima, ma stavolta è la serata del triangolo Lega-Movimento-destra. Alla presentazione del nuovo libro di Rinaldi sulla sovranità monetaria (La sovranità appartiene al popolo o allo spread?) sfila un esempio di totale trasversalismo sovranista.

Ci sono tanti amici: Scotti, presidente della Link Campus University, Luciano Barra Caracciolo, sottosegretario euroscettico agli Affari europei del governo Conte (Barra su scenarieconomici.it scrisse un articolo illustrato dal sito con una bandiera dell’Unione europea che sfumava in quella con la svastica nazista), Borghi (presidente della Commissione bilancio di Montecitorio, anche lui – come si evince dalla sua dichiarazione dei redditi, pubblica – con una cifra cospicua, 400mila euro, investita in titoli esteri), Bagnai. C’è poi Antonio Bordin, un avvocato di Dolo, in provincia di Venezia, personaggio assai rilevante nella propaganda sui social network a cavallo tra pro-Movimento e pro-Lega: nella stagione del referendum il suo account Twitter era il secondo in assoluto dopo quello del «Fatto Quotidiano» nella campagna per il no che ha buttato giù Matteo Renzi.

C’è poi, a sorpresa, anche Mario Improta, poco noto ai più con questo nome, ma molto noto sui social network come Marionecomix: non solo il duro vignettista simpatizzante del Movimento, apprezzato alla Casaleggio, ma anche una figura capace nell’aggregazione, grazie alla centralità dei suoi account sul network. Il suo storico account Twitter verrà infine sospeso dall’azienda americana nell’autunno 2018. Improta ne aprirà un altro, dove riceve elogi pubblici dall’account Twitter ufficiale di capitano Ultimo, il colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, l’uomo che arrestò Totò Riina. De Caprio era passato, in una stagione più recente, il 2016, ai servizi segreti dell’Aise, ma un anno dopo è tornato all’Arma perché – ha scritto Alberto Custodero su «Repubblica» – dopo l’indagine su Consip (nell’ambito della quale un suo ex collega, il maggiore dei carabinieri Gianpaolo Scafarto, finirà indagato con l’accusa di aver falsificato prove contro Tiziano Renzi e depistato le indagini) era «venuto meno il rapporto di fiducia», cioè alcuni ex colleghi dei carabinieri del Noe avrebbero continuato a collaborare con i loro colleghi nei servizi, «a totale insaputa dei vertici dell’intelligence».

Nel pubblico alla Camera, sorridenti, comparivano quel tardo pomeriggio Simone Di Stefano, vicepresidente di Casa Pound, Luca Marsella, candidato di Casa Pound a Ostia, e altri militanti dell’estrema destra romana. Imbarazzo? Rinaldi mi rispose così: «Ci siamo molto divertiti, sul web, specialmente in tempo di elezioni». E spiegò che lui frequentava tutti, anche i comunisti italiani: «A Milano aveva organizzato la Lega. Alla Camera il M5S». A chiedere l’aula dei gruppi per questo evento trasversale alla Camera, mi disse Rinaldi, era stata Carla Ruocco, oggi presidente della Commissione finanze di Montecitorio, una delle deputate in contatto telefonico diretto con Grillo, e molto vicina politicamente a Marcello Minenna, ex assessore al bilancio di Virginia Raggi, uscito polemicamente da quella giunta ma poi fotografato sorridente alla Camera, in un altro convegno, stavolta tutto del M5S, assieme proprio a Grillo e Davide Casaleggio.

Minenna è stato uno dei punti di riferimento teorici dei parlamentari del Movimento più sensibili alle critiche radicali all’euro in economia. Era il nome preferito dal Movimento per la guida della Consob (alla fine tante perplessità su quella nomina, tra le quali quella della presidenza della Repubblica, hanno fermato la sua corsa, e Lega-Movimento hanno scelto al suo posto il ministro Paolo Savona). Nel dicembre 2017 gli domandai per «La Stampa» se a suo giudizio si poteva davvero uscire dall’euro. Minenna mi rispose così: «Tecnicamente sì, si può, ma non è una passeggiata, bisogna valutare i pro e i contro. Nel 2011, se avessimo avuto un Piano B, sarebbe stato molto meno costoso di oggi. Da allora sono state firmate una serie di regole per nazionalizzare i rischi delle nostre banche e del nostro debito pubblico, per cui oggi un’uscita sarebbe assai più onerosa rispetto al 2011».

Un tempo nutrito e alimentato dai gruppi che ricordavamo della destra, anche radicale, italiana, il sovranismo di questa stagione incrocia numerosi movimenti europei, spesso cavalcati anche dall’estero, compresi quelli francesi; e al tempo stesso si tocca con pezzi significativi del mondo finanziario e degli ambienti politici londinesi. Per ciò che concerne il primo caso, il sovranismo italiano appare non distante, per contenuti e modalità, dalla rivolta parigina dei gilets jaunes, che esplode in forme ormai visibili a tutti l’8 dicembre 2018. Tre dei punti del programma dei gilet gialli (9, 22, 24) sono la «Frexit» (sovranismo purissimo, che per la prima volta viene evocato espressamente a Parigi), l’uscita dalla Nato e la lotta senza tregua all’immigrazione. Copione che ha non poche analogie con la Brexit, e con il voto del 4 marzo 2018 in Italia.

Donald Trump twitta entusiasta che i francesi protestano contro l’accordo sul clima: «L’accordo di Parigi non sta funzionando così bene per Parigi. Proteste e rivolte in tutta la Francia. Le persone non vogliono pagare grosse somme di denaro, molto in Paesi del terzo mondo (che sono gestiti in modo discutibile), al fine di proteggere forse l’ambiente. Cantano: “Vogliamo Trump!”. Amo la Francia». È però assai dubbio che in realtà qualcuno in piazza a Parigi gridasse «vogliamo Trump» (la notizia fu twittata per primo da Charlie Kirk, di Turning Point Usa, un’organizzazione di destra americana molto attiva sui social, e spesso vicina alla rete social leghista italiana).

Beppe Grillo, in un’intervista al «Fatto Quotidiano» che quel giornale intitola «Vogliamo le stesse cose dei gilet gialli», commenta a caldo: «I gilet gialli hanno venti punti di programma, non parlano solo di tasse, vogliono il reddito di cittadinanza, pensioni più alte... Tutti temi che abbiamo lanciato noi». Luigi Di Maio ovviamente si adegua: «Quelle proposte che sono nei volantini dei gilet gialli sono nel programma di governo e saranno realizzate nella legge di bilancio», «Mandare a casa l’establishment anche in altri paesi come la Francia». Proprio lui che mesi prima scriveva lettere gonfie di punti esclamativi indirizzate a Emmanuel Macron.

Steve Bannon, ancora lui, parlando a Bruxelles a un evento della destra europea (davanti tra l’altro a Marine Le Pen) proprio l’8 dicembre, ripete che «siamo davanti a un conflitto su base globale», e «i gilet gialli sono lo stesso tipo di persone che hanno eletto Donald Trump presidente degli Stati Uniti nel 2016, e lo stesso tipo di persone che hanno votato per la Brexit. Vogliono avere il controllo dei propri Paesi». Gilet gialli uguali ai «deplorables» americani, dice esplicitamente Bannon. E, come ha sostenuto altre volte, uguali agli elettori di Movimento e Lega in Italia. Non è una coincidenza che proprio in Italia, a Collepardo, Bannon cerchi di lanciare nel 2019 un’Accademia del sovranismo, nelle strutture della Certosa di Trisulti, affittata alla cifra di 100mila euro all’anno. Ne è anima Benjamin Harnwell, ideologo cattolico ultraconservatore britannico presidente della fondazione Dignitatis Humanae, vicina al cardinale Burke, che per 19 anni si è aggiudicata la gestione del monastero. Un giro che è in contatto diretto con il mondo di Matteo Salvini, e dunque con il governo populista italiano al quale partecipa attivamente il Movimento cinque stelle.

E non è certo una coincidenza che, all’inizio del 2019, si faccia sentire vicinissimo ai gilet gialli anche Davide Casaleggio, l’uomo che ha le chiavi della macchina del Movimento. Il 7 gennaio Luigi Di Maio pubblica sul blog della casa un testo iper-populista e movimentista che non solo ribadisce la totale vicinanza del Movimento ai gilet francesi, cosa ormai ovvia: «Gilet gialli, non mollate! Dall’Italia stiamo seguendo la vostra battaglia dal giorno in cui siete comparsi per la prima volta colorando di giallo le strade di Parigi e di altre città francesi. Sappiamo cosa anima il vostro spirito e perché avete deciso di scendere in piazza per farvi sentire. In Francia, come in Italia, la politica è diventata sorda alle esigenze dei cittadini che sono stati tenuti fuori dalle decisioni più importanti che riguardano il popolo. Il grido che si alza forte dalle piazze francesi è in definitiva uno: “fateci partecipare!”». Di Maio fa di più: offre ai gilet gialli l’uso del sistema Rousseau, detenuto dall’associazione omonima presieduta da Davide Casaleggio: «Il Movimento 5 Stelle è pronto a darvi il sostegno di cui avete bisogno. Come voi, anche noi, condanniamo con forza chi ha causato violenze durante le manifestazioni, ma sappiamo bene che il vostro movimento è pacifico. Possiamo mettere a vostra disposizione alcune funzioni del nostro sistema operativo per la democrazia diretta, Rousseau, per esempio call to action per organizzare gli eventi sul territorio o il sistema di voto per definire il programma elettorale e scegliere i candidati da presentare alle elezioni. È un sistema pensato per un movimento orizzontale e spontaneo come il vostro e saremmo felici se voleste utilizzarlo».

Ora, a parte la conclamata vulnerabilità informatica, su cui torneremo, della piattaforma Rousseau (che peraltro non è tecnicamente un sistema operativo), ciò che colpisce è un conflitto d’interessi ormai assodato tra il Movimento e Casaleggio, al quale si aggiunge in questa circostanza una grossolana ingerenza nelle vicende politiche interne di uno Stato straniero: il vicepremier italiano sponsorizza e offre, a un movimento estero che sta seminando il caos in un paese democratico alleato dell’Italia, una piattaforma online privata, prodotto di un’associazione presieduta da un privato, che è anche il proprietario di un’azienda di web marketing. Va aggiunto che, nella storia del Movimento, quando il blog Cinque stelle rende pubblico qualche interesse internazionale è perché ha già allacciato dei contatti: la comunicazione è una messa a verbale di ciò che è accaduto, non una nuova informazione fornita ai sostenitori. La conclusione del post di Di Maio questo lascia pensare: «Una nuova Europa sta nascendo. Quella dei gilet gialli, quella dei movimenti, quella della democrazia diretta. È una dura battaglia che possiamo combattere insieme».

Lo stesso giorno Di Maio pubblica sul suo profilo Instagram una foto in cui compaiono anche Davide Casaleggio, Alessandro Di Battista, Rocco Casalino, Pietro Dettori e in mezzo a loro, alla destra di Casaleggio, Silvia Virgulti, la ex fidanzata di Di Maio ma soprattutto la coach di training motivazionale del Movimento. Di Maio correda la foto con questo proclama: «Al lavoro per rivoluzionare l’Europa». L’entusiasmo è troppo ostentato in quelle ore. E tradisce una forma di affanno politico e di velleitarismo, dovuto a una caduta nei consensi dei Cinque stelle, che si accompagna a un’altra trovata: viene diffusa la notizia di un imminente incontro a Strasburgo – presso la sede del Parlamento europeo – con Jacline Mouraud, una delle portavoci di settori moderati dei gilet jaunes, che starebbe per lanciare un nuovo partito, Les Émergents.

La realtà è che il Movimento tenta l’ennesima mossa di marketing politico per la sua stessa profonda disorganizzazione, una mossa della disperazione: trovatosi senza Ukip, senza alleati britannici nel futuro Parlamento, al contempo quasi senza nuovi alleati (tutti i partiti più grandi, da En Marche di Macron ai Verdi, hanno in quei mesi sbattuto le porte in faccia all’inaffidabile partito-azienda italiano), e constatando un collasso nei sondaggi, cerca di cavalcare l’ultima moda del fiorente mercato populista-sovranista, cioè i gilet gialli.

Pochi in quelle ore connettono alcuni fatti precedenti, e cioè che i gilet francesi pochi giorni prima, a Parigi, si sono connotati in senso molto poco europeo, e violento: molti di loro hanno marciato inneggiando a RT, la tv del Cremlino. In piazza l’8 dicembre c’erano bandiere della Repubblica filorussa del Donbass – per esempio quella sventolata da due noti militanti francesi pro-Putin, Fabrice Sorlin e Xavier Moreau, uno dei quali appare anche in una fotografia a un evento con Marion Maréchal, la nipote di Marine Le Pen. Sorlin è a capo di un think tank filorusso (Katehon) in contatto con Aleksandr Dugin, il filosofo rossobruno amato da Putin, ormai presenza fissa in Italia. Dugin ha twittato, in francese: «Je suis le gilet jaune». E ancora: alcuni gilet gialli hanno aggredito sul metrò una anziana ebrea, deportata ad Auschwitz, con un atto di squadrismo antisemita denunciato da un giornalista francese. Un altro gilet, un pugile, ha picchiato selvaggiamente in strada un gendarme. Dulcis in fundo, i gilet gialli sono la prima forza francese che nomina apertamente la Frexit nel programma: parola che mai era stata davvero evocata in Francia, se non da un politico estremista con l’1 per cento dei voti.

In definitiva il Movimento, per non fare gruppo direttamente con Salvini-Le Pen, tenta di rifarsi un’immagine populista-movimentista per l’imminente campagna elettorale verso le europee, ma la cassetta degli attrezzi, il brand, il prodotto, restano non lontani da Salvini-Le Pen: comunque tali da non mettere in difficoltà il patto italiano con la Lega. Il paradosso tragico è che nell’Italia di Casaleggio e Salvini i gilet jaunes sarebbero fermati e arrestati: il decreto sicurezza votato da Lega e M5S prevede pene fino a sei anni per i blocchi stradali. Ma se i blocchi avvengono a Parigi, il Movimento si vuole alleare con chi li fa.

Alcune risposte iniziali non sono incoraggianti. Jacline Mouraud dice, anche abbastanza bruscamente: «No alle ingerenze di Di Maio. Se devo dirla tutta penso che l’Italia sia l’Italia e la Francia sia la Francia: non siamo lo stesso popolo, penso che quella del vostro vicepremier sia un’ingerenza negli affari interni del nostro Paese». Ma il reale tramite tra Movimento e mondo francese (e gilet gialli) è un uomo più potente, una vecchia conoscenza del Front National, ormai ottimo amico del Movimento di Casaleggio: Florian Philippot, ex numero due di Marine Le Pen, poi uscito dal partito nel 2017 dopo alcuni dissapori con la leader e accolto, in Europa, proprio nell’Efdd, il gruppo del Movimento con Nigel Farage. Di nuovo, Londra e la destra radicale francese, sempre dalle parti del Movimento, come un destino.

Philippot nel 2019 guida una formazione, Les Patriots, che cerca di navigare nella protesta dei gilet gialli, provando la difficile operazione dell’egemonia di quel mare magnum. È Philippot, particolare assolutamente da non dimenticare, che il 27 dicembre 2018 deposita a Parigi il marchio giuridico «Les Gilets Jaunes». Se qualcuno vorrà fare una lista con quel nome alle europee, dovrà passare da lui e dal suo partito. Il 5 febbraio 2019, però, il vicepremier italiano, lasciando le incombenze di governo, vola a Parigi in una banlieue con Alessandro Di Battista e incontra Christophe Chalençon, esponente dei gilet gialli della nascente lista Ric (Referendum di iniziativa popolare), che si presenterà alle europee. Alla fine parlano di accordo raggiunto su tutto. Eppure basta poco ad accorgersi che il Movimento è di nuovo finito in zone assai discusse, e discutibili, della politica europea: Chalençon è il militante dei gilet gialli che a dicembre aveva evocato su Facebook la «guerra civile in Francia», e aveva lanciato un appello «direttamente ai militari» per prendere in mano la situazione. Vuole questo il Movimento di Casaleggio, un partito che nel frattempo è al governo in Italia? La cosa, ovviamente, è stata celebrata da «Sputnik France», media del Cremlino a Parigi. E ha provocato la dura reazione di Macron, con l’ambasciatore francese a Roma, Christian Masset, richiamato a Parigi per consultazioni. La foto desolante di Palazzo Farnese, sede dell’ambasciata francese a Roma, con le luci spente e le finestre serrate diventa un’immagine simbolo, drammatica, dell’Italia isolata e marginalizzata nell’età giallonera.

A gennaio, a Bruxelles, Di Maio sigla poi accordi con altre formazioni. Ci sono i polacchi di Kukiz ’15, destra a volte anche molto radicale, guidati da una rockstar antiabortista, Paweł Kukiz, un uomo che si è schierato in modo veemente contro i rifugiati, e che la stampa polacca ha soprannominato «il Grillo di destra»; in realtà Kukiz è stato alleato in Polonia alle elezioni parlamentari del 2015 con il Ruch Narodowy (Movimento nazionale) di estrema destra di Robert Winnicki, e ha partecipato in questi anni a marce e manifestazioni dell’estrema destra polacca. Ci sono i croati di Živi Zid (Scudo umano), populisti e anti-euro, tra le formazioni più filoputiniane d’Europa. E i finlandesi di Liike Nyt (Movimento Ora), per i quali è stata mandata avanti come volto Karoliina Kähönen.

Quest’ultima intesa è molto importante, nonostante i finnici, rispetto ai croati e ai polacchi, siano un partito piccolo, con numeri non eclatanti. Importante al punto che era stata già preparata direttamente da Davide Casaleggio: il 31 ottobre 2018 il presidente dell’associazione Rousseau e della Casaleggio Associati, recatosi personalmente in Finlandia, ha incontrato Hjallis Harkimo, uno dei più conosciuti e discussi uomini d’affari del Paese, proprietario dell’hockey club di Helsinki e di uno dei top team nazionali, lo Jokerit. Harkimo è in affari con potenti oligarchi russi, impegnati tra l’altro nel business dell’hockey, Gennady Timchenko e Arkady e Boris Rotenberg (il primo dei due fratelli, con vari interessi in Italia, ha subìto diversi sequestri da parte dell’autorità giudiziaria italiana, di ville in Sardegna e a Tarquinia, e di un hotel a Roma, per una cifra complessiva di 30 milioni di dollari: sia Timchenko sia Arkady Rotenberg figurano nella blacklist delle sanzioni comminate alla Russia nel 2014 dagli Usa, durante l’amministrazione di Barack Obama, per l’aggressione dell’Ucraina). Questi oligarchi detengono quote rilevanti nella proprietà dello Jokerit, la squadra di hockey di Harkimo. Il quale, particolare curioso, è stato il concessionario della versione finlandese del reality show The Apprentice, lo show di Donald Trump. Harkimo, infine, è anche deputato e fondatore di Liike Nyt. Il partito pronto a entrare nel gruppo parlamentare col Movimento.

Al gruppo dei contatti europei del Movimento potrebbero unirsi i lituani di Tvarka ir teisingumas, e i cechi di Strana svobodných občanů. Mentre i tedeschi di Alternative für Deutschland (AfD), che facevano gruppo comune con Movimento cinque stelle e Ukip nella legislatura 2014-2019, sono diventati sempre più critici su quella che a loro pare l’inaffidabilità dei Cinque stelle.

Ma il panorama del populismo sovranista, e del nazionalismo identitario, è ricco e in ascesa, e ovviamente anche la Lega non resta a guardare. A Varsavia, subito dopo aver incontrato e stretto un patto con il leader polacco Kaczyński, Matteo Salvini ha affermato che i sovranisti dovranno essere tutti uniti, Lega e Movimento insieme sul modello del governo italiano: «Ho proposto al leader del PiS Jarosław Kaczyński ed ho intenzione di proporlo ad altri un patto per l’Europa con una serie di punti in comune sul modello di quello tra Lega e Movimento per il governo italiano, in cui italiani, polacchi, spagnoli, danesi e gli altri decidono se essere o no d’accordo. Ci lavoreremo prima delle elezioni». E per rendere ancora più attraente la proposta agli occhi dei Cinque stelle, Salvini sussurra: «Se ci fosse un italiano, a guidare un’altra idea di Europa, sarebbe un segnale importante». Il partito-marketing è stato da sempre immaginato dai Casaleggio per un’esecuzione in posti di potere, non per restare in gruppi minoritari o all’opposizione.

Per ciò che invece concerne il secondo caso, come già accennato, il sovranismo italiano si tocca con ambienti londinesi. Il 19 gennaio 2017 Antonio Guglielmi, responsabile dell’area mercati azionari (head of equity markets) di Mediobanca a Londra, pubblica un paper che molto fa discutere in Italia, Re-denomination risk down as time goes by.

Nel testo non c’è nessuna apologia del Piano B, va detto chiaramente; ma gli effetti politici vanno in quella direzione. Intanto perché a destra «Il Giornale» (in quel momento schierato apertamente contro i governi del Pd) titola sugli 8 miliardi che, secondo il paper, l’uscita dall’euro farebbe risparmiare immediatamente (i costi però in quello stesso studio ammontavano a 280 miliardi). Poi perché Francesco Giavazzi e Alberto Alesina colgono bene e sottolineano che quello è il mood e l’effetto oggettivo di quella ricerca: dare all’idea di uscita dall’euro una plausibilità istituzionale, col bollino di Mediobanca. Tra l’altro Guglielmi nel paper cita tredici pubblicazioni proprio di Minenna, l’ex assessore della giunta di Virginia Raggi a Roma (il nome che sarebbe stato il preferito da Di Maio e Carla Ruocco per guidare la Consob nella stagione dell’esecuzione), e due testi di Bagnai (sia pure solo per i credit di alcuni grafici). E appena due mesi dopo, in un’intervista al magazine «Formiche», Guglielmi renderà chiaro che questa esultanza del mondo sovranista all’uscita del suo paper non era frutto solo di indebita appropriazione politica: «I numeri e le analisi rilevano che l’Italia è stata la principale vittima dell’ingresso nell’euro e quello che mi preme, da italiano, è che non lo sia anche quando questo euro così com’è non sarà più sostenibile. Il tema non è più se ci convenga o no uscire dall’Eurozona, ma essere pronti a reagire a decisioni che altri potranno prendere per noi». Italia versus Germania, insomma; ma qui i tempi supplementari non è detto che porterebbero altrettanta fortuna.

Guglielmi era molto stimato da Gianroberto Casaleggio. Atteggiamento poi passato dal padre al figlio Davide, e non a caso si parlò di lui come direttore generale del ministero dell’Economia del governo Conte. In seguito il Movimento al potere ha inaugurato una lunga stagione polemica contro «i pezzi di merda» del ministero dell’Economia (espressione usata dal portavoce del premier Rocco Casalino, in un audio finito sui siti di tutti i giornali) e in generale tutti i tecnici accusati di remare contro, spesso grand commis dello Stato che hanno la sola colpa di provare a salvaguardare i conti pubblici, nell’età avventurosa del Movimento al governo. Qualcuno, come il presidente della Consob Mario Nava, ci ha rimesso il posto. Altri, come il ragioniere generale dello Stato Daniele Franco, il capo di gabinetto del ministero dell’Economia Roberto Garofoli, o il capo dell’ufficio legislativo finanze del ministero Glauco Zaccardi, sono finiti sotto un fuoco continuo di attacchi del Movimento. Tito Boeri, un eccellente presidente dell’Inps, viene bersagliato per mesi, e la fine del suo mandato viene salutata con sollievo dai Cinque stelle e dalla Lega.

L’assalto alle istituzioni indipendenti arriverà al punto di coinvolgere pesantemente la Banca d’Italia: il Movimento e Salvini proveranno a sostituire brutalmente Luigi Federico Signorini, vicedirettore generale di via Nazionale, reo tra l’altro di aver bocciato il reddito di cittadinanza. Lo scontro è così forte da provocare una seria lite in Consiglio dei ministri, con il ministro Tria e il sottosegretario Giorgetti attestati su una linea più istituzionale. Di Maio invece teorizza: «Quello che vogliamo, come governo del cambiamento, è solo di esprimerci sui nomi dei vertici di Banca d’Italia e Consob. Ci è consentito dalla legge e lo faremo senza paura di toccare qualche potere forte». Il commento più penetrante, e inquietante, è quello di Sandra Bonsanti: «1979, marzo: attacco alla Banca d’Italia. Arresto di Sarcinelli, mandato di cattura per Baffi. Mandanti: Sindona, procura di Roma, Andreotti. La P2 tutta. Luglio ’79, uccidono Ambrosoli. E oggi? Dove nasce il nuovo attacco alla autonomia dell’istituto?».

Guglielmi invece è amato e ascoltato. Viene citato in tutta l’ultima stagione, ripetutamente, sul blog delle stelle gestito dall’Associazione di Davide Casaleggio. Diventa un riferimento economico nel Movimento, sempre così permeabile e bisognoso di trovare competenze. A detta di Marco Zanni, eurodeputato sovranista, ex del gruppo M5S-Ukip, poi andato nel gruppo Lega-Le Pen, anche Guglielmi è uno dei personaggi importanti nel mosaico londinese di Casaleggio. Sicuramente in pochi hanno fatto caso a una circostanza: quando il Movimento si allea con Farage, nel 2014, la cosa viene rivenduta dalla propaganda pro-Movimento come mero fatto tecnico, nato lì per lì, anche per assenza di alternative praticabili. Invece vanno notate due circostanze, fondamentali. La prima è che Philippe Lamberts, capogruppo dei Verdi europei, in un’intervista al «Foglio» nell’ottobre 2018 ha rivelato il ruolo totalizzante di Casaleggio nelle scelte strategiche internazionali, compresa ovviamente quella con l’Ukip: «Gli ultimi contatti ufficiali li ebbi con David Borrelli, quando era ancora il leader europeo del M5s, ormai più di due anni fa. Ricordo che nel 2014 la possibilità di costituire un’alleanza tra noi e i grillini nel Parlamento di Strasburgo fu valutata con serietà. Ma poi tutto s’interruppe perché, ci fu detto, era Casaleggio a non volere un’intesa del genere. Per noi, una simile dinamica è inaccettabile: chi è davvero Casaleggio?».

La seconda è che siamo in grado di affermare che Nigel Farage era in contatto col blog della Casaleggio da molto tempo prima dell’estate 2014, e dunque il rapporto del Movimento con i conservatori inglesi in lotta per la Brexit e la riconquista della loro sovranità non inizia affatto dopo il voto europeo del 2014, ma molto tempo prima. Sul blog di Grillo, Farage viene intervistato già nell’estate 2013. Ossia quando pochi hanno messo a fuoco che lui e Banks stanno diventando i due vettori principali della Brexit. L’intervista non è firmata, dunque presumibilmente viene editata da Filippo Pittarello e Pietro Dettori.

È un testo molto importante ma dimenticato, su cui torniamo a far luce per inquadrare una tempistica. Tutto lo scambio tra ultraconservatori britannici e M5S è già delineato, fin da allora, all’insegna del sovranismo. Il blog della Casaleggio presenta Farage con queste parole di encomiastica condivisione: «Nigel Farage è un politico britannico, leader dell’Ukip. Deputato europeo, è co-presidente del gruppo Europa della Libertà e della Democrazia dal 1° luglio 2009. Le battaglie di Nigel Farage in Parlamento europeo sono in difesa delle sovranità nazionali. Il 16 novembre 2011 ha denunciato al Parlamento europeo ciò che ritiene essere il ribaltamento dei governi italiano e greco, per instaurare dei “Puppet Government”, cioè governi fantoccio, accusando, tra gli altri, il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy di non essere mai stato eletto per rappresentare 500 milioni di persone, affermando anche che il suo carisma è “Pari a quello di uno straccio bagnato!”. Il blog l’ha intervistato sui temi dell’euro, della leggitimità [sic] delle istituzioni europee, del futuro dell’Europa e della sovranità dei popoli europei». Sorvolando su sintassi e grammatica zoppicanti del testo, è un manifesto programmatico di dove Gianroberto Casaleggio già colloca e schiera il Movimento.

E Farage non tradisce le aspettative. Il blog gli domanda: in Italia il M5S vorrebbe promuovere un referendum sull’euro. È una soluzione rischiosa? E il frontman dei sovranisti britannici risponde: «Quando sento che il Movimento 5 Stelle crede che si debba chiedere alle persone cosa pensino posso solo dire: “Urrà! Urrà! Bene!”. I nostri politici impongono il loro volere su di voi in Italia, e su di me nel Regno Unito e altrove e guarda che disastro hanno fatto. È tempo di parlare e andiamo al cuore delle altre domande di cui abbiamo discusso in questa intervista: la mancanza di legittimità democratica della commissione, del signor Barroso in particolare, o del sig. Van Rompuy, la precipitosa creazione degli Stati Uniti d’Europa che nessuno ha chiesto. Ritengo che l’idea di indire un referendum perché gli italiani possano determinare il loro futuro sia assolutamente eccezionale ed è esattamente la stessa cosa che promuoviamo da anni nel Regno Unito». Insomma, «voglio un’Europa di singoli stati sovrani democratici che commerciano e lavorano insieme». Perché «provare a riformarla, francamente è inutile».

Siamo molti anni prima del momento in cui anche la propaganda pro-M5S, dopo aver conquistato i social e poi la tv, dovrà occuparsi di diffondere e difendere la convergenza tra Movimento, Lega, sovranismo internazionale e tutti i poteri che sono dietro questo contagio. Perché invece, naturalmente, altri poteri italiani non vogliono questa rincorsa sovranista-populista, e questo ritorno alla piazza, del Movimento. Vogliono anzi staccare il Movimento dalla Lega, e romanizzarlo usando il Pd.

All’inizio del 2019 i canali risultano formalmente riaperti. Pezzi significativi del Pd sono più che disponibili. E qualcuno – nel Movimento – cerca di riaprire il «secondo forno», nella consapevolezza che tornare alle urne in caso di crisi del governo con la Lega significherebbe, per i Cinque stelle, l’addio a Palazzo Chigi, con la prospettiva più che probabile di non tornarci più.