Epilogo

10 ottobre 2017

Avevo già scritto la parola fine a questo diario, e stavo quasi pensando di costituirmi, o almeno di raccontare a qualcuno tutta questa storia, quando mio padre mi ha chiamato per «informarmi sugli ultimi sviluppi». Ha detto proprio così, le sue parole un capolavoro di controllo e distacco. Ho capito subito a cosa si riferiva: in sottofondo sentivo un lamento, dal ritmo regolare ho riconosciuto mia madre.

La polizia americana aveva individuato il Dna sulla lama. Era quello di Jill, certo, recuperato grazie ai nostri campioni. Ma c’era anche un altro riscontro, chiaro e luminoso come un segnale stradale. Era un uomo che viveva ancora nella nostra vecchia città, N., e che era stato professore nel mio liceo, anche se io non l’avevo mai incrociato. Insegnava spagnolo (spagnolo, capito, chica?). L’avevano arrestato e schedato perché aveva avuto una storia con una sua studentessa, ma questo era successo solo dopo la nostra partenza. All’epoca dell’omicidio di mia sorella, non era stato nemmeno inserito nella lista dei sospettati: nessuno aveva idea di cosa nascondesse dentro di sé. Sapevo che doveva essere stato giovane e attraente, ma non sono riuscita a recuperare una sua immagine di allora. Mi sono convinta che dovesse avere i capelli ricci e lunghi e un cerchietto d’argento al lobo sinistro, chissà perché. Ora, nella foto segnaletica, era praticamente calvo e gonfio, e anche se non si vedeva nell’inquadratura, aveva sicuramente una pancetta che gli strabordava dalla cintura e che lo costringeva a trattenere perennemente il respiro in pubblico. Ora, lo accusavano di avere ucciso anche le altre due ragazzine ritrovate in quella palude.

Era lui, era sempre stato lui, fin dall’inizio. Non c’era mai stato un altro colpevole.

Ho fatto qualche indagine. N. era nato nella nostra contea, però era cresciuto prima in Arizona e poi in New Mexico e in almeno altri tre Stati: era figlio di un militare, la famiglia era costretta a trasferirsi spesso. Mi sono fatta l’idea che il padre di N. fosse un uomo duro, peggio anche del mio, di padre: aveva fatto la guerra di Corea, da dove se n’era tornato con una medaglia ma senza più un sorriso. Picchiava il figlio e anche la moglie, ne sono quasi certa. Era in New Mexico che l’assassino di mia sorella aveva imparato lo spagnolo. Chissà se l’idea di insegnare gli era venuta per potersi avvicinare più facilmente alle studentesse. Chi era stata la sua prima vittima? Quando aveva ucciso la prima volta? Era successo solo all’università o già al liceo? La sete di sangue gli era nata da adulto oppure già da bambino strappava le ali alle farfalle, tagliuzzava cuccioli di cane? Mi sono chiesta se non si fosse trasferito nella nostra città dopo il suo primo omicidio: avevo letto che i serial killer potevano restare silenti a lungo, e lui era sempre stato prudente, non aveva destato sospetti per anni. Di sicuro non aveva cominciato con Jill, almeno quel primato le è mancato. Dalle sue prede non voleva tutto subito. Si muoveva lentamente, un gentiluomo fino a che non si mostrava per quello che era veramente: un lupo molto paziente. Insegnava loro a tacere, a non parlare a nessuno di quel che succedeva, dei “fidanzamenti” che prometteva. Chissà come riusciva a plagiarle così. Mia sorella aveva tenuto la bocca chiusa così a lungo che mi sembrava incredibile, a ripensarci: lei era di quelle che non riuscivano a non vantarsi delle proprie conquiste, né a tenere un segreto. E anche l’altra, la ragazzina per la quale l’avevano arrestato anni dopo, la sua rovina, non aveva raccontato niente a nessuno, nemmeno alle sue migliori amiche. È stato solo quando hanno provato a scappare via insieme che le cose sono degenerate. Una valigia, per quanto piccola, è difficile da nascondere in una casa con cinque figli: qualcuno l’aveva trovata sotto il letto, dentro lei ci aveva messo il suo peluche preferito. Erano bastate un paio di domande dei suoi genitori per farla crollare: aveva raccontato del viaggio che lei e N. avrebbero fatto insieme. Non sapeva che era un viaggio verso la morte.

Papà si è interrotto e ha tossicchiato un paio di volte. «Sei ancora lì?» Voleva che gli dicessi che cosa ne pensavo. Voleva una risposta.

Ma nessuna di quelle che avrei potuto dargli era giusta. Continuavo a fissare il muro: il bianco aveva qualcosa di consolante. Chissà se quella lama si era già conficcata nella carne di un altro essere umano, prima di entrare in quella tenera di Jill, chissà se aveva già ucciso le altre due ragazze o era la sua prima volta. Sembrava una cosa importante da sapere, avrei voluto poterlo chiedere a qualcuno. Dopo l’omicidio, ci avevano dato un numero di telefono, da chiamare se avessimo avuto bisogno «di qualsiasi cosa». Mamma se l’era annotato su un’agenda, le cifre ripassate più e più volte con un pennarello rosso fino a bucare la pagina in alcuni punti. “Devo ritrovarlo” ho pensato, insensatamente, “e sperare che sia ancora attivo”. E poi mi sono chiesta perché il poliziotto dai pettorali perfetti non avesse chiamato me. Era la procedura? Bisognava avvisare per forza per primi i genitori della vittima? Mi sembrava un tradimento, l’ennesimo.

Sono rimasta in silenzio, fino a che la voce di mio padre dall’altra parte non è suonata infastidita. «Sei ancora lì?» ha ripetuto, impaziente. Ha cominciato a spiegarmi tutto da capo, di nuovo, le parole che ogni tanto si facevano distanti all’improvviso perché, lo sapevo, stava allontanando il telefono per sfregarsi il mento con la punta delle dita, come fa sempre quando è stanco.

Ho riattaccato mentre ancora stava parlando. Non ha più richiamato.

Quella notte, per la prima volta da settimane, ho dormito per dieci ore consecutive senza sognare. O, se l’ho fatto, l’ho dimenticato. Mi sono svegliata inspirando a fondo. È stato come riemergere dall’acqua con i polmoni in fiamme dopo un tuffo particolarmente sgraziato.

Da allora sono passati sei mesi.

Le catenine d’argento sottile con l’iniziale andavano molto di moda quando Jill è morta. Le facevano a mano in un negozio di chincaglierie della nostra città, subito dietro la scuola: le studentesse ci andavano quasi ogni pomeriggio, tutte tranne me. Le collane costavano appena dieci dollari, e per questo le comperavano soprattutto i fidanzatini, un pegno d’amore decisamente poco impegnativo.

A quanto pare, le comperavano anche gli adulti tirchi.

All’epoca, il dottor Taylor frequentava una donna. Non era niente di serio, per quanto mi è dato sapere: una madre single che era andata nel suo studio per riprendersi dalla frattura di una caviglia e che lui vedeva un paio di volte a settimana. Casualmente, lei aveva un nome che iniziava con la stessa lettera di quello di mia sorella. La misura di quanto misero fosse l’amore del dottore per questa donna sta proprio in quella J da quattro soldi, che lui aveva acquistato e poi distrattamente infilato nel cruscotto della macchina, lì dove io l’avevo poi ritrovata.

Una J uguale a quella che il misterioso fidanzato di mia sorella le aveva regalato. Ora lo so: Jill non è mai stata innamorata del mio dottore. Per un po’, con la sua mente contorta, aveva sperato di farmelo credere. Ma in realtà era solo uno dei suoi giochi crudeli di gatta con il topo, non aveva mai davvero cercato di portarmelo via. Nessuna vendetta per punirmi, come tanto avevo temuto. Semplicemente, quello che avevo io, l’amore per un uomo così tanto più grande, per un adulto, doveva averlo anche lei. Lei, la primogenita, la maggiore, quella che doveva sempre fare tutto per prima. Che smacco, nella sua testa, essere stata battuta da me in questo. E con quanta foga, immagino, aveva cercato di rimediare. Senza rendersi conto, nel suo candore un po’ stupido, di quale fuoco divampante stesse alimentando.

Io ti vedo, sorella mia, mentre pensi a come fare per raggiungermi e poi superarmi, mentre ti sforzi di ideare un piano a tuo dire perfetto. Ti vedo entrare in un’aula di scuola vuota, poco dopo la fine delle lezioni: ti avvicini alla cattedra, parli al professore con quella tua vocetta acuta, ti allunghi a stringergli appena la mano, e intanto scuoti la coda di cavallo. Ridi, e il sole ti disegna un’aureola intorno alla testa, rende la tua gonna trasparente in controluce. Provi a ricordare le mosse dei film, quei gesti di seduzione che non sai neppure bene cosa significhino, ma che sei sicura andranno a segno. Non hai idea di che effetto puoi avere sugli uomini, né del fatto che esistono davvero i cattivi, e che soprattutto possono esserlo con te. Sei tutta concentrata sul tuo scopo, sul farmi mangiare la polvere ancora una volta. Io credo che nemmeno ti piacesse, in fondo, quel professore. Lo volevi usare, solo per un po’, senza preoccuparti troppo delle conseguenze. Conseguenze: una parola che non esisteva nel tuo vocabolario, e infatti ti sei accorta troppo tardi che lui non era disposto a lasciarsi usare. Non senza niente in cambio, almeno. Perché anche lui aveva un piano, e di quello eri tu la protagonista.

Sei riuscita a capire davvero che cosa ti stava succedendo? Non credo. Ma a un certo punto avrai avuto paura, quello è certo. Non so perché quell’uomo ti ha uccisa. La polizia ci ha detto che le altre due ragazze sono morte prima di te, quindi immagino l’avrebbe fatto comunque, che fosse un impulso irresistibile al quale avrebbe ceduto prima o poi. Ma mi chiedo se non sia stata tu, in qualche modo, a spingerlo a farlo. Sapevi essere molto, molto snervante, lo so bene. Chissà se ti sei messa a urlare quando lui ha preteso di più, chissà se hai cercato di scappare. Gli hai mostrato il mento, quell’atto di sfida che provavi sempre a sfoderare con papà? Più probabilmente, l’hai minacciato che avresti raccontato tutto a qualcuno.

Vorrei non pensare ai tuoi ultimi istanti, ma mi è difficile non farlo. Mi chiedo quanto tempo ci hai messo a morire, in quanti minuti ti si sono riempiti i polmoni di sangue e hai smesso di respirare. Prima sei riuscita a chiamare la mamma, o magari me? Cerco di non pensare a come ho creduto che quella fosse la punizione che ti meritavi. Per ogni volta che ho sperato morissi, sono stata accontentata. Per ogni volta che ti ho odiata, una coltellata.

Ma il vero motivo per cui cerco di non pensare alla tua morte non è la compassione. Sì, provo pena per te ora, ma non è quello che mi tormenta. È che non posso vivere sapendo di avere ucciso il dottor Taylor per niente. Che vendetta assurda. Come posso andare avanti con un peso simile, sapendo di aver fatto del male all’uomo che amavo, anzi, all’unico che in fondo abbia mai amato, senza un vero motivo. Era tutto nella mia testa: mi sono convinta di cose che non sono mai esistite nella realtà, e queste mi hanno portato alla rovina, hanno distrutto il nostro futuro, ogni possibilità di essere felici – non insieme, ma almeno felici. È un inferno che non credo di riuscire a sopportare. Pensavo che la mia condanna fosse ricordarmi di averlo ucciso, e invece averlo fatto inutilmente è un male ancora più grande.

È rimorso, quello che provo? In fondo, mi chiedo se non sono poi così diversa da N., il serial killer. Però poi mi dico che non si può parlare di omicidio nel caso di una bambina di dieci anni che ha passato quello che ho passato io. Volevo davvero ucciderlo? No, non credo. Volevo punirlo, quello sì. Volevo che soffrisse quanto soffrivo io. Come uno schiaffo, o una sculacciata, ma molto più letale.

Chiamami pure mostro, sorella mia, ma non ho dubbi: se qualcuno mi facesse tornare indietro nel tempo, e mi desse la possibilità di scegliere chi salvare, tu moriresti ancora altre cento volte. Non esiterei a scambiare la tua vita con quella del dottor Taylor.

Ed è per questo che, alla fine, ho deciso di partire. Ho accettato il consiglio di M., l’amico del mio dottore: torno negli Stati Uniti, a casa o quasi, visto che sarò in Texas e non in Louisiana. Voglio partecipare a quel progetto sperimentale, voglio farmi cancellare dal cervello tutto quanto ho ricordato finora, e forse anche qualcosa in più. Suona come un film, ma spero sia tutto vero. Fare tabula rasa.

Sparito il tagliacarte d’argento, che ammicca nella mia mano sotto la luce di un tramonto estivo.

Sparita la maglietta insanguinata, che puzza di metallo e mi si raffredda addosso.

Sparita la brace rubina della sigaretta, finita nel cestino o forse sotto la scrivania, chissà.

Via tutto, via tutto.

Via anche il mio amore? Non lo so, quello non ho ancora deciso se farlo sparire.

La verità è che non è il dolore che mi sta facendo impazzire, e non è nemmeno la colpa: è non poterli mai dimenticare, nemmeno per un solo, pietoso istante. Ci sono giorni in cui mi sembra di stare meglio, riesco persino ad apprezzare il sole sulla pelle. E poi però giro l’angolo, ed eccolo lì. Il passato mi aspetta con la pazienza di un sicario. Dovrei accoglierlo a braccia aperte, perché in fondo questa è la mia punizione, ma non ci riesco.

Penso al dottor Taylor e ai suoi occhi grigi, a come appoggiava la sua mano grande sulla mia spalla minuscola. Il sopracciglio destro appena più lungo del sinistro, le labbra sempre screpolate, certe occhiaie stanche che comparivano quando aveva dormito poco e il rumore di quando si grattava la barba. Il suono esatto della sua voce. Mi entra in testa e non mi fa dormire, non mi fa respirare. Voglio solo dimenticarmi di averlo perso per sempre.

Voglio dimenticarmi di ricordare.