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26 giugno 1989
Ho due anni e i capelli tagliati corti, fini e morbidi, sottopelo di gatto, lanugine da pesca ancora verde. Sono in braccio a mio padre, che mi regge con sbrigativa efficienza, come fossi una cassa di birra da portare ai vicini per la grigliata del sabato. Con una mano mi sostiene, con l’altra mi blocca le gambe fasciate in una tuta blu, che io provo comunque a scalciare. Vorrei dirgli di lasciarmi libera, ma ancora non so parlare. Non bene, almeno. Dico forte e chiaro solo una decina di parole, le altre le conservo per il futuro. So che i miei genitori mi hanno portata dal pediatra per questo, e il responso è stato che va tutto bene. Ho solo la lingua pigra.
Sono in braccio a mio padre, dunque, e mi dimeno. Tra poco lui si stancherà della mia irrequietudine e mi strizzerà una coscia per farmi smettere. Per il momento, però, mi lascia fare, il sole è appena tramontato e Jill corre per il giardino urlando. Ha un paio di ali di tulle rosa, è nella fase in cui vuole indossare solo il suo costume da fata e strepita se appena provano a infilarle altri vestiti. Lancia in aria una palla arcobaleno, e poi la riprende con una piroetta. Da grande, ripete, farà la ginnasta. Intanto dentro casa mamma sta riempiendo la vasca per farci il bagno.
Questo è il mio primo ricordo, perfetto e immutabile nel tempo, cristallizzato. So che è difficile credere che risalga a un passato così lontano, che io possa vederlo come se fosse successo solo ieri. I miei genitori hanno scordato quella sera d’estate, e lo stesso aveva fatto mia sorella, ne sono certa. Se fosse ancora viva e gliene parlassi, probabilmente riderebbe di me.
È per questo che della mia memoria straordinaria non parlo mai a nessuno: la gente mi direbbe pazza, o forse solo bugiarda. Non sanno, non possono sapere che di tutta la mia infanzia ho queste immagini precise, un film che mi scorre in testa senza titoli di coda. Dicono che gli elefanti non dimentichino mai nulla, e a volte è proprio così che mi penso: non riesco a non ricordare, scuoto le orecchie e faccio oscillare la proboscide, e intanto la mia vita torna a galla.
Mi capita spesso di ripensare al braccio rotto, per esempio.
Tre mesi dopo la morte di Jill, fui aggredita nel cortile della scuola dalle mie compagne. Non c’era una vera pianificazione dietro questo attacco, mi ero semplicemente trovata sulla loro strada nel momento sbagliato. Erano in quattro, con le stesse magliette a colori vivaci perfettamente stirate, gli stessi braccialetti di corda intrecciata a rendere tridimensionale e lampante la loro amicizia. Mi presero il cestino della merenda e lo lanciarono sotto un’altalena. Era il mio preferito, giallo con una sirena dalla coda verde disegnata sopra.
«Ora vallo a riprendere, se ce la fai» disse M. Era lei la capa del gruppetto, aveva le lentiggini e, sullo zigomo destro, una cicatrice da varicella che da grande avrebbe cercato inutilmente di coprire. Non ce l’aveva con me in particolare, ero solo il suo diversivo per la giornata. E infatti non aveva nemmeno voglia di stare a guardare come sarebbe finita: se ne andò subito via con le altre. In fondo, il suo dovere l’aveva fatto.
Il cestino se ne stava piegato di lato tra il fango, lì dove innumerevoli piedi avevano impedito all’erba di ricrescere. Al di sopra, saettavano le gambe di due bambine, che conoscevo solo di vista, una magra e sempre triste, l’altra furba e grassoccia. Entrambe avevano assistito alla scena, ma non accennarono a scendere per aiutarmi. Continuavano imperterrite a slanciarsi verso il cielo, e io non provai nemmeno a convincerle a fermarsi. Era un’idea che non avrebbe mai potuto sfiorarmi, perché sapevo, con un sesto senso primordiale, che sarebbe stato comunque del tutto inutile. L’ordine naturale delle cose era quello, e non aveva senso neppure provare a cambiarlo. Non pensai nemmeno di andare a chiamare un adulto, un professore: nel mio mondo, quel genere di cose andavano risolte da soli.
Il cestino, però, lo rivolevo a tutti i costi. Ci ero affezionata, e poi mio padre si sarebbe arrabbiato se fossi tornata a casa senza. Lo dovevo recuperare per forza. L’unica soluzione possibile, mi parve allora con un’inventiva folle e disperata, era infilarmi sotto l’altalena in movimento, incurante di ogni logica, prudenza e senso della profondità e della distanza. Mi sdraiai pancia a terra e cominciai a strisciare sui gomiti un centimetro alla volta, la mano e le dita tese, pronte ad afferrare il mio bersaglio. “Ce la faccio”, cercavo di convincermi, “se mi muovo piano ce la faccio”.
Illusa.
Riuscii solo a sfiorare il cestino. Il primo calcio arrivò con la precisione di un bombardiere, diritto contro la mia nuca. Crollai, il braccio ripiegato sotto il corpo in un angolo innaturale. L’ulna si incrinò in due ma, sorpresa, non provai affatto dolore. Ci fu solo uno scricchiolio deciso, lo stesso rumore che facevano sotto i denti i cracker imburrati che mia madre ci preparava per merenda. La testa invece sì, quella cominciò subito a fare male, mentre le suole delle scarpe venivano a lacerarmi il cuoio capelluto, due, tre, sei volte. Cercai di alzarmi in piedi, ma ero bloccata a terra: non riuscivo a sollevarmi, il braccio non mi reggeva più. Dentro ai polmoni mi era rimasto chiuso un urlo che non trovava la via d’uscita.
Le bambine intanto ridacchiavano, si davano slancio e ritmo sull’altalena a suon di colpi contro il mio cranio. Ho provato a convincermi che per loro fosse solo un gioco, che non si fossero davvero rese conto di cosa stavano facendo, del sangue che iniziava a scendermi tra i capelli, andando a macchiare con lenta ostinazione lo scollo della maglietta (mia madre non provò nemmeno a pulirla, la gettò semplicemente nell’immondizia). Però conosco troppo bene la crudeltà che è nascosta dentro a ogni bambino per non capire che, molto semplicemente, si stavano divertendo troppo per smettere.
A un certo punto di quel supplizio, che in realtà durò solo pochi minuti anche se mi parvero un’eternità, mi arresi. Accettai il fatto che sarei morta così. Avrei fatto la stessa fine di mia sorella, con la differenza che lei, così mi pareva di aver capito, aveva almeno mantenuto una sua dignità nella sofferenza. Io, invece, stavo per essere uccisa da due paia di scarpe da ginnastica, la bocca e le unghie piene di terriccio, sotto i jeans le mutandine stinte che avevo inevitabilmente bagnato.
Mi vennero in mente i miei genitori.
Non mi rattristava tanto il fatto che la mia vita potesse finire a soli dieci anni, e per di più in quel modo assurdo, ma mi sarebbe dispiaciuto far rivivere a loro lo stesso dolore. Gli avrebbero portato via anche la seconda figlia, e questo li avrebbe senz’altro distrutti. Di nuovo il riconoscimento di un corpo vuoto, di nuovo il funerale. C’era la casa silenziosa, dove la polvere continuava ad accumularsi con una sorta di misericordia. Vedevo mia madre rompersi ancora una volta, ma senza che fossi al suo fianco per aiutarla a ricomporsi. Vedevo mio padre nascondere la disperazione ancora più a fondo dentro di sé, e passare le notti sveglio a fumare di nascosto, mentre la barba che non si radeva più gli diventava sempre più lunga, e il cuore sempre più rinsecchito. Intuivo che il loro matrimonio non avrebbe retto un altro lutto, che era solo grazie a me se stavano lentamente superando la perdita di Jill. Mi convinsi che sarei stata una vera egoista, ad andarmene così. Avevo un compito da svolgere, ero l’ancora, ero il salvagente. Per una volta, avevo in mano il potere di cambiare le cose e mi pareva terribilmente ingiusto non poterlo sfruttare per colpa di un cestino da colazione finito sotto un’altalena.
Negli anni a seguire, ho continuato a considerare la mia vita come un bene prezioso, e fragile: mi sono avvolta nella carta velina. Mi affannavo a restare in buona salute per non deludere i miei genitori, attraversando sempre e solo con il semaforo verde, evitando le strade deserte, i cibi scaduti, gli alberi durante i temporali, i passaggi in macchina da sconosciuti. Giravo con le chiavi di casa strette tra le dita come un tirapugni, mi disinfettavo subito ogni più piccola ferita e mai, mai ho acceso l’asciugacapelli se le piastrelle del bagno non erano perfettamente asciutte. È bello avere uno scopo, e io sono sempre stata brava a seguire il mio fino in fondo, con scrupolo. Oggi che Jill mi è esplosa in faccia con la sua carica a pallettoni di rimorsi, invece, le cose sono cambiate e sono meno attenta. Mi sorprendo a non cercare più le strisce pedonali, a camminare scalza su pavimenti scivolosi. Forse è un modo inconscio per punirmi, non lo so.
La volta dell’altalena, è facile intuirlo, sopravvissi. Un insegnante di matematica del terzo anno mi vide, pateticamente distesa a lasciarmi prendere a calci. Fece fermare le mie aguzzine e chiamò un’ambulanza. All’ospedale mi ricucirono la testa, sulla quale ora nascondo una cicatrice a zig-zag che fa crescere i capelli storti e che nessuna mano di amante sa individuare, al massimo quella di un’occasionale parrucchiera.
Mi ingessarono il braccio, anche. L’ortopedico era un ragazzo giovane e carino, immergeva le bende bianche e collose nell’acqua con la delicatezza di un sacerdote al suo primo battesimo. Afferrava l’imbottitura e ci soffiava sopra, per farla ondeggiare come una piuma e provare a strapparmi un sorriso.
Lo accontentai e gliene regalai due.