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Mi esercito da mesi nel sorriso di Duchenne. È la mia storia preferita tra quelle che mi ha raccontato il mio dottore.
«Com’è che non ti ridono mai gli occhi?» mi ha chiesto una volta. Scherzava, ma ci è andato più vicino di quanto credesse. Mi ha spiegato che nell’Ottocento questo neurologo francese tutto elettrodi e favoriti è riuscito a individuare le caratteristiche somatiche che distinguono un sorriso sincero da uno falso. Ora ne sono ossessionata.
Non è per niente facile, ma ho pensato che questo può essere il modo migliore per convincere la gente a fidarsi di me. Ogni mattina, prima di andare al lavoro, cammino scalza fino al grande specchio al mercurio che ho comperato solo per potermi tenere sempre sott’occhio. Piedi ben piantati a terra, gambe larghe, braccia rilassate, viso perfettamente frontale: in fondo, è come fare ginnastica. Per esercitarmi al meglio, ho comperato un nuovo manuale di anatomia, che ora è pieno di orecchie e sottolineature, testo sacro della mia nuova religione. Prima stiro il muscolo zigomatico maggiore, sollevando gli angoli della bocca, e poi strizzo gli orbicolari degli occhi, che alzano le guance. Ancora non riesco a fare le due cose contemporaneamente, come invece dovrebbe essere, ma succederà presto, ne sono certa. D’altronde, mi sto impegnando molto. Ogni volta che cammino per strada e passo davanti a una vetrina, ci riprovo. Cerco di cogliermi di sorpresa. È questo l’effetto che fa qualcosa di bello, qualcosa che rende felici all’improvviso, giusto?
Tutte quelle rughe che faccio comparire attorno alle palpebre sono una benedizione. Significano che sono normale, o che comunque posso ancora sembrarlo. Significano che sono in grado di replicare a comando un sorriso genuino, come non riuscirei mai a fare spontaneamente.
Sono anni ormai che non sorrido di gioia, tutt’al più rido, e di solito nei momenti meno opportuni. È come divertirsi a un funerale. Uno dei miei dottori non riusciva proprio a capire perché lo facessi ogni volta che eravamo a letto insieme. Si offendeva mortalmente, immagino lo rendesse insicuro. Per compensare, mi strizzava e spingeva, sperando di farmi almeno un po’ male. «È solo perché sono felice» mi affrettavo a mentirgli. Non potevo certo spiegargli che è un meccanismo di difesa che ho sviluppato negli anni vissuti con Jill. Gioire del male ricevuto, che grande consolazione.
Mia madre sapeva ridere solo nascondendosi dietro a una mano. I suoi sorrisi non erano bianchi ma rosa, di carne, di nocche dispiegate a parare il mondo. Non aveva i denti storti, né sporgenti; non aveva neppure il diastema. Non so perché si vergognasse così tanto. Forse era una forma di pudore che le avevano insegnato le suore, dalle quali aveva studiato dalle elementari fino al liceo: mostrare troppo apertamente la felicità era scandaloso. Era un’idea quasi pagana, da divinità invidiose dei mortali. Era anche molto cattolica: soffri, in fondo sei nato per questo.
Quando Jill e io ridevamo, di solito per uno scherzo crudele di mia sorella, che a lei faceva lanciare alti latrati di trionfo mentre io ridevo con violenza, a singhiozzo, per non farle capire quanto mi stesse facendo male, mamma interveniva sempre. Ci diceva di fare piano, muoveva i palmi delle mani in su e in giù, a palleggiare l’aria.
«Ragazze» era tutto ciò che diceva, ma era sufficiente a farci capire che avevamo fatto qualcosa di sbagliato.
Io mi zittivo subito, tanto non mi divertivo mai, in nessun caso. Jill da principio la ignorava, poi si girava sbuffando, le guance arrossate, gli occhi come due biglie scure. Lanciava indietro i capelli stretti nella coda, come i puledri che avevo visto alla fiera del 4 luglio, che cercavano un modo per spezzare la briglia ogni volta che la assaggiavano. Poi tirava fuori quel suo tono speciale, da grande.
«Ci stiamo solo divertendo, mamma.»
Lo diceva come se avesse dovuto spiegare a qualcuno di estremamente stupido un concetto che gli era totalmente sconosciuto, una legge fisica, uno dei grandi misteri dell’universo. Doveva averla vinta lei, sempre. E di solito era così. Di solito nostra madre cedeva, abbassava lo sguardo e arrossiva. Si ritirava in un’altra stanza e parlava sottovoce tra sé. Mormorava preghiere, o forse scongiuri. Che il mondo ci fosse lieve, nonostante la nostra sfrontatezza.
Non era severa, mia madre. Non l’ho mai sentita alzare la voce, nemmeno una volta. Quello era un compito delegato a mio padre, stava a lui farsi carico di punizioni e regole, che erano numerose e variegate in casa nostra. Non si poteva correre per le scale, era vietato uscire sotto la pioggia, il bagno si faceva solo il sabato, niente televisione fino a tardi la sera o musica alta il resto del giorno. L’unica radio concessa era quella di plastica ormai giallastra che mia madre teneva sul ripiano della cucina, accanto al tostapane. Non l’accendeva quasi mai, però, forse per una forma di precauzione. In compenso, aveva imparato un modo tutto suo di cantare senza parole. La sua voce restava sospesa a lungo nell’aria, su un la o su un do, come un diapason. Era bello ascoltarla. Ma se qualcuno entrava nella stanza, si arrestava all’improvviso.
Aveva una timidezza naturale, infantile, che costituiva gran parte del suo fascino. Credo che a mio padre, l’uomo più severo e antipatico che si possa immaginare, piacesse principalmente per quello. Sotto la massa sempre arruffata di capelli castani, sotto le lentiggini, c’era ancora una bambina. Papà, tutto spigoli e lati taglienti, si faceva morbido solo con lei. Zucchero, la chiamava, lui che non aveva voce per i soprannomi né alcun talento per la tenerezza. Crescendo, ho capito che doveva averla amata moltissimo, a modo suo.
E mamma ricambiava: la prima preghiera della giornata era sempre per mio padre. Pregava tanto, prima di Jill, e ha continuato a farlo anche dopo, ma con rabbia, con la disperazione di chi vuole arrivare a tutti i costi alla fine di qualcosa. Aveva un piccolo rosario bianco, di madreperla, che le avevano regalato il giorno della comunione. Da ragazzina lo teneva sotto il cuscino, poi se l’era portato dietro nella casa in cui, appena sposata, era andata ad abitare con mio padre: lo aveva appeso a un chiodo, sopra il comodino. Mesi dopo la morte di mia sorella, cominciò a tenerlo nelle tasche. Lo rigirava tra le dita in continuazione. Ogni tanto lo infilava in bocca distrattamente, un grano alla volta, mentre leggeva un libro o guardava la televisione. La osservavo con la pelle d’oca, sembrava posseduta. Era quasi blasfema, eppure sapeva conservare ancora la sua innocenza.
Riuscì quasi a impazzire, mia madre, quando mia sorella morì. Ci provò davvero, si impegnò. Per lei sarebbe stata una grande consolazione, ma purtroppo era più sana di mente di quanto le sarebbe piaciuto.
Durante tutti i tre giorni della scomparsa di Jill, era rimasta vigile, sempre attiva. Piccolo folletto dell’ansia, faceva girare la testa a tutti gli altri con la sua efficienza. Oh, guardate come sono brava, sembrava dire, mia figlia è scomparsa nel nulla ma io non perdo la calma, nossignore, io resto forte per lei. Stampava volantini con la foto migliore di mia sorella, quella in cui portava al collo la piccola croce d’oro del battesimo, preparava il caffè per i poliziotti, faceva telefonate.
Ogni tanto saliva in camera nostra: lisciava le pieghe dei copriletto, picchiettava leggera sulla porcellana di Ben-Hur. «Tornerà, Mia, vedrai. Tornerà» mi diceva, più per convincere se stessa che per consolare me. Io la guardavo senza parlare, annuivo un paio di volte per gentilezza. Aspettavo che uscisse dalla stanza per tornare a girare il coniglio rosa verso il muro.
La notizia è arrivata dopo settantadue ore. È stato un uomo a portarcela o era una donna? Quello i miei genitori non me l’hanno mai saputo dire. La memoria ha vie tutte sue e misericordiose di cancellare i particolari del dolore. È arrivata la notizia e mia madre si è arresa. Si è accartocciata. Ha smesso di funzionare, di colpo, così come fanno le penne che improvvisamente non scrivono più. Mi aspettavo che avrebbe urlato, che si sarebbe buttata per terra, come avevo visto fare un paio di volte in televisione. Non ci fu niente di tutto questo.
Ha cominciato piangendo, ma in silenzio. Esondava dall’interno. Le lacrime le scendevano continue dagli occhi, aveva il viso costantemente bagnato e lucido. Non diceva una parola. Restava tutto il giorno davanti alla finestra, la fronte sul vetro, le labbra all’ingiù. Non ho più visto nessuno riuscire a piegare la bocca in quel modo. Io le sedevo accanto, per terra, a guardare quello che guardava lei: il giardino incolto di casa nostra. Aspettavamo insieme che il giorno cambiasse luce. Ogni tanto allungavo una mano e le afferravo una caviglia. Una volta, una sola, un rivoletto leggero e caldo mi ha bagnato le dita, ed è andato a scurire la moquette. Ho alzato lo sguardo e ho visto mia madre asciugarsi lentamente l’interno delle gambe con il bordo della camicia da notte, sempre senza staccare la fronte dal vetro, senza mai smettere di piangere.
Al sesto giorno di quel rituale, il sesto senza che mia madre si fosse lavata o cambiata, e si sentiva, mio padre, dall’alto dei suoi venti centimetri in più, l’ha sollevata per le ascelle e se l’è caricata in spalla. Lei non ha opposto resistenza, nemmeno quando l’ha spogliata e spinta dentro la doccia. È rimasta immobile. Allora papà è entrato con lei, completamente vestito. Io guardavo dalla porta che era rimasta aperta, mi sembrava di sentire nelle orecchie il rumore della centrifuga della lavatrice, e invece era solo il mio cuore impazzito. La scena, se fossi stata appena più grande, mi sarebbe apparsa subito inquietantemente erotica: mia madre, nuda e con gli occhi chiusi, si stringeva nei suoi cinquanta chili scarsi e lasciava che il getto le scorresse addosso; mio padre la teneva per un braccio, la insaponava con una dedizione dolcemente lenta, mentre l’acqua gli bagnava i capelli, i jeans, il cotone della maglietta, che gli si andava incollando al torace così come le sue labbra si incollavano all’orecchio di lei, a mormorarle parole che non potevo sentire né immaginare. Un incantesimo per riportarla fra noi, forse. Qualsiasi cosa le abbia detto, funzionò.
Mia madre non impazzì. Solo, ogni tanto, i suoi ingranaggi non si incastravano più alla perfezione. C’era la tazza preferita di Jill, con i conigli, che solamente lei poteva usare e lavare ogni mattina. C’erano alcuni cibi che non riusciva più a mangiare, certi budini gialli che piacevano molto a mia sorella, e anche a me, ma che sparirono per sempre dal nostro frigorifero. C’erano alcune parole che non si potevano più pronunciare: “coltello”, “palude” e poi il suo nome, ovviamente, “Jill”. Mamma ricominciò a comportarsi normalmente, quasi come prima, per lunghi periodi. A volte si incrinava, ma appena un po’: te ne accorgevi solo guardandola da vicino. Non era sufficiente a farle perdere lucidità, le permetteva ancora di uscire a fare la spesa senza essere arrestata e di andare in chiesa ogni domenica, ma bastava per farmi ammattire.
Non mi preparava più il pranzo per la scuola, non veniva a rimboccarmi le coperte. Dovevo dormire con la luce accesa e la porta aperta, e non mi era permesso rispondere al telefono. Una volta buttò via tutti i vestiti rossi che trovò nel mio armadio. Il rosso non si poteva indossare, mi disse quando tornai da scuola e trovai le ante aperte e dentro il vuoto. Era il mio colore preferito. Piansi tutte le lacrime che avevo, urlai e scalciai, convinta di essere a buon punto per prendere il posto di mia sorella. Niente da fare. Mio padre strinse prima le labbra, poi le sopracciglia folte e poi ancora la mano della mamma, che spariva dentro la sua. Mi ammonì soltanto: «Mia».
Mi arresi quasi subito. I miei capricci non sarebbero mai stati efficaci come quelli di Jill.