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Il letto ha perso in fretta l’odore di Jill. Un giorno c’era e quello dopo no. Avvicinavo con precauzione il naso alle lenzuola, che mia madre non aveva voluto cambiare, ma non c’era niente da fare. Mia sorella era sparita per sempre, evaporata. Lì dove avevamo passato insieme tanti temporali, non c’era più nemmeno la sua eco. Era come se la nostra casa fosse finalmente libera: in fondo, era stato un esorcismo ben riuscito.

Faceva male?

No.

Avrei voluto, forse, ma non era così. C’erano momenti in cui mi fermavo, in ascolto: cercavo di percepire il dolore per la perdita di Jill, come il primo sintomo di una malattia incurabile. Dentro di me, però, c’era solo un gran silenzio, ma questo non potevo raccontarlo a nessuno.

Soprattutto, non potevo parlarne con la psicoterapeuta che mi prese in cura per un paio di mesi dopo la morte di mia sorella. Mio padre la volle donna, pensava che così sarebbe stata più rassicurante, che mi sarei aperta di più. Ci voleva una figura materna, anche perché la mia si stava sgretolando giorno dopo giorno.

La dottoressa L. aveva i capelli rossi e un sorriso dolce che rendeva più facile mentirle. Perché non potevo certo dirle la verità, giusto? Era incinta di cinque mesi, la osservavo come ipnotizzata mentre si accarezzava meccanicamente la pancia durante le nostre sedute. A detta di tutti, erano incontri necessari, perché ero «in stato di choc».

Effettivamente, mi ero rinchiusa in un mutismo ostinato anche per i miei standard. Quando non passavo le giornate al fianco di mia madre, mi nascondevo sotto il letto della mia camera. Mi sdraiavo per terra, l’orecchio destro sul pavimento, gli occhi a scrutare la stanza silenziosa oltre il bordo della coperta. Respiravo la polvere con gratitudine. Stavo riprendendo possesso dei miei pensieri, ma immagino che, dall’esterno, sembrassi solo una bambina spaventata.

Se nei mesi precedenti i miei genitori si erano preoccupati per me, con i miei malanni e la mia schiena ritorta, ora erano davvero terrorizzati (o, almeno, mia madre lo era nei momenti di lucidità). Non sapevano come maneggiarmi, probabilmente non ne avevano nemmeno la forza. Non vollero che partecipassi al funerale, e così rimasi chiusa in casa con una lontana zia fino al momento del rinfresco. Mi vestirono comunque di nero, con un abito sintetico che pizzicava e tirava. Come al solito, non c’era qualcuno che facesse davvero caso a me, e riuscii a nascondermi in camera quasi subito all’arrivo dei parenti in lutto. Sotto al letto, cominciai a sfregare il vestito, sempre più in fretta, fino a farlo crepitare di scintille di elettricità statica. Non venne a cercarmi nessuno.

Il periodo immediatamente successivo alla morte di mia sorella fu tutto sommato abbastanza semplice da attraversare, navigavamo a vista da un giorno all’altro. Più difficile, e lungo, quello delle indagini sul suo omicidio: fu allora che i miei cominciarono a riversare su di me, a ogni nuovo dettaglio orribile del quale venivano a conoscenza, tutta la loro tristezza, la rabbia, la disperazione. Io ero la figlia rimasta, quella che si era salvata. Ero quella che avrebbe dovuto aggiustare le cose. Dovevo guarire, ed essere felice, per dare un senso alle loro vite deragliate.

Nello studio della dottoressa L. ci venni trascinata quasi a forza. Lì dentro tutto era neutro, come se i colori fossero stati lavati via. Nella sala d’attesa c’era un tappeto morbido, della stessa sfumatura del burro: mi piaceva affondarci dentro la punta delle scarpe da ginnastica, restando in bilico sul bordo della sedia. Immaginavo, o meglio desideravo, di averle infangate, di sporcare tutta quella purezza. Nonostante mia sorella fosse appena stata uccisa, però, i miei vestiti erano sempre immacolati.

La dottoressa L. mi chiamava e mi faceva accomodare su un grande divano bianco, e io mi ci sedevo esattamente al centro, lasciandomi inghiottire. Diventavo una macchia in tutto quel candore. Fissavo lei e la sua pancia da sotto la frangia, che ormai era cresciuta fino a ricoprirmi gli occhi. Non vedevo un paio di forbici da settimane, tutte le lame erano state esiliate dalle nostre vite.

Spesso, io e la dottoressa restavamo semplicemente in silenzio. «Non c’è bisogno che parliamo» mi diceva, sorridendomi. Sospetto che pensasse a me come a una specie di prova generale del suo essere madre. In fondo, ero la più giovane dei suoi pazienti.

Io annuivo, e mi stringevo le mani tra le cosce. Insieme, ascoltavamo quei pochi uccelli che stazionavano fuori dalla finestra dello studio o, quando proprio ci impegnavamo a non emettere nemmeno un suono, il ticchettio del suo vecchio orologio da polso, ancora capace di riempire i minuti di vuoto delle nostre sedute. Di solito, però, preferiva sapere che cosa provavo ora che Jill non c’era più.

«Ti manca?» era la domanda che mi faceva più spesso, seguita subito dopo da un «puoi piangere, se vuoi». Ma io non piangevo mai. Credo di avere disimparato a farlo proprio in quel periodo.

«Sì» era l’unica cosa che rispondevo. E, incredibilmente, quella era la risposta giusta a quasi tutte le sue domande.

La dottoressa cercava di farmi scendere nei particolari. Mi mancava soprattutto la notte? Avevo gli incubi? Era per questo che mi nascondevo sotto il letto? Lo sapevo che non dovevo avere paura di mia madre, vero?

Sì, sì, sì e sì. In fondo, era facile.

Mi comportavo bene, non stavo diventando pazza. Anzi, con il tempo facevo progressi, e questa sembrava l’unica cosa davvero importante in quei giorni. Il segreto era usare sempre lo stesso tono di voce, non abbassare mai lo sguardo o farlo solo al momento giusto. Sembrare normale.

Passavano le settimane, e la dottoressa era sempre più soddisfatta, come se i soldi con cui la pagavano i miei genitori avessero finalmente cominciato ad acquistare un senso. Ogni tanto mi dava carta e matite, e mi chiedeva di disegnare qualcosa. Mi sentivo troppo cresciuta e senza talento per quel compito, ma cercavo di accontentarla lo stesso. Prendevo in mano un colore chiaro, di solito il verde o l’azzurro, e tracciavo qualche linea incerta, la sagoma di casa mia, quella arruffata di mia madre, un gatto. «E Jill? Non la vuoi disegnare?» mi chiedeva lei. Solo allora inserivo nel quadro mia sorella: per lei, sceglievo sempre il giallo.

A un certo punto delle nostre sedute, quando già era convinta di essere sulla buona strada per farmi tornare come prima, la dottoressa cominciò a parlarmi dell’uomo che aveva fatto del male a Jill. A mio padre, che su questo punto era perplesso e che avrebbe voluto indicare lui la direzione della terapia, ripeteva con voce dolce: «Mia non deve crescere con la paura del genere maschile, non le pare?». Diceva che dovevo «interiorizzare» il fatto che la vita è fatta anche di cose orribili; che, anzi, forse ne costituiscono persino la maggior parte. Dovevo imparare che queste cose orribili possono succedere anche a noi, che qualcuno può prenderci e spezzarci, masticarci e sputarci come un ossicino, ed essere persino felice di farlo. Nessuno è al riparo dal male, può morderci quando meno ce lo aspettiamo, ma questo non deve impedirci di vivere. Si va avanti, comunque.

Prendeva l’argomento dell’omicidio alla lontana, partendo dalla bellezza di Jill, che la rendeva così ammirata. Ne esistevano poche, di bambine carine come lei, no? Era normale che alla gente piacesse, che piacesse tanto anche agli adulti, e a certi più che ad altri. Per alcuni, Jill era così speciale da esserlo troppo. Io la fissavo senza replicare: non avevo bisogno di una psicoterapeuta per ricordarmi di tutte le volte che ero passata in secondo piano. E che il mondo fosse ingiusto e crudele, lo sperimentavo tutti i giorni.

La dottoressa non scendeva mai nei particolari del delitto, un po’ perché non voleva traumatizzarmi più di quanto non lo fossi già e un po’ perché le era vietato farlo, ma provava lo stesso a spiegarmi che cosa era capitato a mia sorella. «È un po’ come quando vuoi un giocattolo che sai che non puoi avere, ma lo prendi lo stesso. Capisci, Mia?»

Sì, capivo.

Era come Jill che cercava di portarmi via il dottor Taylor.

Com’era prevedibile, la dottoressa L. non durò molto. Mio padre decise di troncare la terapia all’improvviso, perché certe corde, e certi argomenti, era meglio non venissero nemmeno sfiorati. Chissà se alla fine ha avuto un maschio, o una femmina. Non l’ho mai saputo.