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2 giugno 1997

Jill aveva cominciato ad alzarsi ogni mattina alla stessa ora. Senza sveglia, intendo dire. Era uno dei suoi tanti, misteriosi cambiamenti: un giorno era fatta in un modo e quello dopo era diversa. Una sera, quando ero ancora molto piccola, avevo intravisto in televisione un vecchio film di alieni che si sostituivano alle persone: ci era voluto un sacco di tempo prima che qualcuno si accorgesse che c’era qualcosa che non andava. Ecco, io invece me ne ero accorta subito. Se mi avessero detto che dentro alla pelle di mia sorella si era infilata una creatura di un altro pianeta, non avrei esitato a crederci. In quel periodo, Jill era molto, molto strana. Era abitata da un inquilino molesto che non se ne sarebbe più andato via.

Prima, mamma doveva entrare più volte in camera nostra, chiamarla e scuoterla perché lei scendesse anche solo a fare colazione. Ora era la puntualità incarnata. La osservavo da sotto il cuscino mentre, nel suo pigiama rosa o giallo o di uno qualsiasi di quei colori pastello che adorava, scalzava le coperte, apriva l’armadio e si metteva davanti allo specchio. Si studiava con lunghe occhiate. Mostrava la mascella delicata, esponeva il collo candido. Inghiottiva tutto il labbro inferiore e alzava il mento, come in segno di sfida; si passava più volte le dita sulle sopracciglia. Era un suo rituale, per accertarsi di essere ancora lì, di non essersi trasformata nella notte (in che cosa?). Dimostrava di avere un suo peso, un suo posto nel mondo. Forse cercava sottopelle l’adulta che sperava disperatamente di diventare, quella che non ha mai avuto il tempo di raggiungere.

«Jill?» la chiamavo sottovoce. A volte temevo che non avrebbe più nemmeno risposto al suo nome.

Lei girava appena la testa a fulminarmi con lo sguardo. «Sbrigati, o faremo tardi a scuola» mi rimproverava.

Eppure era sempre lei a entrare in bagno per prima e a restarci per quella che mi sembrava un’eternità. Non era mai soddisfatta del suo aspetto, la coda di cavallo non era mai abbastanza alta e le unghie mai limate a sufficienza. Si strofinava i denti così a lungo e con tale foga da farsi sanguinare le gengive. Il suo spazzolino era sempre tutto irsuto, ne cambiava almeno due al mese. Aveva un sorriso così bianco che mi imbarazzava guardarlo. Nei pochi minuti che mi concedeva, prima che nostro padre accendesse il motore della station wagon facendolo ruggire con impazienza, mi dovevo preparare più in fretta che potevo. Ero diventata una campionessa da cronometro, sapevo lavarmi e vestirmi così velocemente che i miei genitori nemmeno si accorgevano che rischiavamo di essere in ritardo. Saltavo in macchina all’ultimo istante, mentre mia sorella già sedeva, tranquilla e composta, sui sedili. Aveva scelto la sera prima i vestiti che avrebbe indossato, e si era assicurata, con un pizzicotto e un sibilo cattivo: «Non provare a metterti i miei stessi colori».

Ero sempre troppo confusa dai suoi comportamenti nuovi per replicare.

Ci provai, a chiedere a Jill se aveva un fidanzato misterioso. Oh sì, non pensate che non l’abbia fatto: mi ci è voluto tutto il coraggio di cui ero capace. Mi ero convinta che le sue continue stranezze fossero dovute a un ragazzo. Per forza: non me l’aveva forse detto lei stessa, o meglio, minacciato? Alla Casa, nel nostro posto segreto, non ci sarebbe più andata con me, ma solo con le amiche o con il fidanzato. Amiche, in realtà, non ne aveva, a parte un paio di sventurate compagne di classe che ogni tanto capitavano sotto le sue grinfie e si lasciavano tiranneggiare nelle ore che precedevano gli allenamenti di softball. Non poteva essere quindi che l’amore, a farla restare a fissare il vuoto per giornate intere, come se qualcuno le avesse staccato la spina. Come si erano ribaltati in fretta i nostri ruoli! Dovevo essere io, quella innamorata. Io, quella che viveva per la sua prima cotta. E invece mia sorella era riuscita a soffiarmi anche l’orgoglio per quel primato. Il ragazzo che aveva non lo conoscevo e già lo odiavo.

Un pomeriggio afoso, con le nuvole che avevano ricoperto il cielo, trasformando il nostro quartiere in una pentola a pressione, mamma si era messa a letto. Era piegata in due da un’emicrania che, mi aveva detto, le faceva vedere gli spettri: avevo il divieto assoluto di fare rumore. Seduta sul vialetto di casa, lo stavo decorando con un sasso di ghirigori pallidi. Mi annoiavo. Jill mi passò davanti ignorandomi, la bicicletta al fianco. Mi alzai e cominciai a correrle dietro, chiamandola a gran voce: «Ehi, Jill! Ji-ill!». Sapevo che così l’avrei fatta arrabbiare: era l’unico modo che avevo per costringerla a parlarmi, a guardarmi in faccia. E infatti si girò urlandomi di smetterla di seguirla, e di tornarmene a casa.

«Dove stai andando?»

«Non sono fatti tuoi.»

«Posso venire con te?»

«No.»

«La strada non è di tua proprietà. Magari ho deciso di andare dalla stessa parte.»

«No.»

«Che ne sai?»

«No.»

«Guarda che lo dico a papà.»

Si era fermata e aveva sospirato, alzando gli occhi al cielo come un’attrice consumata. «Sei proprio una bambina piccola.»

Il mio primo impulso sarebbe stato di negare: non era affatto vero, anche io stavo diventando grande, esattamente come lei. Riuscii a mordermi in tempo la lingua, però. Non volevo litigare: volevo solo stare con lei, mi sentivo troppo sola. Mi attraversò un pensiero improvviso. «Stai andando alla Casa?» Non mi rispose. Esitai: capire l’umore di mia sorella in quei giorni era una divinazione impossibile. «Ci vai con il tuo fidanzato?»

Bastò la domanda a trasformarla in una furia. Sembrò appuntire gli occhi: se avesse potuto, credo che mi avrebbe trafitta. Aveva la bocca storta di quando la mamma ci costringeva a bere qualche medicina. «Mia, basta! Smettila di spiarmi!» Batté un piede a terra, stizzita, e si avvicinò per darmi uno spintone. Non era tanto forte, persi appena l’equilibrio ma senza finire a terra. Mi piace pensare che non volesse davvero farmi male. Il suo era più un avvertimento: avevo valicato un confine non segnato sulle nostre mappe.

Alzai le mani per calmarla. «Ehi, non ti arrabbiare. Chiedevo solo. Davvero.»

Incredibilmente, Jill si addolcì. «Se vuoi, puoi accompagnarmi fino all’incrocio. Ma poi devi tornare indietro. Dico sul serio.» Le spuntò uno sguardo furbo negli occhi. «Il mio fidanzato non vuole farsi vedere da nessuno. Non puoi nemmeno sapere come si chiama.» Rimasi a bocca aperta. Allora c’era davvero un ragazzo misterioso, venuto a rapire la sorella che conoscevo per sostituirla con un’estranea.

Jill tirò fuori dalla tasca dei jeans un lucidalabbra, e se lo passò tre volte, rapida, con uno di quei versi a schiocco per spalmarlo meglio che faceva sempre e che io odiavo. Non aveva più tanta fretta di andarsene, ora che poteva godersi il mio stupore.

«È uno della scuola?»

«Non te lo dico.»

«Ma lo conosco?» insistetti.

«Scordatelo, chica. Non ti dico niente. Nada.» A scuola stava imparando lo spagnolo e cercava di infilarlo in ogni conversazione, era esasperante. Papà l’aveva minacciata di chiederle un dollaro per ogni parola spagnola che avesse usato a tavola. Scosse la coda a destra e a sinistra, poi mi passò un braccio intorno alle spalle in un inaspettato gesto sororale. «Non ti preoccupare. Anche tu potrai avere un fidanzato tutto tuo, quando sarai grande.»

Non avevo bisogno di essere consolata, e me la scossi di dosso. Mi accorsi in quel momento che il collo le brillava. Allungai una mano e mi ritrovai ad afferrare una catenina sottile. Era d’argento, e finiva con una piccola J. «Che cos’è?»

Mia sorella si affrettò a nasconderla di nuovo sotto la maglietta. «Niente.»

«Te l’ha regalata lui?»

Avvicinò il suo viso al mio, così tanto che potei sentire il profumo di fragola del lucidalabbra (usava sempre lo stesso) e in fondo, come un’eco, il dentifricio con il quale si era lavata i denti prima di uscire. Mi ritrovai a fissarla in quegli occhi assurdi, senza fondo, che aveva.

«Se lo dici a qualcuno, ti ammazzo» sibilò. Era così seria che mi fece quasi paura. Salì sulla bicicletta e pedalò via, tornando solo all’ora di cena. Di quello che era successo, non parlammo mai più.

Mancava ormai così poco alla sua Scomparsa, ma nessuno di noi poteva immaginarlo.

Mi fanno tenerezza, se ci ripenso ora, le minacce a vuoto di mia sorella. Contenevano morte e omicidi come se sapesse davvero di cosa stava parlando. Non aveva idea di come là fuori ci fosse invece qualcuno che lo sapeva molto bene, qualcuno che aspettava solo lei per metterlo in pratica.

Mi chiedo che fine abbia fatto quella catenina. Non la indossava quando è stata ritrovata, questo è certo. Chi le ha fatto del male se l’è ripresa. Oppure è lei che l’ha persa, quella notte. Forse ha fatto come in una delle storie che la mamma ci leggeva prima di dormire: l’ha lasciata cadere, sperando che venisse ritrovata, che diventasse un indizio per salvarla. O per vendicarla. Magari ora la collana è sepolta da qualche parte, con l’argento che si ossida e diventa sempre più scuro, la terra che piano piano ne spegne la luce.

Come quella di Jill, che ha smesso di brillare tanto tempo fa.