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Secondo quanto riportano i giornali, V. era sorda da un orecchio. Un’otite curata male quando era bambina, o forse invece una meningite presa appena in tempo, prima che le conseguenze diventassero fatali. I particolari su questa sua malattia sono vaghi e contrastanti, avvolti dall’indefinitezza delle agiografie, ma tutti concordano sul fatto che, una volta guarita, la sua condizione non le avesse mai impedito di condurre una vita normale. Il sottinteso è sempre lo stesso: il destino sa essere così crudele, superi qualcosa di terribile e poi però incontri lo stesso il male sulla tua strada, fermo ad aspettarti dopo l’ultima curva. V. aveva una piccola macchinetta bianca nascosta dentro la conca del padiglione auricolare, un tesoro inabissato che le permetteva di sentirci meglio, se non proprio come prima: con una coltellata, gliel’hanno fatta saltare via di netto. Si sono accaniti soprattutto contro quell’orecchio, chissà perché.

A raccontarlo è stata la madre di V., ripresa in televisione mentre lanciava un appello all’assassino della figlia: costituisciti. La guardavo dal divano, seduta in mutande e maglietta dei Pink Floyd, ipnotizzata. Solo dopo molto tempo mi sono accorta che mi stavo succhiando una ciocca di capelli, come facevo da piccola quando andavo al mare e poi sapevano di sale.

La madre di V. aveva delle borse viola sotto gli occhi, la ricrescita illuminata dal faro della telecamera. Era in piedi in una strada scura, credo fosse quella di casa sua, la stessa del museo, ma era troppo buio per capirlo. Sembrava un animale sbucato all’improvviso su una superstrada, rassegnato a essere schiacciato dalle ruote. Mi sono chiesta se fosse sotto tranquillanti, le pupille erano due puntolini. Aveva una sua timidezza nel dolore, non piangeva ma sembrava volersi scusare: scusate se vi disturbo, scusate se vi racconto di mia figlia che è morta. Stringeva tra le mani una cosa informe e rosa, ho capito che si trattava della stoffa di una gonna quando l’ha sollevata e il cameraman ha zoomato per inquadrarla meglio.

«Avevamo litigato» ha detto, la voce senza neanche un tremito, lo sguardo vuoto. «Voleva andare a una festa con questo vestito, le ho risposto che non era adatto a lei. Era ancora una bambina. Mi ha lanciato una parolaccia e allora le ho dato con uno schiaffo. È stata l’ultima volta che l’ho vista viva.» Ha sorriso, come aspettando che V. venisse a perdonarla per quello schiaffo. Quando ha realizzato che il perdono non sarebbe mai più arrivato, lo sguardo le si è crepato, si è spaccato come la terra che non vede una goccia di pioggia da mesi. E sotto ci ho riconosciuto il baratro, la follia che non se ne sarebbe più andata via.

Ho sputato i capelli che stavo masticando.

In tutta la mia vita, ho visto mio padre piangere solo una volta, il 10 luglio del 1997.

Si era chiuso in cantina da ore, sembrava non avere nessuna intenzione di risalire a preparare la cena. In quel periodo, subito dopo la morte di Jill, mamma era ancora incapace di cucinare, era ancora una falena impazzita: restava tutto il pomeriggio distesa sul letto a fissare il soffitto. Era papà che si occupava dei pasti, spaghetti collosi buttati nell’acqua prima che bollisse, crocchette di pollo scongelate in fretta e poi bruciacchiate nel forno, la pizza con i peperoni che ordinava almeno due sere a settimana. Erano giorni che non facevamo un pasto decente, ma sembrava non importare a nessuno a parte me. Mamma inghiottiva sempre e solo un paio di bocconi minuscoli, ormai portava la fede appesa al collo perché le scivolava in continuazione dall’anulare, e anche a papà avevano cominciato a scendere i calzoni.

Avevo gironzolato per un po’ in cucina, nella speranza di arraffare qualcosa da mangiare. Era rimasta una sola banana, ma era già ricoperta di macchie marroncine e non me la sentii nemmeno di sbucciarla. C’era però un avanzo polveroso di cracker, in fondo a una scatola aperta, e me lo ficcai in bocca per intero. Il latte in frigo invece era scaduto da giorni, aprii il cartone e un odore di morte mi colpì le narici come uno schiaffo. Lo richiusi in fretta. Sapevo che c’era una vaschetta di gelato da qualche parte nel freezer, ma papà mi avrebbe uccisa se avessi mangiato il dessert prima della cena vera e propria. Non c’era niente da fare: mi serviva qualcuno che sapesse trasformare il crudo in cotto.

Mi decisi a scendere gli scalini che portavano in cantina, anche se, di solito, a me e a Jill era vietato andarci da sole: i miei temevano che potessimo farci male perché era poco illuminata e piena di attrezzi di papà dall’aria minacciosa.

Stava in piedi e mi dava la schiena, appoggiato al bancone da lavoro. Era un tavolo di legno grezzo, appartenuto a suo padre prima di lui. Si ostinava a tenerlo anche se era pieno di schegge che ci si infilavano nei polpastrelli, e poi per toglierle mamma doveva usare le pinzette con le quali si faceva le sopracciglia. Solo al momento di partire per l’Italia, papà si era deciso a venderlo con il resto dei mobili.

(«Ma perché non l’hai tenuto? Non ci eri affezionato?»

«Tanto tuo nonno era uno stronzo.»)

Sentii subito che c’era qualcosa di strano. Avrei voluto chiamarlo a voce alta, che si girasse verso di me e potessi guardarlo in volto, rassicurarmi. Aveva le spalle curvate in modo strano, formavano una specie di U che non riconoscevo. Stava fissando qualcosa sul bancone, lo accarezzava piano con il pollice.

Non riuscivo a capire bene perché, ma sapevo di essere un’intrusa, stavo assistendo a qualcosa di proibito. Qualcosa che, in fondo, non volevo davvero vedere. Feci un passo all’indietro, lentamente, pronta a riguadagnare la scala. Con il piede urtai uno scatolone sul pavimento: protestò con un suono soffocato.

«Mia? Sei tu?»

Mio padre si girò di scatto. Non so come facesse a sapere che ero io, e non la moglie, quella che era venuta a cercarlo. Il neon appeso sopra al tavolo lo illuminava, potevo vedergli le rughe profonde che gli incidevano le guance scavate. E poi gli occhi arrossati, lucidi.

Rimasi in silenzio, ferma nel buio ai piedi della scala, come se non muovendomi potessi in qualche modo cancellare tutto.

«Mia?» ripeté. «Vieni qui.»

Mi avvicinai. Papà brandiva un coniglio di peluche, bianco e dalle orecchie chilometriche. Nella sua mano, sembrava un’arma. E in effetti lo era diventato, anche se non era nato con quello scopo. Ritrovato per caso in cantina, aveva finito per trasformare tela e cotone in munizioni e benzina, una miscela esplosiva che aveva dato fuoco al dolore di mio padre. Avrebbe dovuto portare sorrisi, e invece.

«Era per Jill, gliel’avevo comperato per il suo compleanno. L’avevo nascosto qui sotto, sperando che non lo trovasse. Tua sorella era bravissima a stanare le cose, sai?» Scosse il coniglio un paio di volte, e in risposta le orecchie fecero su e giù. «Dio, Mia. Per un istante, ho creduto che fossi lei. Ho sentito quel rumore e ho sperato che fosse tornata, che fosse tutto uno scherzo.»

Non dissi nulla. Era la conversazione più intima che avessi mai avuto con mio padre, e mi stava mettendo a disagio. Ero fin troppo consapevole delle sue unghie lunghe e sporche, di come le sue parole suonassero troppo simili a quelle di mia madre. Abbassai lo sguardo sul coniglio, per non vedere la goccia che gli rotolava con una lentezza esasperante giù dallo zigomo, attraverso la barba che non si era rasato. Non volevo credere che fosse una lacrima: il mio papà non piangeva mai.

Lui seguì la traiettoria del mio sguardo. Si asciugò gli occhi furtivamente e si schiarì la voce. «Lo vuoi tu, ora?»

Scossi la testa. Non volevo toccare nulla che fosse destinato a mia sorella.

«Avanti, prendilo. È tuo adesso.»

«No» sussurrai.

«Cosa?» chiese, spaesato.

«Non lo voglio, papà.»

Un’ombra di dolore gli passò sul viso, troppo rapida perché potessi afferrarla e farla mia. Poi negli occhi gli sorse qualcosa di diverso. «È perché sei gelosa? Eh? Sei gelosa di Jill?» sbottò. Una goccia della sua saliva mi planò appena sotto la palpebra. Non provai nemmeno ad asciugarla. «Avrei fatto lo stesso per il tuo di compleanno, cosa credi? Sapevo già quale volpe prenderti, giù al negozio di giocattoli.» Fece un passo verso di me, il viso chiazzato di rosso. «Ora non lo so se te la meriti ancora.» Caricò il braccio all’indietro, con una precisione da giocatore di baseball, e mi lanciò addosso il coniglio. Mi colpì in pieno petto, con forza, troppo morbido per farmi male, eppure ugualmente doloroso. Cadde a terra e non mi chinai a raccoglierlo.

Mio padre mi voltò le spalle. «Vattene. Voglio restare solo.» Strinse con forza il bordo del tavolo, le nocche sbiancate: immaginai le schegge che gli si conficcavano nelle mani. Salii di corsa le scale, i suoi singhiozzi improvvisi che mi inseguivano. Mi rifugiai in cucina e mangiai l’intera vaschetta di gelato, appoggiata con la schiena al frigo, gocce rosa alla fragola che mi macchiavano il davanti della maglietta.

Non se ne accorsero nemmeno.