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«Dove vai?»
Questa mattina il mio dottore aveva gli occhi ancora assonnati, e una ciocca di capelli che puntava spavaldamente al soffitto come un alzabandiera. Se si fosse visto sarebbe inorridito, ma io non gli ho detto niente. L’ho soppesato solo con lo sguardo, spassionatamente, dalla punta dei piedi lunghi e magri a quel ciuffo insolente. Mamma dice che il mio è uno sguardo che «rimette la gente al proprio posto» ma con lui, chissà perché, non funziona mai.
«I musei sono aperti, di domenica» ho risposto. «Chiudono il lunedì.»
«Sono aperti per il pubblico, mica per gli archivisti che ci lavorano. E comunque, chi vuoi che venga nel vostro museo?»
Mi sono infilata gli occhiali da sole senza replicare.
«Chiudi bene la porta quando esci.»
“E non guardare sotto il letto.”
Mi costa ammetterlo, ma ha ragione: non vediamo molti visitatori, nemmeno durante il weekend. A nessuno sembrano interessare i nostri reperti medievali, le stoviglie, i mobili tarlati e la decina di incunaboli, tutti lasciti della famiglia F. che pensava di assicurarsi in questo modo un posto esclusivo per l’eternità. In realtà, non hanno un grande valore, il museo non è segnalato neppure sulle guide. Si trova dietro via Giulia, in un palazzo color terracotta uguale a tanti altri in questa città, e fuori c’è giusto un’anonima targa di marmo. Si può trovare solo per sbaglio.
A me piace così. Ogni mattina scivolo dentro, passo davanti all’unica statua che possediamo, una Venere senza braccia dai tratti grossolani, e apro la porta del mio ufficio. Sono l’unica a chiuderlo a chiave, ma i pochi colleghi che ho non sembrano farci caso. O se lo fanno, la reputano una stranezza veniale, una in più da aggiungere al mio curriculum di stramba. So come mi chiamano, dietro le spalle. La ragazza americana che ha una memoria di ferro e non parla mai con nessuno. Non che la cosa mi interessi: finché mi lasciano in pace, possono pensare ciò che vogliono. L’importante è che restino lontani dalla verità.
Soprattutto, che non frughino mai nel mio computer prima che io abbia cancellato la cronologia.
Sarebbe difficile spiegare perché passo le mie giornate a fare ricerche sul Dna, sui casi irrisolti di omicidio, sulle adolescenti scomparse. La mia reputazione crollerebbe ancora di più, peggio, susciterei una curiosità che voglio a tutti i costi evitare. Per non parlare di L.: lei, tra tutti coloro che lavorano con me, sarebbe l’unica a sospettare che il mio interesse ha radici nella vita vera, che non è un semplice passatempo morboso. Comincerebbe a interrogarmi, non la finirebbe più. Mi detesta senza che le abbia mai dato motivo di farlo; me ne guardo sempre bene, non voglio attirare l’attenzione, figurarsi litigare con qualcuno. È come con i cani: a volte ti ringhiano, e tu non sai perché. Forse fiutano qualcosa in te che non va, non riescono a capire cosa sia, sanno solo che è sbagliato e innaturale, mostruoso persino.
Ecco, a volte succede. C’è qualcuno più sensibile degli altri, capace di leggermi dentro. Di intuire che sotto la superficie increspata nuota qualcosa. I più timidi non sanno cosa dire, gli altri non hanno scrupoli e fanno domande domande domande.
«Non puoi non aver sofferto» mi dice per esempio il mio dottore, le parole come ami ai quali non abbocco. Mi studia di sottecchi, facendo finta che io non sia interessante. In realtà, sono il suo enigma preferito. Ma io non mi apro mai, gli rispondo solo con il silenzio. Credo che sarei un ottimo prigioniero, farei un figurone in una sala degli interrogatori. Torturatemi pure, tanto non parlo.
È un tratto di famiglia. Quando arrivammo in Italia, nella casa nuova che odorava di umidità ed era sempre illuminata da una luce azzurra da piscina, la prima cosa che fece mia madre fu appendere la foto di Jill. Era stata scattata per l’annuario della scuola, poco prima che morisse. Davanti a uno sfondo grigio, mia sorella arricciava il naso in una smorfia compiaciuta che la rendeva antipatica a prima vista, mostrando appena tra i denti la punta della lingua. Come un serpente. Non rendeva particolare giustizia alla sua bellezza, ma io la trovavo decisamente somigliante.
Mamma non perse tempo con una cornice. Prese due calamite, semplici e pesanti dischi neri, e l’attaccò al frigorifero. E lì rimase per anni, a sbiadire e ingiallire, sommersa di promemoria e cartoline. Mi faceva pensare alle lapidi, con quegli ovali in bianco e nero o virati al seppia. Perché scegliere la foto di una persona sorridente? Forse serve a tamponare il senso di colpa: guardate, almeno da viva è stata felice. Per noi, fu semplicemente la fine del lutto. Jill divenne quella-di-cui-non-parliamo-più, la ragazza sul frigorifero, testimone silenziosa delle nostre nuove vite.
All’inizio, subito dopo il nostro arrivo, poteva capitare che qualcuno si informasse su di lei. Rari colleghi dell’ambasciata venuti a cena, una volta la donna che mi riaccompagnava da scuola e ci aiutava con le pulizie (durò ancora per poco, dopo quella domanda). Mamma, che stava decisamente meglio ma spesso risuonava ancora su una nota sbagliata, si sforzava sempre di sorridere prima di rispondere.
«La mia primogenita» spiegava dolcemente, costretta a farlo. «Se n’è andata.»
(Andata dove?)
Non aggiungeva altro ma, di solito, nessuno ci teneva particolarmente ad approfondire. Immaginavano qualche malattia terribile, o magari un incidente d’auto. Si scusavano e cambiavano argomento. Con il tempo, le persone hanno smesso di chiedere di lei. Un po’ perché l’istantanea di Jill è stata accerchiata e risucchiata da altre immagini e fogli. Nascosta, si potrebbe pensare. E un po’ perché, suppongo, tutti hanno piano piano dato per scontato che quella fossi io. Crescendo, ho cominciato ad assomigliare sempre di più a mia sorella. I miei tratti non sono mai diventati aggraziati quanto i suoi, ma i nostri geni in comune si sono fatti più evidenti. Guardando lei e poi me oggi, ora che ho superato da un pezzo l’età che aveva lei quando è morta, si potrebbe davvero pensare che quella nella foto sia io: una bella bambina che si è guastata con il passare degli anni.
Una che aveva del potenziale e poi si è persa, insomma.
«Si può?»
S. ha infilato la testa ricciuta attraverso la porta socchiusa. Non l’ho sentito bussare, e forse non l’ha fatto, ma non aveva importanza. È uno dei pochi colleghi che mi piacciono. Scrupoloso, discreto. Bada ai fatti propri e non si perde in chiacchiere.
«Entra pure. Non pensavo di trovarti qui oggi.»
«Odio le domeniche. Mi sono fatto mettere in turno apposta.»
«Anche io.»
Ha sorriso e poi si è voltato verso la finestra. L’ho osservato, guardinga.
«Avevi bisogno di qualcosa?»
«No, no. Sono passato solo per un saluto.»
«Capisco» ho detto, sperando che lo facesse anche lui. Non è un dottore, è laureato in Storia medievale. Non mi serve che sprechi il suo tempo e il mio.
Mi ha sorriso di nuovo, imbarazzato. Ha intuito che voglio restare da sola: è un tipo sensibile. Si è allontanato verso la porta, poi si è fermato.
«Hai sentito?» mi ha chiesto. Si è spinto gli occhiali sul naso.
«No, cosa?»
«Hanno trovato una ragazzina. Sembra che l’abbiano uccisa in uno dei palazzi qui di fronte. Stai attenta, quando torni a casa. Hanno chiuso la strada.»