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Ho sempre dormito a pancia in giù, fin da bambina. Faccia contro il cuscino, braccia schiacciate sotto il corpo, il più possibile lunga e aerodinamica, senza appendici, un siluro, un tronco, una bomba sganciata in verticale verso il buio del sonno.

Più morta che viva.

Da qualche tempo invece ho cambiato posizione. È successo per caso. Fa parte della mia evoluzione naturale, si accorda ai ricordi che mi stanno crescendo dentro. La memoria mi sta cambiando, mi sta facendo diventare un’altra persona. Una persona che ho paura di incontrare.

Adesso dormo rannicchiata al centro del letto, sempre appoggiata dal lato del cuore, così che il battito rallenta dolcemente, le pulsazioni arrivano quasi a fermarsi. Le ginocchia strette il più possibile contro il petto, la mano destra che scende ad afferrare una caviglia, mi faccio piccola, sempre più piccola, conchiglia, sassolino, una cosa minuscola. È come se fossi pronta a scomparire, cerco di occupare meno spazio possibile. A volte mi sveglio e scopro che le coperte non sono nemmeno stropicciate.

Questa mattina però lo erano, così ho rifatto il letto tirando le lenzuola fino all’estremo. Ho passato le mani sul cotone tre volte, con forza, lisciando ogni piega, anche la più invisibile, un’ossessione che mi ha trasmesso mio padre, ripeteva sempre a me e a Jill che non si può dormire in una cuccia, solo i cani lo fanno. Con la coda dell’occhio, ho colto tra i fiori della trama una piccola chiazza scura, come un insetto posato sui pistilli. Mi sono chinata a guardarla da vicino: sangue rappreso. Era a un’altezza strana, lontana dalle parti che normalmente sanguinano all’improvviso, ma mi sono comunque abbassata le mutandine: il tessuto era immacolato, l’ho spinto un poco dentro di me, per sicurezza, ma non si è macchiato. Mi sono infilata un dito nel naso, prima in una narice e poi nell’altra. Nessuna crosta, lo sentivo liscio e umido. Ho anche guardato il polpastrello: lucido, ma pulito. A quel punto mi ha preso un’ansia irrefrenabile, ho lanciato via le mutandine e la maglietta di The Dark Side of the Moon, quella che ho rubato al mio dottore qualche giorno fa e che da allora uso come pigiama.

Mi sono messa in piedi davanti allo specchio, nuda.

Ho sollevato prima un seno e poi l’altro, raccogliendoli in mano e girandoli all’insù con uno sforzo doloroso, perché sono decisamente troppo piccoli per poterlo fare. Ho fissato i capezzoli da vicino: li avevo immaginati stillanti gocce di carminio, e invece no, erano del solito color gomma da cancellare. Mi sono voltata per guardarmi la schiena, la mia dolce schiena ritorta, cercando graffi infiammati, come lunghi sbaffi rossi di penna. Niente: solo, sulla scapola, un neo che sembrava più largo e scuro del solito e che mi sono annotata mentalmente di fare visitare. Come ultima cosa, mi sono chinata come ho imparato a fare durante le sedute di fisioterapia, e ho infilato il più possibile la testa tra le gambe. Mi sono fissata nello specchio, la faccia paonazza che sbucava tra le ginocchia, e con le mani ho aperto le natiche.

È così che mi ha trovata il mio dottore.

Si è fermato sulla porta della camera, rigido. Il sole gli si rifletteva sulle lenti e mi impediva di vedergli gli occhi, ma sapevo che erano spalancati.

«Ma cosa stai facendo?» Aveva la voce incredula, gli tremava un po’.

Mi sono raddrizzata di scatto, ho sentito la pressione sanguigna assestarsi e la testa ronzare. «Mi stavo controllando» ho risposto, saltellando su un piede solo.

«Controllando cosa?» ha insistito.

Ho puntato il braccio verso il letto, sembravo la Creazione di Michelangelo.

«C’è del sangue. Lì.» Prima che potesse parlare, l’ho fermato. «No, non è quello che pensi. Per questo volevo capire da dove arrivava.»

Ci siamo fissati un istante in silenzio.

«Lo sai che ti posso aiutare» ha detto alla fine. Ora la voce gli si era arrochita, come la mattina dopo un concerto. Ha mosso un passo in avanti, dentro la stanza, e ha chiuso la porta. Ha girato la chiave nella serratura, nonostante in casa ci fossimo solo io e lui.

Più tardi, sdraiata sul letto, ho allungato le dita dei piedi verso la macchiolina. Il sangue aveva irrigidito il cotone, e l’ho grattato con l’alluce, che è laccato di rosso, come piace al dottore. Mi sono voltata a guardarlo, la sua schiena abbronzata, liscia e glabra, senza neppure un neo o una voglia. Sotto controllo, proprio come è lui. Gli ho spinto l’indice tra le scapole, picchiettando su una vertebra.

«Da dove viene quel sangue secondo te?»

Mi ha risposto con un mugugno.

«Il sangue, ti ho detto. Da dove viene? È tuo?»

Ho spinto di nuovo, questa volta assicurandomi di incidergli con l’unghia sulla pelle una mezzaluna rossastra. Ha fatto un salto e si è girato verso di me. Senza gli occhiali, ha la faccia esposta, puntuta come quella di un topo.

«No.»

«Fammi controllare» ho insistito. Con uno scatto, gli sono montata sopra a cavalcioni, e ho provato a bloccarlo giù, piantandogli un ginocchio sulla spalla. Ha sollevato le sopracciglia e mi ha sorriso, malizioso, ma ha smesso non appena ho cominciato a tastarlo, passandogli i polpastrelli addosso, su e giù, frugando, aggrappandomi. Aveva graffi, ferite? Dovevo saperlo. Intanto, sotto di me, il dottore urlava che gli facevo il solletico. Continuava a dimenarsi, il ciuffo di peli sulla sua pancia che si agganciava al mio. Alla fine, è riuscito a disarcionarmi.

«Cristo, calmati. Non lo so da dove viene quel sangue.»

«Non è strano?»

«No. Sì. Non lo so. Forse hai schiacciato una zanzara nel sonno.»

Mi ha preso una mano e inaspettatamente l’ha baciata, prima di appoggiarsela sul torace. Ha un battito così regolare. «Non è niente» mi ha rassicurata. Poi l’ha fatta scendere più in basso.

È assurdo, lo so, ma non ho potuto fare a meno di chiedermi se non potesse essere sangue di Jill.