29
5 settembre 1997
Aveva urlato così tanto che avevo sentito le sue corde vocali farsi sottili sottili e sfilacciarsi, come la carne di tacchino che ci serviva a tavola la domenica. E infatti il giorno dopo, per darci il buongiorno a colazione, aveva usato una nuova vocetta gracchiante, da ranocchia. Anche se eravamo ancora tutti tristi, avevamo finito lo stesso per ridere e il latte mi era uscito dal naso.
«Ora basta, Mia» mi aveva rimproverata subito papà, portandomi via il bicchiere. Lui odiava che si giocasse con il cibo.
Non avevo mai sentito mia madre urlare così forte prima di allora, nemmeno quando Jill era morta. Si era seduta in cima alle scale, le gambe divaricate a mostrare la macchia scura, là dove non portava le mutande, le mani dalle unghie mangiucchiate aggrappate al bordo del primo scalino. Si era sporta in avanti, aveva inspirato forte, come dopo una corsa a perdifiato, e si era messa a strillare. I tendini del collo le si erano tesi all’improvviso sotto la pelle chiara, e per un attimo avevo temuto che sarebbero scoppiati. Invece a farlo era stato un capillare, uno solo, nella cornea: l’occhio sinistro le era rimasto iniettato di sangue per una settimana. Era un contrasto bellissimo, l’iride nerissima con quel serpentello rosso che puntava nella sua direzione.
La scenata isterica, come l’avrebbe chiamata poi mio padre nei giorni successivi, era dovuta al mio ritorno a scuola con il gesso.
Mamma non voleva.
Mamma era disperata.
Mamma era fuori di sé.
Che cosa mi sarebbe successo se avessi avuto bisogno di usare il braccio e non ci fossi riuscita? Come poteva lui lasciarmi tornare a scuola così presto? Come si permetteva? Forse che lei non era sua moglie, non aveva il diritto di dire la sua e di essere ascoltata? Era lei che mi aveva portato nella pancia nove mesi, anzi di più, perché io ero pigra ed ero finita oltre il termine. Lei mi aveva portato nella pancia per nove mesi e oltre, e quindi sapeva meglio di tutti che cosa era bene per me. Nessuno doveva scordarselo, mai. E non era bene per me tornare a scuola con il gesso, no, proprio no, mi stai ascoltando, eh, mi stai ascoltando?
Ma no, papà non l’ascoltava più, anche se era impossibile non sentirla: aveva afferrato il mio zaino e mi aveva trascinata verso la macchina, lasciando mamma da sola, a strillare. Sulla porta si era girato, prima di chiuderla a chiave. «Resta in casa» aveva ringhiato.
A volte, mi pareva, non la trattava poi così diversamente da come trattava Jill: la ignorava durante quelli che considerava capricci, oppure la osservava con rimprovero, le sopracciglia dai peli lunghi e neri corrugate fino a diventare una linea diritta.
«Infantile» l’avevo sentito borbottare in un paio di occasioni, mentre si toccava la minuscola voglia rosa che aveva sulla punta del naso. Era diviso, me ne rendo conto ora, tra due atteggiamenti opposti: la amava per quella innocenza che mia madre non ha mai perso negli anni, la detestava per come non sapesse contenerla.
«Ho sposato una bambina» diceva ogni tanto quando lei rideva, prima di appoggiarle un bacio sulla massa incolta dei capelli, troppo rapido perché lei potesse girarsi e ricambiarlo. Jill e io sghignazzavamo sempre davanti a queste scene: mamma una bambina come noi? Era decisamente troppo vecchia per esserlo, anche se l’idea ci piaceva: nessun altro che conoscevamo aveva una mamma-bambina, quelle degli altri erano tutte adulte. La stessa frase, però, mio padre sapeva farla diventare un’arma tagliente, un insulto terribile, come se mamma si ostinasse a non crescere solo per fargli un dispetto. La ripeteva con disprezzo, con una rabbia fredda e chirurgica, ogni volta che la moglie non si comportava come lui riteneva fosse suo dovere fare.
C’era la questione delle storie, per esempio. Quando io e Jill eravamo molto piccole, a mia madre piaceva inventarsene di nuove ogni sera prima di andare a dormire. Ci diceva che le nuvole sono dolci, che le senti con la lingua, come lo zucchero. Oppure ci spiegava che l’erba è fatta di pastello a cera, ed è per questo che sporca i vestiti quando uno ci si siede sopra. A mio padre queste storie non piacevano. Per lui le nuvole erano nuvole, e l’erba era erba. E se mi sporcavo i vestiti giocando in giardino, mi metteva in punizione, anche se non era lui a fare il bucato. A un certo punto – Jill aveva iniziato da poco le elementari –, papà aveva cominciato a insistere che eravamo troppo grandi per queste cose, che era ora di smetterla: mamma ci stava crescendo male, ci viziava. Lei continuò per un po’, alzava quelle sue spalle magre e appuntite, stranamente imperterrita e serafica, quando papà veniva a brontolare. Appena lui si girava, strizzava gli occhi e gli faceva le linguacce dietro la schiena. Ricordo una volta in particolare, Jill rise così tanto che le venne il singhiozzo. Eppure, il momento in cui mamma si arrese arrivò lo stesso. Smise di colpo: la sua rivoluzione era durata il tempo di un sogno. La supplicammo, piangemmo, ma lei non cedette: quel momento era passato e non sarebbe mai più tornato. Non so come avesse fatto mio padre a farle cambiare idea.
Non so neanche perché quella volta del ritorno a scuola abbia avuto così tanta paura, mia madre: ogni tanto, da quando era morta mia sorella, diceva di avere delle premonizioni. Temeva che mio padre sarebbe inciampato, e gli chiedeva di mettersi i mocassini invece delle scarpe da ginnastica. Gettava nella spazzatura il formaggio da grigliare, perché sentiva che qualcuno ci si sarebbe strozzato. Quando le prendevano questi attacchi, era incontrollabile: nel suo cervello c’erano voci, e immagini, e sogni dai quali a volte per lei era troppo difficile risvegliarsi.
Nemmeno io ci tenevo a tornare in classe con il gesso: prudeva, soprattutto intorno al pollice, dove aveva un’apertura tutta slabbrata e sporca. Mamma ci infilava dentro l’uncinetto, per cercare di grattarmi dolcemente, troppo dolcemente, e infatti non riusciva mai a calmare il prurito. Allora provavo a scuotere la mano come una maracas, sperando che sbatacchiasse abbastanza da far passare quella sensazione infernale. Mi sembrava che dentro ci camminassero colonie di formiche. Ogni tanto, la notte, restavo sveglia a pensare che magari qualche insetto ci si era infilato davvero mentre dormivo, io non me n’ero accorta. Sarebbe morto lì, perso in un labirinto del quale non avrebbe mai più ritrovato l’uscita. L’avrebbe scoperto l’ortopedico, tutto rinsecchito, le zampette microscopiche stiracchiate, il ventre zigrinato all’insù. E io sarei stata la responsabile involontaria della sua morte. C’erano notti nelle quali questo pensiero non mi faceva dormire. Un insetto chiuso in una bara bianca, un po’ come Jill nella sua. E che cosa le stava succedendo nel frattempo, là sottoterra? Diventava anche lei secca secca? Non volevo pensare a mia sorella morta e decomposta, ma a volte era più forte di me. Mi chiedevo se i suoi capelli continuavano a crescere, di che colore era diventata. Se l’avessi vista, l’avrei riconosciuta o avrebbe avuto una faccia completamente diversa? Avevo gli incubi e chiamavo i miei genitori, chiedevo che mi lasciassero la luce accesa.
Le ultime due settimane con il braccio bloccato le trascorsi regolarmente a scuola. Non potevo scrivere, questo era chiaro, ma come aveva detto mio padre alla preside, potevo pur sempre ascoltare. Venni dispensata dai compiti in classe, e così potevo passare le giornate a fantasticare sul dottor Taylor. Lo immaginavo al volante, aveva una vecchia Camaro rossa anni Settanta che teneva parcheggiata davanti al suo studio. Non la lavava mai, i cerchioni erano sempre schizzati di fango, come se ci andasse in giro tutto il tempo per le paludi e il bayou. Penso che gli piacesse così, con un’aria più vissuta, più vera. Molto maschia, ora me ne rendo conto. All’epoca, la trovavo una cosa incredibilmente avventurosa, speravo che un giorno mi avrebbe chiesto di salire con lui, che mi avrebbe portata a fare un giro. Papà non ci portava mai da nessuna parte, lui odiava guidare. Girava il volante con rabbia, schiacciava i pedali come se infliggesse una punizione: la sua station wagon era uno di quei cavalli da tiro dei film western, frustati fino allo sfinimento. E però, ci faceva pulire le scarpe tre volte di fila prima di salire: i tappetini dovevano essere immacolati, niente polvere sui sedili. Sulla Camaro del dottor Taylor, questo non aveva importanza, ne ero certa.
Siccome riuscivo a muovere a malapena la punta delle dita, in quelle settimane avevo smesso di indossare abiti con i bottoni: solo gonne, pantaloni con l’elastico in vita come quelli dei bambini piccoli, le scarpe con il velcro. Ero in bagno, dove mi stavo appunto tirando su i jeans con una mano sola, quando entrò M. Era lei la bambina che aveva guidato l’assalto dell’altalena. Sola, senza il suo sciame di adepte, sembrava quasi come tutte le altre. Mi vide e si bloccò, la bocca pietrificata in una S di disgusto. Non mi odiava davvero, credo, ma non sapeva rinunciare a un’occasione perfetta per farmi male. Aveva quell’ottusità crudele che si fa quasi perdonare; che avessi appena perso una sorella, non le importava affatto.
«Che ci fai qui, Stent?» Mi chiamava sempre per cognome, dubito sapesse come mi chiamavo. Era più grande di me di un anno, non frequentavamo gli stessi corsi. «Dovresti restartene a casa. Quel gesso fa schifo, ci attacchi le malattie.»
Non aveva tutti i torti: era diventato scrofoloso nonostante tutte le mie precauzioni, come fare il bagno tenendolo sollevato in un saluto nazista. Un paio di giorni prima, a cena, ci avevo rovesciato sopra del ketchup, e anche se mamma aveva provato a pulirlo con la candeggina, era riuscita solo a scorticarmi le nocche, lasciandogli comunque una malsana sfumatura marroncina. Se Jill fosse stata ancora viva, probabilmente mi avrebbe chiesto se lo usavo al posto della carta igienica.
M., però, non aveva altrettanta inventiva, soprattutto non quando era da sola. Si limitò a darmi le spalle, altezzosa, e a chiudersi in un gabinetto.
Fu questione di un istante.
Vidi le punte dei suoi capelli fare la ruota come la coda di un uccello, il retro della sua maglietta rosa, con un cuore e la scritta Love, scomparire dietro la porta scrostata. Mi mossi come guidata da un istinto. C’era uno sgabuzzino nel bagno, dove gli inservienti tenevano spazzoloni e scope. Ci tenevano anche una sedia. Con il braccio buono, l’afferrai e cominciai a trascinarla fino al box in cui era chiusa M. Inserii lo schienale sotto la maniglia, per bloccarla dentro, e me ne andai. Lei stava cantando per non farsi sentire mentre faceva pipì: non se ne accorse nemmeno.
La trovarono dopo un’ora.
Ovviamente fece il mio nome agli insegnanti, disse che ero stata io a rinchiuderla. Venni chiamata nell’ufficio della preside, che prima di ricevermi mi lasciò fuori, seduta su una panca di legno, per almeno venti minuti buoni. Quando mi chiese conto di quello che avevo fatto, mi limitai a sollevare il braccio ingessato, lentamente, molto lentamente, e a mostrarglielo dal lato sul quale mia madre aveva insistito per scrivere «Jill» con un pennarello fucsia.
Non dissi una parola.
La preside resse il mio sguardo, corrucciata. Aveva le sopracciglia disegnate con la matita, era l’unica che conoscevo che le avesse così. Cercavo sempre di non fissarle, per non metterla in imbarazzo. «È una malattia» mi avevano spiegato i miei genitori, aggiungendo che molto probabilmente il suo caschetto ramato era solo una parrucca.
«Va bene, Mia. Puoi andare.» Sospirò come se fossi un caso senza speranza.
Da quel momento, M. non mi diede più fastidio. Quando mi incrociava per caso nei corridoi, girava la testa dall’altra parte e fingeva di non conoscermi. Mi piaceva pensare che avesse paura di me, ma credo che in realtà qualcuno, magari la preside stessa, le avesse semplicemente detto di lasciarmi in pace. Forse le avevano spiegato che non era il caso di prendersela con una decenne alla quale avevano appena ucciso la sorella maggiore.
Di lì a poco sarei partita per l’Italia e non l’avrei mai più rivista.