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La finestra del mio ufficio si affaccia su un muro screpolato. Qualcuno ci ha scritto sopra SOGNA ma è successo tanto di quel tempo fa che le lettere ormai sono sbiadite, hanno fatto come quei tatuaggi da quattro soldi che diventano azzurrini con il passare degli anni. Adesso si distingue appena una cosa così: \OGN/. Solo io, che la conosco bene, che l’ho vista nascere e invecchiare, so che cosa dice la scritta originaria, e questo mi riempie di orgoglio, è uno dei miei segreti. In realtà io non sogno mai, giusto incubi, ma ci sono affezionata. È stata la prima cosa che ho notato quando ho cominciato a lavorare al museo. I primi tempi facevo solo fotocopie, curavo l’agenda del vecchio direttore, ordinavo nuove risme di carta. Poi i capi hanno capito che ero sprecata, che la mia memoria straordinaria mi permetteva di ricordare e archiviare grandi quantità di dati. Ci è voluto un intero anno, prima che mi dessero un ufficio tutto mio, nel quale rinchiudermi e lasciare il mondo fuori.

Un paio di settimane fa ho pensato di cercare il dottor Taylor online. Avrei potuto farlo da tempo, in realtà, ma in tutti questi anni non ci avevo mai provato: avevo il suo ricordo da mantenere intatto. Se fosse invecchiato troppo? Se fosse diventato calvo, senza più tutti quei capelli che fingevo di toccare quando accarezzavo il labrador dei vicini? Non volevo saperlo se gli occhi grigi gli si erano fatti acquosi e lenti, dalla sclera giallognola. Preferivo continuare a pensarlo bellissimo e giovane, l’uomo-tempesta, l’uomo-cane che mi aveva fatto innamorare a dieci anni.

Solo che in questo periodo i ricordi mi premono contro i lobi temporali, sono come gli zombi dei film, quando provano a sfondare le vetrate dei supermercati per divorare i protagonisti. Ho pensato che in qualche modo dovevo allentarne la pressione, altrimenti rischiavo di diventare pazza. O ancora più pazza, diciamo.

E così un giorno, mentre ero al lavoro, ho chiuso a chiave la porta dell’ufficio per non essere disturbata. Ho provato prima a digitarne semplicemente nome e cognome, ma i risultati erano troppi, non immaginavo che potessero esserci così tanti omonimi dell’amore della mia vita, persino un giocatore di baseball poco più che adolescente, con il sorriso fiducioso di chi crede che il male non lo toccherà mai. Allora ho provato ad aggiungere la sua qualifica professionale, M.d. Quanti dottori che si chiamano in quel modo possono mai esistere al mondo? E infatti il cerchio si è ristretto, ma non abbastanza da riuscire a trovarlo: nessun indirizzo, nessuna foto. Un camice bianco ha fatto capolino tra le immagini, e per un attimo il cuore mi si è ristretto nel petto. Ma non era lui, no, era solo un impostore, un orrido otorino del Massachusetts.

Certo, la generazione del dottor Taylor è quella che ha assistito impotente e perplessa all’arrivo di Internet, posso capire che abbia scelto di non avere un profilo online. Mi è sembrato strano, però, non trovare traccia del suo studio medico. Possibile che non si faccia pubblicità in alcun modo? Mi sono chiesta se si è trasferito in un altro Stato, se ha cambiato mestiere. Forse ha scelto la pensione in anticipo, oppure ha ricevuto un’eredità inaspettata, che gli ha fatto abbandonare la medicina. Per un attimo, mi sono cullata al pensiero che, dopo il mio trasferimento in Italia, curare altre ragazzine potesse essere diventato per lui un tormento. L’avermi persa avrebbe potuto fargli smarrire per sempre la voglia di raddrizzare ossa, come una specie di prova d’amore: non toccherò mai più schiene di adolescenti. In fondo, scommetto che nessuno ne ha una speciale quanto la mia.

Il cursore lampeggiava sullo schermo, così innocuo all’apparenza, e io mi sono ritrovata a digitare il nome di Jill. Quasi un gioco: vediamo che cosa succede. Si è aperta una voragine di risultati. C’erano una truccatrice di Hollywood e una ginecologa sudafricana; un’altra, che si faceva chiamare Silly Jilly, invitava il mondo a crearsi la felicità con le proprie mani, ad amare il prossimo, gli animali, il sole. Dio, che orrore, ho pensato.

Non me la immagino affatto così, mia sorella. Vacua, forse. Sciocca, anche: non era troppo brillante da bambina, dubito che lo sarebbe stata da adulta. Eppure voglio sforzarmi di credere che in tutti questi anni, se non fosse morta, non mi sarei mai dovuta vergognare di lei. Non si sarebbe fatta mettere incinta dal suo primo fidanzato, né avrebbe vissuto in una casa prefabbricata con il tetto di lamiera e una parabola puntata diritta contro il cielo. Non sarebbe mai diventata una donna frustrata, con i capelli bruciati sulle punte e una bottiglia di vetro trasparente nascosta nella dispensa dietro i cartoni di succo di frutta. Ho provato a inventarmi una vita per lei, qualcosa che avrebbe reso orgogliosi i miei genitori: la vedevo sportiva e piena di energie, casalinga a tempo pieno e sposata a un uomo altrettanto bello, madre di due bambini biondi, un maschio e una femmina, che ricordavano noi alla loro età. In una parola, perfetta. Solo che mia sorella perfetta non lo è mai stata, e probabilmente non avrebbe mai nemmeno voluto esserlo, questo lo so bene. Non era nella sua natura soddisfare le aspettative degli altri. Avrebbe sempre preferito fare quello che le dettava l’istinto, anche quando il cammino era contorto e pericoloso. Anche se voleva dire farsi ammazzare in una notte umida di zanzare.

Ho trovato anche degli articoli sull’omicidio, ne ho aperto uno su un blog frequentato da appassionati di true crime. Parlava del caso, di come le indagini si erano arenate. A corredo, c’era sempre la foto di Jill che aveva diffuso mia madre, quella con la croce del battesimo. Quanto era bella, sospiravano nei commenti. Paragonavano mia sorella a JonBenét Ramsey, la reginetta di bellezza uccisa a sei anni nella sua casa in Colorado, sostenevano che il fatto che l’iniziale dei loro nomi fosse la stessa non poteva essere una coincidenza. Si lanciavano in teorie bislacche su chi potesse essere l’assassino. La più accreditata parlava di un serial killer: in fondo, non avevano ritrovato i corpi di altre due ragazzine insieme a lei? Anche di queste c’erano le foto, che non avevo mai visto prima, ma erano più sfocate, di una qualità inferiore. Il contrasto con quella di Jill, in posa e sorridente sotto la nuvola quasi bianca dei capelli, era impietoso. Queste altre ragazzine erano appena carine, more, con i visi paffuti di chi ancora non ha abbandonato l’infanzia e l’ombra di una peluria scura sul labbro superiore. Era sicuramente per questo se il caso di mia sorella attirava ancora l’attenzione: lei era morta da anni, eppure continuava a essere deliziosa.

Ho scorso velocemente i commenti finché non ne ho trovato uno in particolare: insinuava che l’assassino potesse essere mio padre, che abusasse regolarmente di me e di Jill. Bastardo, l’ha fatta franca, era la sentenza unanime. E ancora: ci vorrebbe la pena di morte. L’utente 419XXX diceva che nella nostra città lo sapevano tutti: facevamo finta di essere perbene e credenti, ma in realtà eravamo una famiglia incestuosa. Si dilungava in dettagli immaginari, visite ripetute all’ospedale, baci in pubblico sulla bocca. Ecco perché eravamo scappati all’estero subito dopo l’omicidio, papà aveva paura di essere arrestato.

“Ehi, ma non c’è l’estradizione dall’Italia?” chiedeva qualcuno.

“Sì, però ottenerla non è facile” spiegava 419XXX.

Lo immaginavo maschio e grasso, mentre si masturbava davanti al computer, la foto di mia sorella sullo schermo, un pacchetto di fazzoletti sulla scrivania, facendo più o meno la stessa cosa di cui accusava mio padre.

Ho sentito la bile risalirmi lo stomaco e bruciare via tutto con una fiammata, il dolore, ogni cosa. Tranne i ricordi, quelli no, quelli mai. Stringevo in mano una gomma da cancellare, e quando l’ho spezzata a metà non me ne sono nemmeno accorta, le briciole bianche sparse per la scrivania, un po’ come quando facevo i compiti e aspettavo che mamma si chinasse per controllare se avevo fatto errori.

Le ho soffiate via.

Poi qualcuno ha bussato con discrezione alla porta, per chiamarmi alla riunione di metà pomeriggio.

«Papà, ti vergogni di Jill?»

Con lui bisogna fare sempre così, coglierlo alla sprovvista, spiazzarlo. Aspettare di sentire il suo respiro attraverso la cornetta, poi attaccarlo. La tecnica del predatore, la chiamo io, e mi sento una tigre che si appiattisce tra l’erba alta. Quando voglio colpire più a fondo uso l’inglese, così sono sicura che non può dire di non avere capito. Di solito invece gli parlo in italiano, è una delle prime regole che ci siamo dati quando siamo arrivati qui: doveva servire a farmi integrare meglio, o forse a farci scordare più in fretta chi eravamo prima. Ma mio padre non è mai riuscito a perdere il suo accento, quelle O e U che comparivano a tradimento nelle parole sbagliate, quella cantilena da film comico che al liceo mi faceva vergognare.

«Che razza di domande fai?» ha boccheggiato, rispondendomi nella stessa lingua. Ora che non può più mettermi in punizione, mi è più facile costringerlo a parlare. Più o meno.

«Perché in tutti questi anni non mi avete mai portata da un medico?»

«Non ti capisco. Perché mai avremmo dovuto?»

«Perché non mi ricordavo più di lei, per esempio.»

«E allora? Per te è stato meglio così, hai sofferto meno.»

«Papà, ma ti sembra normale?»

«Tu non sei mai stata normale.»

Questa cosa di cui non dobbiamo parlare è tutto quello che abbiamo. Questo omicidio, questo strappo nelle nostre vite, questo maglione rimasto incastrato in un chiodo. Mia sorella è sepolta negli Stati Uniti. I miei genitori l’hanno abbandonata là, se la sono lasciata alle spalle. È solo un corpo, ha detto mio padre quando gli ho chiesto perché non l’abbiamo portata con noi, in realtà lei non c’è più. Ogni volta che passo davanti alla Piramide Cestia, penso che forse a Jill non dispiacerebbe stare qui, al sole, con i gatti che le fanno le fusa sulla tomba. E invece è rimasta in Louisiana, ad ammuffire nell’umidità e a chiamarci, inutilmente. È stato papà a deciderlo. Mamma non avrebbe voluto, non avrebbe mai lasciato sola la sua bambina, ma si è fatta convincere, ancora una volta. Come ci sei riuscito, papà, sono state le pillole? Perché c’erano queste pillole beige, che mia madre prendeva e che mio padre le somministrava ogni sera. Se le faceva scendere nel palmo della mano, a due a due, e faceva fare loro un piccolo salto, come per saggiare che fossero del giusto peso. Lei le deglutiva senza acqua, un trucco che le invidiavo molto. «Devi pensare che stai solo inghiottendo un boccone» mi spiegava ogni volta, mentre io le fissavo la cartilagine tiroidea che andava su e giù, ipnotizzata. Poi lei apriva la bocca e tirava fuori la lingua, la ruotava per farmi ridere, ma anche per rassicurare papà: guarda che brava, le mando giù davvero.

Adesso l’ho capito perché non siamo rimasti negli Stati Uniti a cercare la verità. È che la verità non importa, perché Jill non è innocente come potrebbe sembrare. Dopo tutti questi anni si porta ancora dietro una colpa: si è lasciata uccidere. È questo che pensa mio padre, ne sono sicura: è stata lei a provocare. Se fosse rimasta a casa, se avesse indossato dei pantaloncini più lunghi, se non avesse masticato la gomma con la bocca aperta. Se, se, se. E come punisci la figlia morta per averti disubbidito? Semplice, cancellandola dalla tua vita.

«Sei ancora arrabbiato con Jill, papà? È per questo che me l’avete lasciata dimenticare? La volevi punire?»

Non mi aspettavo una risposta, e infatti ho sentito solo un guaito attraverso la cornetta. Ho infilato più a fondo la lama.

«Lo sai che su Internet scrivono che sei stato tu a ucciderla? È vero? Devo preoccuparmi?»

«Basta così, Mia.» Per la prima volta una vera reazione, il vecchio tono imperioso. E poi, come una difesa non richiesta: «Amavo moltissimo tua sorella».

“Amo” l’ho corretto mentalmente. “Dovresti dire: amo.”

Qual è la differenza tra quello che vuoi credere a tutti i costi e la verità? È questo che avrei dovuto chiedere a mio padre, ma non l’ho fatto. Invece gli ho chiesto scusa. E mentre lui diceva che gli dispiaceva che mi fosse tornato tutto in mente all’improvviso, che forse sarebbe stato meglio per tutti se il caso non l’avessero mai riaperto, mi sono seduta sul pavimento, mi sono tolta le scarpe e ho iniziato a grattarmi via lo smalto dall’alluce.

Ho questa immagine di me, in piedi in un campo di granoturco. Sto aprendo una pannocchia, le foglie fanno un rumore piacevole di gomma, sembrano finte. È presto, lo so, dentro il mais non è ancora giallo, né lo diventerà mai: la apro per ucciderla. Sono tutta concentrata su quello che sto facendo, il respiro è regolare, pesante come se dormissi, le mani sono appiccicose di succo verde. Non mi accorgo che sono rimasta sola. Mio padre ha caricato mia madre e Jill in macchina e sono ripartiti. Mi aveva avvisata: muoviti, Mia, o lascerò che il mostro del granoturco ti prenda. E ora mi hanno abbandonata lì, si sono dimenticati di me. Mi hanno lasciata sola con i ricordi.

O forse no. Forse mi aspettano dietro una curva, il motore acceso e i finestrini abbassati, era tutta una messinscena per farmi paura e darmi una lezione sulla puntualità.

Forse mi ricordo male, ed è mia sorella quella che è stata dimenticata.

A volte la immagino con il dottor Taylor. A volte al suo posto ci sono io. Ci scambiamo i ruoli, finiamo l’una dentro l’altra. Saliamo su un’auto, lui con una mano stringe il volante, l’altra invece l’appoggia sulla coscia che ha di fianco: è la mia gamba o la tua, Jill? In fondo, è solo carne, che differenza fa? Che importa se tocca me o te, che importa chi è la ragazza scomparsa.

Forse al tuo posto avrei potuto persino esserci io.