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18 giugno 1997

“Ci dispiace per la sua perdita.”

“L’abbiamo persa.”

“È scomparsa.”

“Se n’è andata.”

“Non c’è più.”

Il vocabolario del lutto non è fatto di assenza, ma di smarrimento. Ha la forma di qualcuno che non riesci più a ritrovare. Ci distraiamo, e le persone ci scivolano dalle dita, passano attraverso le maglie larghe dell’esistenza, in una partita a nascondino dove non si fa mai tana.

Ma se perdi, trovi anche. Un giorno scopri che c’è una cosa senza nome che vive con te. La senti respirare, la senti crescere. Se ne sta acquattata in cucina, sotto i mobili. Ti osserva. Chi l’ha fatta entrare? Non lo so, non io, no davvero, dev’essere stato qualcun altro: ha lasciato la porta aperta e lei l’ha preso per un invito. Non vuole andarsene, perché è venuta per restare. Mangi, e ti fissa la schiena. Dormi, e ti si accoccola sulla pancia. Fare finta che non esista diventa un lavoro a tempo pieno.

Ci sentivamo così, nei primi giorni senza mia sorella. Spaesati, con quel dolore improvviso che era venuto ad abitare a casa nostra. Lo immaginavo come un mostro che si sedeva a tavola con noi e ci pungolava con le forchette, che la notte si infilava sotto le coperte dei nostri letti per abbracciarci da dietro fino a che non avevamo pianto tutte le lacrime. Ogni più piccola incombenza – le carte da firmare, le telefonate da fare – lo rianimava, ricaricando di nuova forza il semplice fatto della morte di Jill. Sì, la morte in fondo era semplice, solo che non passava mai. Anche se era la prima volta che ci avevo a che fare, potevo già percepire che le cose non sarebbero mai più tornate come prima.

Possiamo dire che sono stata io a far sì che mia sorella venisse ritrovata. Chissà quanto ci avrebbero messo, altrimenti.

Ero in camera, sdraiata sul pavimento, e mi stavo esercitando nella fisioterapia, per non perdere l’abitudine: lanciavo le gambe ora a destra e ora a sinistra, mentre la spina dorsale rispondeva con schiocchi offesi alla mia mancanza di agilità. Papà entrò senza bussare, come suo solito. «Mia? Ci sono dei signori che vorrebbero parlare con te.»

Di sotto, seduti sul divano e alle prese con il caffè bruciato di mia madre, c’erano due uomini che non avevo mai visto prima, vestiti eleganti, ben pettinati. Si alzarono contemporaneamente e contemporaneamente mi sorrisero. Facevano un po’ paura, nella loro simmetria.

«Ciao, Mia. Perché non vieni a sederti qui con noi?» disse il più anziano dei due, che aveva labbra sottili e una ruga profonda che gli tagliava in due la fronte. Siccome avevo subito alzato lo sguardo sul volto contratto di mio padre, si affrettò ad aggiungere: «Tranquilla, non sei nei guai. Vogliamo solo farti qualche domanda».

Annuii di riflesso, in realtà senza capire bene che cosa intendesse. Non ero abituata a essere al centro dell’attenzione, soprattutto degli adulti, e sentivo guance e orecchie che lentamente andavano colorandosi di rosso. Indossavo una delle mie magliette preferite, con una volpe sopra, e mi sembrò troppo infantile per quell’occasione, come se fossi tornata indietro di anni, una mocciosa, una poppante, un’infante, una di quelle espressioni con le quali Jill mi prendeva in giro. Intrecciai le dita e aspettai.

«Come sai, stiamo cercando di ritrovare tua sorella. Ma abbiamo bisogno di te per riuscire a farlo. Ci devi aiutare.»

Annuii di nuovo, questa volta con più foga. Volevo dare l’impressione di essere tranquilla e disponibile, ma in realtà sembrava solo che la testa mi si potesse disarticolare da un momento all’altro. L’uomo sorrise.

«Fai un bel respiro. Non agitarti. Tutto quello che vogliamo sapere è dove può essere andata tua sorella. E con chi.»

Mi strinsi nelle spalle. «Non lo so.»

«Pensaci bene. Secondo noi aveva un amico speciale. Usciva con qualcuno?» Vidi mio padre irrigidirsi, avrebbe voluto dire qualcosa ma si trattenne. Su questo argomento, c’erano già state discussioni animate con la polizia, le avevo sentite attraverso la porta chiusa della camera. «Ti ha mai detto qualcosa? Ti era sembrata strana negli ultimi giorni?»

Aprii la bocca e subito la richiusi. Sapevano del ragazzo di Jill. Non me l’aspettavo. «Non mi sembra» mentii. Pensai che tutti avrebbero capito subito che era una bugia.

«Ma ti sarai fatta un’idea su dove è andata.»

Abbassai lo sguardo sulle gambe, che tenevo strette l’una contro l’altra con tanta forza che mi facevano male. Nel jeans, all’altezza del ginocchio destro, si stava aprendo un piccolo buco. Ci infilai dentro la punta del mignolo e cominciai a sfilacciarlo.

Mi chiesi se dovevo essere ancora fedele a Jill. Se fosse tornata e avesse scoperto che l’avevo tradita, me l’avrebbe fatta pagare molto cara. Sarei stata per sempre in debito con lei. Dentro di me, però, c’era una vocina maligna che mi sussurrava che mia sorella si meritava di finire nei guai, in fondo se l’era andata a cercare, tutta colpa sua, era giusto punirla per quello che aveva fatto che ci aveva fatto che mi aveva fatto, da quanto tempo avevo quel pensiero come un prurito nel cervello che non riuscivo a grattare, da quanto tempo mi chiedevo chi fosse il suo ragazzo, Jill sapeva il mio segreto ma il suo castigo non era ancora arrivato, che cosa aspettava, forse alla fine aveva trovato il modo per essere di nuovo la prima in tutto, sempre la numero uno, e io avevo paura di scoprire quale fosse quel modo, avevo paura ma in realtà dentro di me lo sapevo già, solo che non ero pronta non ero pronta non –

«Mia?»

La voce dell’uomo era dolce. Chissà se gli ricordavo una figlia della stessa età che lo abbracciava ogni sera quando tornava dal lavoro, una di quelle brave, non come me.

«È alla Casa» dissi alla fine. E lo feci così piano che all’inizio pensai non mi avesse sentita nessuno. Poi però alzai lo sguardo e vidi che avevano tutti grandi occhi ed espressioni sorprese, e trattenni a stento una risata, che finì per trasformarsi in una specie di rutto. Mi sentii di nuovo le guance in fiamme. «Scusi.»

«Cos’hai detto?»

«Mi scusi.»

«No, prima.» All’improvviso percepii una nota di impazienza, ben nascosta sotto spessi strati di autocontrollo.

«Forse è alla Casa.»

«Che cos’è la Casa?»

«Un posto dove ogni tanto andiamo a giocare. È... una casa abbandonata.»

«Perché dici che è lì?»

«Così. Le piace.»

«È qui vicino? Ci puoi portare?»

Annuii. Improvvisamente mi sentivo molto stanca, avrei voluto rannicchiarmi sul letto e dormire, ma l’uomo mi stava già prendendo per mano: le mie dita erano così piccole tra le sue, mi sembrava di averle infilate in un guantone da baseball. Capii che questa cosa era già stata discussa in precedenza con i miei genitori, che avevano già acconsentito al mio fare da guida. Ma come facevano a sapere che li avrei aiutati?

Mi lasciai trascinare nell’auto dei due agenti, papà ci avrebbe seguiti con la sua. Non mi allacciarono nemmeno la cintura, e mi sentii così invisibile. Ero solo un tramite, uno strumento, nessuno si interessava davvero a me, perché tutta l’attenzione era diretta verso Jill, ancora una volta. Sperai che fosse davvero alla Casa, che l’avremmo sorpresa lì con il suo ragazzo, così avrei finalmente scoperto di chi si trattava. Cercai di immaginare che punizione le avrebbero inflitto, ma non ci riuscivo proprio. Sparire per tre giorni di fila! Era una cosa talmente enorme e proibita che il mio cervello si rifiutava di concepirla. Forse l’avrebbero persino arrestata. Dopotutto, la polizia aveva dovuto cercarla, perdere del tempo con lei. Sicuramente avevano cose più importanti da fare che correre dietro a mia sorella. Mi chiesi anche se la sua paghetta sarebbe finita a me, almeno per qualche settimana. Mi sembrava di averne diritto.

Il tragitto fino alla Casa fu insolitamente breve. Non ci ero mai andata in macchina, e mi resi conto di quanto fosse vicina in realtà. Sorgeva in mezzo al campo come una verruca, brutta e grigia, ma era pur sempre il nostro regno. Pregai che i miei non ci vietassero per sempre di andarci, una volta chiusa questa storia. Forse, quando Jill fosse tornata, avremmo potuto ricominciare da capo, ritornare a passare i pomeriggi insieme, e mi sembrava importante che potessimo farlo lì dove tutto era cominciato e dove tutto si sarebbe sistemato, ne ero certa. Onde di preoccupazione sciabordavano dentro di me, allungandosi e poi ritirandosi.

«È quella» sospirai. Una zanzara mi si posò sul braccio e la schiacciai con un colpo secco. Faceva molto, molto caldo. Ci fermammo a qualche metro di distanza.

Sul posto stavano arrivando delle volanti, con i lampeggianti accesi ma senza sirene. Non era mai stato tanto animato. C’era persino lo sceriffo, che una volta era venuto a scuola a tenerci un corso sulla sicurezza stradale. Tutti si muovevano con una lentezza innaturale, quasi al rallentatore. Soprattutto, si tenevano lontani, e la cosa mi lasciava sconcertata: perché non si lanciavano dentro, ad acchiappare mia sorella per un orecchio come aveva minacciato di fare papà qualche volta? Che cosa stavano aspettando? C’era anche un’ambulanza, parcheggiata all’inizio della salita, e all’improvviso ebbi paura.

L’uomo dalle labbra sottili, che avrei scoperto poi essere un agente dell’Fbi, venne ad aprirmi lo sportello. Il suo collega non aveva ancora detto una sola parola, sembrava imbalsamato. «Grazie, Mia. Sei stata davvero preziosa. Ora però ti devo chiedere di tornare a casa. Qui ce ne occupiamo noi.» Mi porse un braccio con un gesto teatrale, per farmi scendere dall’auto, e poi mi consegnò a mio padre. Gli strinse la mano, forte e a lungo, e guardandolo negli occhi promise: «Le faremo sapere qualcosa appena possibile, signor Stent. La troveremo».

E così fecero. Non subito, però, e non alla Casa. Lì dentro c’era solo sangue, così tanto che capirono appena entrati che non poteva esserci speranza per la persona alla quale era appartenuto.

Jill non c’era.

Tutto quel posto doveva parlare di lei, essere pieno fino all’orlo della sua essenza, che tracimava dalle finestre, dalle fessure tra le assi, così come aveva fatto il suo sangue che era sceso a impregnare il terreno goccia dopo goccia. Il suo corpo però era da qualche altra parte. Qualcuno si ricordò che lì vicino c’era una palude, forse valeva la pena dare un’occhiata.

Si rivelò l’intuizione giusta.

Incastrate tra le radici dei cipressi, immerse a metà nell’acquitrino, c’erano mia sorella e le altre due ragazze. Come si chiamavano? All’epoca non lo sapevo, ai miei non è mai interessato conoscere gli altri genitori, non avevano nulla da spartire con loro. «Noi ci facciamo i fatti nostri» mi aveva detto una volta mio padre, e così avremmo continuato a fare negli anni a venire. Niente fiaccolate per sapere la verità, niente targhe commemorative alla Casa. Jill divenne un cold case, come li chiamano. La ragazza fredda, la ragazza fantasma, quella che esisteva solo nelle foto, negli incubi e nei ricordi – e anche lì, cominciò presto a sbiadire. Rimase il numero impresso su un fascicolo, un fatto di cronaca fra tanti altri, una scatola di cartone in un archivio senza finestre illuminato dai neon. Con un suo inizio e una sua fine, ma non un perché. I miei genitori non vollero istituire borse di studio in memoria di mia sorella, non parlarono mai con i giornalisti, a malapena tolleravano le parole di compassione dei conoscenti. Le torte e gli stufati che ci portavano per confortarci finivano quasi sempre nella spazzatura, come se ciò che era successo fosse successo solo a noi, un fatto privato, da tenere quasi nascosto. Pensavo che sarebbe stato un sollievo per mio padre e mia madre sapere che mia sorella non era stata un caso isolato, che aveva conosciuto il terrore vero ma che il suo destino era stato condiviso da qualcuno come lei. E invece a volte per loro sembrava quasi un insulto: come avevano osato quelle altre due morire proprio come lei?

Le scoprirono ricoperte di fango, bianche e viola e svuotate, di vita, di sangue, di futuro, di tutto. Voglio credere che almeno gli alligatori le avessero risparmiate. Non mi turba l’idea che fossero nude: per quanto possa sembrare bizzarro, credo che Jill non si sarebbe imbarazzata più di tanto, perché il pudore era un concetto a lei del tutto sconosciuto. Ma i capelli, Dio, i capelli che erano il suo orgoglio e la sua ossessione. Fantasma petulante, si sarebbe disperata nel vederli aggrovigliati e sporchi, con coleotteri e pupe che brulicavano fra le radici per poi scendere giù, camminarle sugli occhi, infilarsi nel naso e in tutti quei tagli che il coltello le ha aperto.

Avrei voluto essere io a trovarla. Avrei voluto vederla, un’ultima volta.