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1 luglio 1998

Un giorno mia madre arrivò a casa con un vestito nuovo. Era bianco, con una balza floscia e triste come la ghirlanda di una festa di compleanno ormai finita. Stavo leggendo un fumetto seduta sul letto, e sollevai lo sguardo sospettosa.

«Provatelo, Mia. Coraggio.» Aveva la voce più alta di diversi decibel, a simulare un’allegria che non provava ormai da mesi e che forse non avrebbe mai più provato.

Me lo infilai dalla testa solo per farla contenta, mentre lei cominciava ad abbottonarlo sulla schiena, ciarlando di scuse, del fatto di non essere stata presente negli ultimi tempi, delle mie cure che dovevano assolutamente ricominciare. Drizzai le orecchie, sorpresa.

Non ero più andata dal dottor Taylor da quando Jill era morta, e mi ero quasi rassegnata al fatto che i miei genitori non mi avrebbero più portata nel suo studio. E invece, che sorpresa, avevano deciso di dedicarsi anche alla figlia rimasta, alla sua salute: “trattiamola bene, ormai abbiamo solo questa”. Addirittura, mi avevano comperato un abito apposta per la seduta, la mia prima da sola, senza mia sorella. Si riaccese dentro di me una piccola fiammella blu, un misto di amore e speranza. Non era finita, dopo tutto.

L’idea di rivedere il dottore, però, allo stesso tempo mi scombussolava. Nel mio cervello si rincorrevano pensieri simultanei e nervosi. Si sarebbe ricordato di me? Come mi avrebbe salutata? Che cosa dovevo dirgli? Sarebbe stato sbarbato oppure no? Non riuscivo a decidermi su quale atteggiamento fosse meglio tenere. Mi sentivo tagliata in due come una mela: una parte di me avrebbe quasi preferito non andare, l’altra stava urlando di gioia.

Avevo sceso i gradini il più lentamente possibile, sperando di ritardare la partenza, fino a che la mamma non mi aveva afferrata per un polso e mi aveva caricata di peso in macchina, legandomi molto stretta al sedile, una delle sue nuove precauzioni. Per tutto il viaggio, non aveva fatto altro che parlarmi della mia schiena, di come sarebbe cresciuta dritta, di che bella ragazza sarei diventata. Non sapevamo ancora che invece il futuro mi avrebbe riservato solo un mucchietto di ossa storte.

Lo studio del dottor Taylor era ancora come me lo ricordavo. I quadri astratti nei toni del grigio alle pareti, le tende chiare che tenevano dentro il silenzio. Avevo il cuore sottosopra, ogni battito mi faceva pizzicare le ascelle. Temevo di svenire da un momento all’altro. Rimasi sulla porta, intimidita, e mi nascosi dietro lo stipite. Volevo rivederlo secondo i miei tempi, osservarlo con calma: pensavo che, se me lo fossi ritrovata davanti all’improvviso, bello come me lo ricordavo, il mio corpo di decenne non avrebbe retto. Lo choc mi avrebbe senz’altro uccisa.

Mamma rise nervosamente, vedendomi così immobile. «Ma cosa fai lì impalata? Vieni, su.» Mi prese per una spalla e mi spinse dentro. Era incredibilmente lucida, quel giorno.

Mi accorsi subito che la segretaria sapeva. Certo, era prevedibile, eppure la odiai per questo. Ci guardava da dietro gli occhiali con un’aria di compatimento che avrebbe voluto essere qualcosa di più, ma lo sforzo, evidentemente, non era sufficiente. Spingendo lungo il naso le bifocali, squadrò prima mia madre e poi me: sembrava che fosse pronta a inghiottirci intere.

«Mi dispiace tanto. Le mie condoglianze» disse, contrita, con una voce appiccicosa che mi fece venire il voltastomaco. Mi immaginai che si fosse esercitata a lungo in quella frase di circostanza.

Mia madre la accolse come se le avessero schiacciato all’improvviso le dita in un cassetto. Si fermò di colpo, e contemporaneamente la bocca le si piegò all’ingiù. Era riuscita a dimenticarsi per qualche ora di avere una figlia morta, anzi, uccisa, e adesso, a tradimento, gliel’avevano ricordato. Ecco cos’era quel dolore sordo al fianco, quell’animale che mi rodeva dentro senza sosta: avevo perso la mia bambina e non lo sapevo più. La vidi traballare: l’educazione rigida che aveva ricevuto le stava dicendo di ringraziare la segretaria, ma la voce non voleva saperne di uscire. Trovò un compromesso.

«Siamo qui per la seduta di Mia» gracchiò. Gli occhi le scintillavano pericolosamente, incerti se piangere o meno.

«Ma certo» replicò con un sorriso la segretaria. Aveva i denti gialli di nicotina. Sollevò la cornetta del telefono e premette un pulsante. «La signora Stent e sua figlia sono qui.»

Non mi aveva mai chiamato per nome, nemmeno una volta, ma avrei scommesso la paghetta di un mese che invece quello di Jill se lo ricordava, eccome. Come al solito, mia sorella era impossibile da dimenticare.

Ci sedemmo in sala d’aspetto. Mia madre aveva estratto dalla borsa un fazzoletto di cotone, di quelli che già allora non si usavano praticamente più. I colori, strapazzati dai troppi lavaggi, erano un incrocio tra un arcobaleno e una pozza di vomito. Cominciò ad asciugarsi furtivamente gli angoli degli occhi: non voleva che la vedessi gocciolare neppure una lacrima. Il tempo dei pianti continui era finito, l’aveva promesso solennemente a me e mio padre. Una sera ci aveva stretto le mani attraverso la tavola e aveva detto semplicemente: «Basta». Le avevo creduto sulla parola.

Alle mie spalle si aprì una porta. «Signora Stent?»

Per un attimo, uno solo, avevo temuto che non mi sarebbe più piaciuto. Che l’amore, quella dinamo instancabile che era stata la mia consolazione in tutti quei mesi, fosse svanito. Un miraggio, un’illusione durata troppo poco per diventare reale. E invece no. Era ancora lì, e mi investì a tradimento con la stessa forza di quando mi ero fatta male a scuola durante una partita di pallavolo. L’amore, scoprii, era una pallonata in pieno petto nell’ora di ginnastica: l’aria mi uscì dai polmoni con un sibilo, mentre il sangue veniva pompato sempre più in fretta.

Il dottor Taylor mi sembrava ancora più bello del solito, anche se credo che fosse semplicemente uguale a se stesso. Questa volta non indossava il camice bianco, ma una divisa azzurro cielo che pareva fatta di carta: sarebbe potuto uscire direttamente da una sala operatoria. Le guance erano scure per la barba lunga e aveva lo sguardo triste. Ingenuamente, pensai che fosse triste per me.

Strinse brevemente la mano a mia madre, facendole le condoglianze. Al contrario della sua segretaria, sembrava sincero. Poi si rivolse a me.

«Come stai, Mia?»

Il cuore mi si agitò nel petto con quel battito claudicante che ormai avevo imparato a riconoscere. Prima di quel momento, le volte in cui mi aveva parlato si potevano contare appena sulle dita di una mano. Lo fissai, determinata a impedirmi di arrossire. Vorrei saper raccontare che cosa vidi in quegli occhi, ma temo che non ci sia modo di farlo senza suonare patetica o sdolcinata. Nelle sue iridi grigie c’era l’alta marea, nelle pupille esplodevano galassie e si scontravano pianeti. E in fondo, dietro a tutto quel caos, si nascondeva un dolore nuovo, reale. Confusa, mi chiesi se avesse a che fare con la morte di Jill, e istintivamente mi ritrassi. Quindi era davvero lui il suo fidanzato? Cercai di scacciare il pensiero. Mi dissi che ero una stupida, che non poteva essere vero. Era solo triste per me, solo per me.

«Bene, credo» mormorai.

«Questa volta, se tu e tua madre siete d’accordo, ci sarò solo io. Niente fisioterapista.»

Non era mai successo prima che si occupasse direttamente lui della mia ginnastica. A ripensarci ora mi sembra strano, ma lì per lì credetti che fosse solo una specie di regalo. In quel periodo, erano tutti estremamente gentili con me e cercavano di accontentarmi in ogni modo.

Entrammo nel suo studio, mentre mamma restava ad aspettarmi in sala d’attesa. Cominciai a spogliarmi, come mi veniva richiesto per ogni sessione. Ogni volta, togliermi i vestiti davanti al dottor Taylor era una sofferenza: mi vergognavo del mio torace ancora piatto, dei rari peli biondi che da poco mi erano cresciuti sugli stinchi, e che mia madre mi vietava di radere. Avrei voluto essere elegante e snella come Jill, dare una forma alla biancheria di cotone stinto e non soltanto riempirla. Ma non c’era niente che potessi fare, e strinsi le labbra con stoicismo: «Sono pronta». Ero rimasta in mutandine e canottiera, un filo di cotone pendeva da una delle cuciture: lo staccai con un colpo secco.

Il dottore però non si muoveva, sembrava quasi che non sapesse cosa fare: restava in piedi davanti alla finestra e mi dava le spalle. Sbirciai il materassino verde smeraldo su cui la fisioterapista mi faceva piegare e contorcere. Non avevo idea di come comportarmi.

«Ti manca Jill?» chiese all’improvviso.

Era la domanda che mi facevano tutti quelli che incontravo, e il fatto che lui non fosse da meno mi deluse. Cominciavo a pensare che il mio nuovo status di orfana di Jill fosse terribilmente ripetitivo (sapevo di non essere realmente un’orfana ma, visto che non esiste una parola per indicare la morte di una sorella o di un fratello, mi piaceva lo stesso definirmi così).

Non volevo che il dottore pensasse che lo stessi in qualche modo rimproverando, perciò cercai di rispondere come gli adulti si aspettavano che facessi. «Sì, molto.»

«Tua sorella era speciale.»

«Sì.»

«Mancherà anche a me, sai?» Mi fece un piccolo sorriso. Era proprio triste, notai. Si stava pulendo le mani con uno di quei gel disinfettanti. L’odore pungente mi arrivò alle narici e starnutii: cominciavo ad avere freddo. Gli feci un cenno con la testa, non riuscivo a capire dove volesse andare a parare. Si avvicinò.

«Piegati, Mia.»

Mi arcuai all’ingiù, rapidissima, come mi aveva insegnato a fare la fisioterapista. Volevo mostrargli quanto avevo imparato, così sarebbe stato fiero di me.

Mi tenne giù il collo con una mano, con l’altra spingeva sulla parte bassa della schiena. Cercai di unire la punta delle dita, di sfiorare il pavimento. Sentii il sangue scendere a gonfiarmi le guance. I tendini mi bruciavano come fuoco. «Sono venuti i poliziotti a casa vostra, immagino.»

«Certo» risposi.

«Ti avranno fatto tante domande.»

«Sì.»

«Sanno già chi ha fatto del male a tua sorella?»

«No.»

Contrasse la mascella. «Spero che li prendano presto.»

Mi fece risalire e appoggiare al muro. Spinsi indietro le scapole e in fuori il mento. «Fai finta che ci sia un filo invisibile che ti tira dall’alto, come una marionetta», mi ripeteva sempre la fisioterapista. Il dottor Taylor mi mise un dito sotto il collo, sollevandomi appena la testa.

«Ho saputo che sei stata tu ad aiutare la polizia. Come facevi a sapere dov’era?»

«Io... non lo so.»

«Come?»

«Non ricordo bene.»

«Davvero?»

«Non è una bugia. Non mi ricordo. Davvero.» All’improvviso, cominciai a piangere. La gioia che provavo fino a poco prima si era dissolta come neve. Mi sembrava una colpa terribile non riuscire a rispondere alla domanda del dottore. Come avrebbe potuto amarmi se non ero in grado nemmeno di fare una cosa così semplice? Già allora, però, i giorni della Scomparsa di Jill si andavano cancellando, diventavano piano piano trasparenti, impossibili da mettere a fuoco. Secondo la psicoterapeuta, era un meccanismo di autodifesa, un modo per scendere a patti con la morte. Io sapevo solo che a volte mi sembrava di svegliarmi da un sogno, uno di quelli che vorresti subito trascrivere ma è già troppo evanescente per farlo.

«Mi dispiace» mormorai.

«Non importa. Non avrei dovuto chiedertelo, scusami.» Prese un fazzolettino dalla scrivania e mi asciugò le guance. Avrei dovuto odiarlo, ma in quel momento lo amai ancora di più. «Ti ricordi gli esercizi che ti abbiamo insegnato?»

Annuii. «Sono molto brava a farli.» Volevo piacergli a tutti i costi, speravo che così si sarebbe dimenticato della mia brutta figura.

«Spostiamoci sul materassino, allora.»