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«Ha paura?»
«Come?»
«L’ago. Ha paura degli aghi?»
«Ah. No, non più. Quando ero bambina.»
«Sicura? Non è che sviene?»
«Io non svengo mai. Ma dicono che ho delle brutte vene.»
«E chi lo dice?»
«Quelli che non sanno fare i prelievi, probabilmente.»
«Ma no, sono bellissime. Però può girarsi dall’altra parte, se vuole.»
«No, mi piace guardare.»
E l’ho fatto davvero, mentre l’infermiere (o il dottore? Non riesco mai a capire, hanno tutti gli stessi camici) mi infilava la siringa sottopelle. C’è stato un piccolo momento di stasi, il tempo si è dilatato impercettibilmente mentre la mia carne provava a fare resistenza per poi, è inevitabile, cedere e aprirsi al metallo. Ma non ho provato dolore: questo infermiere-dottore era davvero bravo, chissà quante battute gli fanno i colleghi sulle mani leggere che si ritrova. Aveva dita affusolate, dalla manicure perfetta, che si avvolgevano attorno allo stantuffo con la sicurezza di chi ha svolto lo stesso compito ancora, e ancora.
Ormai era la terza volta che andavo al laboratorio. Protocollo sperimentale, lo chiamano. Studiano i casi come me, quelli che non riescono a spegnere l’interruttore del cervello e lasciano la memoria sempre accesa. È stato il mio dottore a darmi l’idea. Involontariamente, si capisce: lui non sa davvero come sono fatta.
«Stasera non posso» ha esordito, il suo solito tono arrogante che si spingeva sempre più a fondo nel mio orecchio. Ho fissato il telefono per alcuni secondi, indecisa se riattaccare subito o aspettare. Alla fine ho preferito restare in silenzio. Di solito, in questo modo riesco a metterlo a disagio. E infatti, per riempire la mia assenza di parole, ha finito per raccontarmi più di quanto avrebbe voluto. «Devo vedere un amico, un collega. Vuole qualche consiglio. È un neuroscienziato, si occupa di ricordi. Cerca persone con l’ipertimesia per uno studio.»
Il cuore ha cominciato a battermi più forte, come in una premonizione. «Ipertimesia?» ho chiesto, accantonando per un attimo il proposito di punirlo con il mio silenzio.
«Supermemoria. Ricordi tutto del tuo passato, della tua infanzia. A un certo punto della vita ti succede qualcosa e poi non riesci più a dimenticare nulla. È una sindrome ancora poco conosciuta.» Da saccente, come ogni volta che mi spiega qualcosa, la voce gli è tornata improvvisamente scostante. «Senti, devo andare. Mi faccio vivo io.»
Appena ha riattaccato, ho cominciato a fare qualche ricerca online. Non ho trovato molto, ma mi è bastato. Si parlava di poche decine di casi al mondo, ancora da studiare, uomini e donne intrappolati in una memorizzazione perenne, e tutti preda di disturbi ossessivo-compulsivi con i quali cercavano di mettere ordine alla realtà. Soprattutto, mi ha colpito la storia di questa donna che, ironia della sorte, si chiamava Jill, e ricordava nel dettaglio certi mercoledì di scuola guida, i weekend a Palm Springs, la canzone che passavano in radio un giorno preciso nel quale aveva litigato con la madre. Aveva cominciato a farlo a nove anni, dopo che i genitori l’avevano costretta a cambiare città: il trauma le aveva fatto scattare qualcosa dentro.
È stato come se qualcuno mi avesse messo davanti uno specchio appannato: ci ho passato sopra una mano e dentro c’ero io, offuscata ma indiscutibilmente me stessa. Mi sono riconosciuta al primo colpo, la ragazza con la schiena storta e la memoria di ferro, ferma alla pagina di un calendario che non ha mai cambiato giorno. Una benedizione e una maledizione così intrecciate da non potersi distinguere tra loro.
Ma mi servivano delle prove, per capire se avessi davvero fatto centro.
Scoprire come si chiamasse questo neuroscienziato, e dove si trovasse il suo laboratorio, ha richiesto un po’ più di ingegno. Ho dovuto interrogare il mio dottore, ma in modo tale che non potesse sospettare un vero interesse da parte mia. Qualche domanda discreta, qualche accenno qua e là.
«Come è andata poi con quel tuo amico? Un neuroscienziato, hai detto?»
«Sì, esatto, M. Siamo stati compagni di università. Lui però ha preso un’altra strada.» Ha scosso la testa, come se voler indagare i segreti del cervello fosse una pazzia incomprensibile.
«A me il suo studio sembra interessante» ho replicato, fingendo noncuranza.
«Dài, a chi cazzo interessa se dieci persone al mondo si ricordano tutta la loro infanzia? Sta sprecando il suo talento. E anche un sacco di fondi ministeriali.»
«Ah, è un progetto statale? E dove si tiene?»
Gli piace talmente tanto il suono della propria voce che ha finito per dirmi tutto quello che volevo sapere. È stato così che sono riuscita a iscrivermi al programma di ricerca, una volontaria nascosta fra tanti altri. Voglio capire come funziona il mio cervello, vedere che cosa ci si nasconde dentro: io immagino labirinti e scale che non portano da nessuna parte, porte che si aprono sul nulla o, tutt’al più, su muri troppo spessi per essere abbattuti. E a infestare ogni cosa, Jill. Mi sono detta che, per risolvere il suo mistero, devo partire dal mio. Devo infilzare i ricordi uno dietro l’altro, e farlo con metodo. E per questo mi servono dei professionisti.
Al laboratorio mi presento circa una volta al mese. In realtà, è più un sottoscala, cinque stanze squallide di un palazzo anni Cinquanta dietro la Sapienza. Le veneziane sono storte e rotte, di solito si incastrano a metà contro il sole inclemente di Roma, le porte hanno buchi che rivelano il compensato e nell’unico bagno manca il sapone. Sullo specchio, qualcuno ha scritto con un pennarello «Non dimenticatevi di portare da casa la carta igienica – ah ah ah» non dimenticatevi è sottolineato tre volte e, a rincarare la simpatia di una battuta così in un centro studi sull’ipertimesia, c’è anche uno smile.
Ma per quanto il laboratorio sia misero e povero, è diventata la mia seconda casa, o forse la prima, chissà. Mi sottopongono a esami sempre diversi: prelievi, risonanze magnetiche, quiz, test del Qi. Niente radiografie alla schiena, purtroppo, ma tante domande, soprattutto domande, e sugli argomenti più disparati. Mi chiedono a bruciapelo date e ricordi, che cosa è successo un certo giorno a una certa ora. Se riesco a ripetere con esattezza che tempo faceva, che cosa indossavo. Io faccio anche di più: a volte racconto degli odori che riempiono stanze vecchie di anni, del profumo dei marshmallow polverosi che mia madre ci metteva nelle calze la vigilia di Natale o della canzone che ho sentito per caso nel negozio in cui mio padre mi ha comperato la prima bicicletta.
I ricercatori, cinque o sei a rotazione, tutti giovani e volenterosi, sono estasiati, li vedo che allargano sorrisi incontrollabili mentre prendono nota di ogni cosa che dico. A volte provano anche a farmi ricordare qualche evento storico, che cosa stava succedendo intorno a me mentre ero impegnata a crescere cercando di passare inosservata. Su quello, però, mi tocca deluderli: il mondo esterno non è quasi mai riuscito a entrare nella mia vita, a casa mia non si è mai guardato il telegiornale, nessun quotidiano veniva lanciato la mattina contro la porta della nostra villetta. Ma a loro non sembra importare più di tanto. Hanno una cartellina azzurra con sopra un codice scritto a penna: 47400, cioè io. Nessun nome, lì dentro, niente che sia riconducibile alla mia vera identità.
Meglio così.
Ci vado con gli occhiali da sole sempre inforcati, ogni tanto nei corridoi incontro qualcuno degli altri volontari. Provano a incrociare il mio sguardo, timidamente, sperando che si possa formare tra noi un cameratismo che li aiuti a sentirsi meno soli: guarda, c’è un’altra bestia rara che cammina in incognito tra gli esseri umani. Ma io li ignoro. Giro la testa dall’altra parte, sollevo il mento. Resto nella mia tana, fedele solo alla mia missione.
Da quando faccio parte del programma, ho cominciato a ricordare tutto nel dettaglio. O meglio: ricordavo anche prima, ma ora è come se l’inquadratura della memoria si fosse allargata a particolari che prima erano fuori campo.
In ogni fotogramma è ricomparsa mia sorella.
La torta per i miei quattro anni, e Jill che spegne le candeline al posto mio.
La vacanza alle Keys di quando mamma e papà hanno festeggiato dieci anni di matrimonio, e a Jill viene la febbre e resta chiusa in camera una settimana.
Il maglione con la renna che mi hanno regalato un Natale, ed ecco Jill che ce l’ha uguale a me, mi abbraccia e mi dice che saremo unite per sempre, perché siamo sorelle.
Ho cominciato anche a tenere un diario, ci annoto tutto quello che mi viene in mente, in ordine sparso. I ricordi non sono diligenti, si accavallano gli uni sugli altri, ci vuole pazienza, con loro.
Non so se questa indagine mi porterà da qualche parte, se alla fine di tutto riuscirò a capire perché avevo cancellato mia sorella dalla mente e ora invece l’ho fatta risorgere. Se scoprirò che cosa le è successo. Se i flash che ogni tanto mi tornano in mente sono davvero – no. Meglio non pensarci.
In ogni caso, passare una giornata al mese in quel laboratorio non può farmi che bene. È il mio ambiente naturale, camici bianchi e medicina. Dottori ovunque, e tutti che mi mettono al centro dell’attenzione.
E non hanno ancora visto niente, di me.