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12 aprile 1997

Ho alzato gli occhi, e per un attimo non ho capito dove mi trovavo. C’era una luce di sole e pulviscoli che mi scaldava le guance: avrebbe potuto essere la Louisiana come l’Italia.

«Lo sta tenendo un diario?» ha ripetuto la voce.

Ho messo a fuoco lo sguardo sulla faccia larga e piatta della ricercatrice: ormai mi capita sempre la stessa. “Poverina, che brutta” ho pensato.

«Un diario?»

«Molte persone con l’ipertimesia lo fanno.»

«Sì, in effetti sto tenendo un diario.» Mi sono picchiettata la tempia con l’indice. «Mi serve a ricordare meglio.»

Lei ha annuito e ha scritto qualcosa sulla sua cartellina. «Prima non l’aveva mai fatto?»

«No. Ma ora che me lo chiede, mi è tornata in mente una cosa.»

«Me ne vuole parlare?»

«No.»

C’era un’asse del pavimento sconnessa, in camera nostra. Come avesse fatto a scampare all’efficienza di mio padre, era un mistero che non avrei mai saputo spiegarmi. Correva sotto la finestra tra i nostri due letti, dal calorifero verso il centro della stanza, e bastava appoggiarci appena sopra il piede per sentirne il gemito. Forse mio padre saliva talmente poco a trovarci, e mai per la buonanotte, da non essersene proprio accorto. O forse, chissà, gli piaceva il fatto che, se mai avessimo cercato di scavalcare il davanzale per evadere da qualche punizione, l’asse ci avrebbe tradite.

Jill, invece, la conosceva bene.

Aveva passato giorni minuziosi a scavarla attorno con un coltellino (dove l’aveva preso? Era riuscita a rubarlo dalla cassetta degli attrezzi in cantina?). L’aveva infilato piano negli interstizi, con una pazienza che le avevo visto poche altre volte, per liberare quel rettangolo di legno della colla e del mordente con cui era fissato agli altri. La osservavo dal mio letto mentre rimestava concentrata, le guance rosse, la fronte corrugata, pochi millimetri di lavoro ogni giorno. Ero convinta che non ce l’avrebbe mai fatta, e invece ecco che un sabato di sole i lavori di scavo erano finiti e lei, con un gridolino di trionfo, aveva lanciato il coltellino attraverso la stanza. La lama aperta mi aveva sfiorato il braccio, graffiandolo.

«Scema!» avevo urlato, anche se in fondo non era uscita nemmeno una goccia di sangue e non mi faceva davvero male. Mi ero subito pentita. Per un insulto così, mia sorella avrebbe anche potuto riempirmi di pizzicotti notturni per un mese intero, non importava che io avessi ragione e lei torto.

Ma Jill, per mia fortuna, non mi stava davvero ascoltando. Era troppo concentrata a cercare di infilare le unghie sotto l’asse: ogni volta che le sfuggiva di mano, si sentiva un raschio cattivo che mi faceva serrare i denti. La curiosità alla fine ebbe la meglio, e mi avvicinai per dare un’occhiata. Al terzo tentativo, mia sorella era riuscita a sollevare il legno, scoperchiando polvere e porcellini di terra che si erano arricciolati su se stessi trasformandosi in minuscole palline grigie.

«Che schifo» avevo esclamato. In realtà, ero deliziata.

Mia sorella aveva soffiato via tutta quella sporcizia di anni, mandando gli insetti a rintanarsi in altri angoli bui. Sorrideva. In quel periodo, mesi prima della sua morte, aveva dentro un barometro che segnava sempre il sole. Una gioia segreta dalla quale ero esclusa, così come ero esclusa dal nascondiglio sotto il pavimento.

«È mio, capito?» aveva messo in chiaro da subito. «Se scopro che fai la ficcanaso, te la faccio pagare.»

Avevo replicato che figurarsi, chi lo voleva quel buco. Anche io avevo un posto tutto per me, e decisamente migliore, cosa credeva. In un punto imprecisato del petto, però, mi bruciava un’ulcera di dolore. Una volta, qualsiasi tana sarebbe stata nostra, non solo sua. Ci avremmo infilato dentro qualche paccottiglia, e finto che fosse la cassaforte più sicura del mondo.

Però ormai Jill era cambiata irreparabilmente.

Penso che qualunque altra bambina avrebbe cercato di sbirciare lo stesso sotto quell’asse, sorda e indifferente agli ammonimenti di una sorella maggiore. Io no. Credevo che così facendo mi sarei dimostrata superiore, che le avrei fatto vedere che ero diventata grande anche io. O forse temevo solo di scoprire il tesoro segreto di Jill.

La vedevo, in certe ore molto buie della notte, quando pensava che io stessi dormendo profondamente, far scivolare sotto l’asse foglietti bianchi ripiegati più e più volte. Suppongo fossero lettere, messaggi. Bigliettini d’amore? Forse. Scoprii che non avevo affatto voglia di leggerli, non volevo vedere da chi erano firmati. Preferivo credere che fosse un suo compagno di scuola, magari qualcuno della squadra di lacrosse, a lasciarglieli nell’armadietto o sul banco. Volevo crederlo, davvero.

Pochi giorni dopo il funerale di Jill, mi sono decisa a sollevare quell’asse. Avevo paura, come non ne avevo mai avuta prima, ma sapevo di doverlo fare. Lì sotto c’era un indizio sulla fine di mia sorella, me ne rendevo conto anche se ero solo una bambina. E spettava a me portarlo alla luce, non avrebbe potuto farlo nessun altro perché ero io l’unica a sapere. La responsabilità era mia.

Il cuore mi rimbalzava nelle braccia fino dentro la punta delle dita, mentre infilavo le unghie nelle fessure, ormai larghe per tutte le volte che Jill l’aveva fatto prima di me. Sentivo i suoi occhi che non mi perdevano di vista, come se penzolassero dal soffitto per osservare la scena di me, bugiarda e spiona, che tradivo ogni lealtà sororale che mai c’era stata tra di noi.

«Lo faccio per te. Per capire» sussurrai al suo fantasma. Ancora non sapevo che mi avrebbe inseguita per sempre, che mi avrebbe abbandonata solo per tornare ancora più feroce di prima.

Sotto il pavimento, però, non c’era niente.

Lo spazio era ripulito e vuoto come una bara nuova. Qualcuno doveva aver portato via tutto quello che Jill vi aveva nascosto. Era stata lei stessa a farlo prima di morire, spinta da un presagio? Mi sforzai di ricordare quando era stata l’ultima volta che l’avevo sentita armeggiare con l’asse: le notti si sovrapponevano l’una con l’altra in una confusione di fasi lunari e visioni spettrali. Non ne avevo idea. Mi chiesi se non fosse stato qualcun altro, ma chi poteva sapere del nascondiglio di mia sorella? Se i miei genitori l’avessero scoperto, l’avrebbero sicuramente detto alla polizia. E invece in camera nostra, dopo il primo giorno di indagini, con gli agenti a rovistare di malagrazia tra i nostri giocattoli e vestiti, non era più venuto nessuno. Non avevano trovato niente, quello lo sapevo per certo. Ero rimasta sulla soglia della porta a osservarli mentre aprivano gli armadi e i cassetti, persino l’anta della casa delle bambole, e infilavano dappertutto dita guantate, come dottori in cerca di un tumore particolarmente ostico.

A un certo punto, uno di loro si era accorto della mia presenza. Invece di cacciarmi, mi aveva sorriso.

«Ehi. Tua sorella ce l’aveva un diario?»

Avevo scosso la testa e la sua faccia si era caricata di delusione: pensava già di aver risolto il caso. Ma mia sorella odiava scrivere, ecco perché quei messaggi segreti erano tanto strani: dovevano per forza essere comunicazioni a senso unico. Chi mai avrebbe voluto mandarli a mia sorella, sapendo che non avrebbe mai ricevuto in cambio una risposta? Qualcuno che non la conosceva bene, probabilmente.

Magari invece Jill si era scoperta poetessa, scrittrice.

La ricordo china sul tavolo della cucina, il sole che le accende i capelli, la fronte appoggiata dolcemente alle nocche di una mano. Mia sorella riusciva a rendere aggraziato anche il gesto più normale, come se fosse perennemente in posa per un ritratto. Ha lo sguardo concentrato e perso nel vuoto, posso sentire le rotelle dentro la sua testa perfettamente rotonda muoversi senza sosta. Si sta sforzando di elaborare un pensiero particolarmente difficile, è evidente. Davanti a sé, tiene un quaderno aperto, la pagina è bianca, appena bagnata della saliva caduta dalla penna che stava mangiucchiando. Io apro il frigorifero per prendere un bicchiere di latte, e mi fermo a osservarla, rapita, mio malgrado, dalla sua bellezza. Quando sarò grande, penso, vorrei essere come lei, e subito mi irrito per averlo pensato. Do per scontato che stia lavorando a qualche saggio per la scuola, uno di quelli sui quali entrambe fatichiamo. Non mi sfiora affatto il pensiero che stia cercando di scrivere la risposta a uno dei messaggi nascosti sotto il legno.

Quelli che non ho mai ritrovato.