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Una sera, quando ero all’università, sono stata lasciata. Era prima dei dottori, prima dei camici bianchi: era il periodo dei semplici fidanzati. Ero seduta a gambe incrociate sul letto, nella mia minuscola mansarda, e il ragazzo con cui uscivo all’epoca mi stava dicendo che non mi amava più. C’è stato un attimo di silenzio, la polvere che si posa dopo un’esplosione, e poi ci siamo guardati negli occhi nello stesso istante. Ho potuto sentire distintamente il clic nel suo cervello, mentre realizzava che cosa stava per accadere.

Perché una sera, quando ero all’università, sono stata lasciata e ho provato, con scarso successo, ad ammazzarmi. Sono scattata in piedi, muscoli e tendini che si contraevano cercando di darmi il massimo dello slancio, per batterlo sul tempo e arrivare per prima al cassetto della cucina pieno di coltelli. Nella mia memoria, la scena si svolge al rallentatore, la corsa resa instabile dalle calze che slittano sul pavimento, lui che cerca di afferrarmi per un braccio ma gli resta in mano solo la manica della maglietta. Basta comunque a farmi perdere l’equilibrio, e per un attimo mi sembra di levitare, la punta delle dita che riesce appena a sfiorare il cassetto, mentre i piedi si sollevano e la gravità finisce per vincere. Un corpo lanciato in velocità cade spettacolarmente quando viene atterrato.

È stata una delle ultime volte in cui ho sofferto, più per orgoglio ferito che per sentimenti ammaccati. Se ci ripenso, quel pianto con la guancia schiacciata sulle mattonelle della cucina mi sembra ridicolo. Ma allora era la fine del mondo, e solo perché non mi ricordavo di un dolore ancora più grande.

Il dottor Taylor non mi guardava. Il dottor Taylor non mi parlava. Il dottor Taylor non mi toccava. Avevo sempre saputo che mi avrebbe ignorata, ma volevo comunque che smettesse di farlo. Credevo che l’amore avesse un corso lento, sempre uguale, e invece aveva l’inesorabilità del rubinetto che ti dimentichi aperto, e piano piano riempie il lavandino, straborda, e prima che tu te ne renda conto ha già allagato la casa. Più il tempo passava, e più faticavo a tenere sotto controllo quello che provavo, mi irraggiava dalla punta delle dita, che pizzicavano e sudavano e si ricoprivano anche di minuscole vescicole trasparenti, da ustione, le strusciavo contro i pantaloni ma non serviva a niente, scoppiavano e poi si riformavano.

Ero legna verde, eppure bruciavo.

Non so se abbiate mai vissuto un’ossessione, di quelle che trapanano la mente. Si potrebbe pensare che a chi è molto giovane non possa accadere, e invece non è così. Non c’è gloria nell’avere un cuore che gronda amore senza essere ricambiato. Non ci sono stellette da appuntarsi sul petto, nessuna medaglia da legare al collo.

Amare il dottor Taylor non mi rese migliore.

Non diventai più bella, o più buona.

La mia vita era solo un continuo aggrapparsi alla fortuna. Ciglia solitarie da soffiare via, coccinelle trovate per caso, quadrifogli da essiccare tra le pagine di un libro: cercavo i segnali del caso che potessero portare bene al mio amore. Se lo sguardo mi cadeva sull’orologio digitale del comodino, e le cifre erano le stesse per le ore e per i minuti, allora esprimevo un desiderio. Avevo studiato una tecnica speciale affinché l’osso del pollo si spezzasse sempre a mio favore, e mai a quello di Jill. Tutto, tutto doveva servire a sopperire alla mancanza di interesse del dottore nei miei confronti. Se avessi potuto fargli un incantesimo, avrei sacrificato qualunque cosa purché funzionasse, un gatto, un capretto, persino mia madre.

So esattamente quando ho cominciato a sospettare che fosse lui il misterioso fidanzato di mia sorella, anche se era un pensiero che non permettevo mai al mio cervello di formulare a voce alta.

Le persone hanno un odore che le rende uniche, questo l’ho imparato presto. Mamma aveva sempre un profumo persistente di rose, come la crema che si spalmava ogni mattina e ogni sera. Papà non sapeva di niente, a parte le sigarette che qualche volta fumava di nascosto in garage e che fingevamo di non sentirgli addosso perché, ci giurava, «aveva smesso». Jill sapeva di tante cose diverse, un miscuglio che permeava costantemente la nostra stanza: lucidalabbra alla fragola, caramelle alla menta, il dentifricio bianco, rosso e blu che obbligava mamma a comprarle, il pelo rancido del cane dei vicini che si fermava ad accarezzare tornando da scuola, l’inchiostro delle penne colorate, smalto e acetone, calzini sporchi, l’acrilico della divisa da softball.

E poi un giorno ha indossato un odore nuovo.

Mia sorella non amava condividere: quello che era suo, era suo e basta. Si sarebbe tagliata la mano destra piuttosto che obbedire a nostra madre, quando la costringeva a prestarmi abiti e giocattoli. Capitava molto di rado che lo facesse di sua spontanea volontà e di solito c’era un secondo fine, dietro.

Che ci fosse qualcosa di strano, avrei dovuto capirlo subito. Avrei dovuto capirlo non appena mi si era avvicinata con la sua sciarpa preferita in mano, quella di seta, color arcobaleno. Aveva chiuso di scatto il quaderno sul quale stavo facendo i compiti.

«Provatela» mi aveva intimato. I suoi erano sempre ordini.

«Perché?» avevo chiesto di rimando, più stupita che sospettosa.

«Voglio vedere come ti sta.» Aveva un sorriso che tagliava come un rasoio.

La seta sembrava viva, liscia, morbida e quasi tiepida. Me l’ero passata intorno al collo, lenta. Mi faceva pensare a un serpente esotico e pericoloso. C’era quella cantante che Jill ascoltava di nascosto, come si chiamava?, che si era fatta fare delle foto con un pitone albino che la avvolgeva tutta. Per un istante, mi sentii lei. Mia sorella mi si era fatta più vicina. «Stringila» aveva detto. «Copriti bene.» Con gesti rapidi, aveva intrecciato una specie di nodo, che poi mi aveva passato davanti alla bocca, e al naso.

E allora l’avevo sentito.

Un odore a metà strada tra lo studio del dentista e quel che restava di un dopobarba commerciale dopo tante ore di lavoro. Un pizzicore al naso, una pesantezza familiare che mi riempiva le narici. Era quello che gonfiava i miei polmoni minuti ogni volta che entravo nello studio del dottor Taylor. Era la sua scia inconfondibile, la formula precisa che mi indicava che eravamo nel suo territorio, che lui era lì. Lo aspiravo come ossigeno.

E ora impregnava la sciarpa di Jill, fino in fondo a ogni fibra.

Avevo alzato lo sguardo a cercare gli occhi di mia sorella. Dovevo avere un’espressione ridicola, la faccia del tradimento, del dolore tanto intenso che diventa comico. Era questo dunque che progettava Jill? Rubarmi l’unico amore della mia vita, portarmelo via come una cosa da niente, quando lei non doveva fare altro che schioccare le dita per ottenere l’adorazione di chiunque. Il fatto che potesse odiarmi così tanto era un pensiero spaventoso.

Mia sorella aveva fatto finta di niente. Solo, aveva storto la bocca di lato, in una smorfia disgustata. «No, mi sbagliavo. Non ti dona per niente.» Poi aveva sciolto il nodo in un unico movimento e se n’era andata via, la seta stretta nel suo piccolo pugno da dominatrice. C’era, o almeno così mi era sembrato, una scintilla di trionfo nei suoi occhi.

Restava da capire a che cosa fosse dovuta, esattamente. Come aveva fatto mia sorella ad appropriarsi dell’odore del dottor Taylor? Forse, cercavo di rassicurarmi, era bastato lasciare la sciarpa appesa all’attaccapanni dello studio, sotto la pesante giacca di cuoio da motociclista che lui usava sempre, anche in estate. Oppure, e questa era l’ipotesi più dolorosa, si era avvicinata a lui molto, molto di più. Troppo. Che Jill, con la sua schiena perfetta, frequentasse il dottore, anche dopo che aveva smesso di accompagnarmi alle sedute, poteva significare solo una cosa: che fosse lui il misterioso fidanzato.

Il pensiero mi arrivò inaspettato, un uccello che sbatte con forza contro la finestra e lascia sul vetro l’impronta unta delle piume. Lo ricacciai subito indietro, non volevo averci niente a che fare. Rimase sul fondo, però, un’inquietudine pronta a riemergere a tradimento.

Avevo i compiti ancora da finire, per quel giorno me ne scordai.