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«Suvvia, si sforzi.»

«Le ho già detto che non ci riesco.»

«E non le sembra strano?»

«Non posso farci niente.»

Ha sospirato e ha iniziato a stropicciarsi le palpebre. Aveva la barba di un paio di giorni, un foruncolo che gli stava nascendo sulla pelle arrossata del collo, lì dove si era rasato male. Ho represso la tentazione di toccarglielo, di fargli almeno un po’ male, e ho incrociato le braccia.

«Non posso farci niente» ho ripetuto.

Da ore eravamo fermi su una data, una serie casuale di numeri che al laboratorio si ostinavano a chiedermi. E che io, chissà perché, non riuscivo a ricordarmi. Per questo, avevano deciso di mandarmi a parlare direttamente con il capo del progetto, M., l’amico del mio dottore. Ho notato una certa somiglianza. Posso capire come mai, fra tutti i compagni di studio, proprio tra loro due sia nato un legame così forte. L’arroganza, soprattutto, sembra essere il motore delle loro vite. Mi piace il fatto che non mi trattino con condiscendenza. Mi piace tener loro testa. Ho soppesato l’uomo che mi stava davanti, in maniera obiettiva: i capelli che iniziavano a diradarsi sulla cima del cranio, gli occhi scuri all’ingiù dallo sguardo sempre triste. C’era una voglia scura che gli spuntava da dietro l’orecchio: mi sono chiesta se ne avesse altre, nascoste sul corpo, e per un attimo le gambe mi sono diventate deboli e calde.

Lui ha sospirato di nuovo. «Davvero pensa che sia normale dimenticarsi solo quel giorno?»

«Crede che stia mentendo?»

«Non lo so, me lo dica lei.»

Mi sono alzata in piedi all’improvviso, la sedia ha grattato senza pietà il pavimento di formica. «Sono stanca, vorrei andare a casa adesso.»

Si è alzato anche lui, l’espressione ironica. «Come preferisce. Magari ci rifletta ancora su, può essere che le torni in mente qualcosa. Sa, i ricordi sanno essere bizzarri.»

«Ci proverò.»

Ero già uscita nel corridoio, quando mi ha raggiunta. «Aspetti, aspetti. 47400, giusto?»

«Esatto. È il mio numero.»

«La prego di scusarmi. Non era mia intenzione offenderla.»

Eravamo al chiuso, ma ho inforcato comunque gli occhiali da sole. Non volevo che potesse vedermi le pupille.

«Senta, sarò sincero: lei è un caso interessante.» Ha indicato il distributore automatico che ronzava in un angolo. «Un caffè?»

Ho sorriso molto lentamente. «Solo se mi fa compagnia.»

Infilava le monete con un rumore che mi ricordava quello del caricatore di una pistola, e intanto gesticolava. Mi sono accorta che aveva un tic: sbatteva le palpebre due volte di seguito ogni tre secondi. Avrei voluto provare a tenerle ferme, appoggiarci sopra la punta delle dita per sentirle muovere sotto i polpastrelli con una frenesia da ali di farfalla. Non si è accorto di come lo guardavo.

«Io credo che ci sia un motivo, se lei non ricorda solo quella data» ha detto, e intanto girava lo zucchero in senso antiorario. «Deve esserci qualcosa che blocca quel giorno nella sua memoria.»

«Se lo dice lei.»

«Davvero non c’è niente di strano nel suo passato? Un trauma, qualcosa di simile.»

«Non mi pare» ho mentito. Ovviamente, al laboratorio non sanno dell’omicidio di Jill. Per loro, mia sorella è ancora viva.

«Bisognerebbe lavorarci ancora. Scavare più in profondità.»

«Vediamo.»

«Forse dovrebbe andare negli Stati Uniti.»

«Cosa?» Il cuore mi ha fatto un salto in gola.

«Sono in contatto con un collega in Texas. Dirige uno studio più importante del nostro. Hanno fondi governativi, una strumentazione all’avanguardia.» Ha sorriso. Il caffè gli aveva macchiato di giallo i denti. «Penso che saprebbero aiutarla meglio di quanto non possa fare io.»

«Non ho bisogno di aiuto.»

«Intendo dire che capirebbero meglio il suo caso. Non vuole sapere perché non riesce a ricordarsi proprio quel giorno?»

«Non particolarmente.»

Si è guardato intorno, e ha abbassato la voce. Sembrava imbarazzato. «E poi c’è un’altra cosa. Hanno un progetto speciale. Forse le può interessare.»

«Speciale?»

«Sì.» Ha ridacchiato sommessamente. «Pare che cerchino di cancellare i ricordi dolorosi dalle supermemorie. Che ne pensa?»

«È assurdo.»

«Lo so. Francamente, non credo sia possibile, però magari ci riusciranno. E allora perché non provarci? Non le piacerebbe poter dimenticare qualcosa? Qualcosa che le fa male.»

«Ora devo davvero andare» ho detto solo.

«Ci pensi. Posso darle tutti i contatti.»

«Grazie del caffè.»

Sono uscita dal laboratorio e ho trovato la città avvolta da una luce gialla, surreale. C’era un temporale in arrivo, le nuvole hanno ricoperto il cielo come zolfo. Avevo un solletico dentro, come un uovo di serpente, di quelli mollicci e irregolari, che stava provando a schiudersi. Che cosa ci fosse nascosto dentro, era ancora troppo presto per capirlo.