20
È da tempo ormai che non dormo bene, dentro al petto ho un orologio che è fermo sul fuso orario del senso di colpa. Da quando ho cominciato a ricordare, mi capita di svegliarmi la notte avvolta in lenzuola fradice di sudore. Ora che hanno ucciso quella ragazzina, poi, è ancora peggio. Il cuore mi rimbalza a scatti, fa male. Lo sento pulsare in gola come se cercasse di uscirmi dalla gabbia toracica, e un paio di volte, di nuovo, ho persino bagnato il letto. Me la sono fatta addosso come quando ero bambina. Dev’essere una conseguenza dei ricordi che mi assalgono all’improvviso, dell’immedesimarmi nella me stessa di quando avevo dieci anni.
Di giorno sono lucida, e riesco a tenere tutto sotto controllo, o almeno ci provo.
Di notte è impossibile.
Di notte viaggio e torno nel passato. Sogno Jill, ed è orribile.
È come se il mio cervello cercasse di dirmi qualcosa, ma non riesco a capire in che lingua mi stia parlando. Nella scatola cranica mi proietta film osceni, spaventosi, e io li vivo all’infinito, non riesco mai ad arrivare ai titoli di coda. Qualcuno si è addormentato in sala proiezioni. Sono sicura che si tratta di messaggi che dovrei decifrare, hanno a che fare con quanto è successo alla mia memoria e a Jill: è lei che sogno il più delle volte, sogno la notte del suo omicidio, l’uomo che l’ha uccisa ma che non riesco a riconoscere. Immagino che questi incubi siano la chiave di tutto, ma ancora non riesco a capirli, so solo che per adesso mi rendono le notti impossibili.
Ci sono mattine in cui arrivo al lavoro con occhiaie scure e così tanta caffeina in corpo da rendermi tremuli i muscoli sugli zigomi. Passo davanti alla statua mutilata, passo davanti alle porte degli uffici dei colleghi e mi trascino fino alla mia stanza.
«Perché non ti prendi una giornata libera? Sembri esausta» mi chiede S. ogni volta che mi vede. Se ne sta fermo nel corridoio davanti al bollitore, con un nuovo taglio di capelli che spera disperatamente che io noti, la tazza sbeccata con la foto di Einstein che usa sempre per farsi il tè. Ha iniziato a sfoderare una faccia contrita e preoccupata che mi fa venire voglia di picchiarlo. Ogni volta tiro diritto senza fermarmi.
«Ho del lavoro da finire» replico. Il sottinteso è sempre lo stesso: tu invece no?
Al museo ho sparso la voce che ho la febbre da fieno, un’allergia così forte che mi rende perennemente sonnolenta e stanca. Spero che basti a evitare il pettegolezzo, le domande indiscrete.
Nell’ultima settimana ero così disperata per la mancanza di sonno, che ho rubato al mio dottore il suo taccuino per le ricette. Ho aspettato che si fosse addormentato, lui che può, e che avesse cominciato a russare, e poi ho strisciato fino alla borsa di cuoio marrone che abbandona sempre sulla sedia della mia cucina. Mi sono prescritta farmaci per calmare l’ansia, benzodiazepine per lo più, e sonniferi. Altri ancora li ho chiesti al mio medico di base. Adesso ho una scorta di farmaci che di solito inghiottisco tutti insieme, magari con un bicchiere di vino rosso, sperando così di aumentarne l’effetto. Purtroppo, non mi fanno granché, non hanno fermato gli incubi come speravo, ma l’idea di averli mi consola. Almeno adesso riesco a chiudere gli occhi per qualche ora. Mi gusto sulla lingua il sapore zuccherino e amaro di tutte quelle gocce, il loro retrogusto vagamente alcolico. Le sento scendere lentamente mentre mi riscaldano la gola. È piacevole. Ogni volta che le inghiotto, immagino che per una volta mi addormenterò serena, come facevo un tempo.
Di solito, è solo un’illusione.
Sono lontana anni luce dal sonno della mia infanzia, quando mi rannicchiavo sotto le coperte e perdevo conoscenza. Allora, Jill si infilava nel letto accanto a me. Oggi, invece, è il suo fantasma che mi perseguita, e continua a chiedermi perché non l’ho salvata. Continua a chiedermi perché io sono viva e lei invece no.
Ma tu lo sai, sorella. Oh, se lo sai.