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In ogni storia c’è un prima e un dopo. Prima le cose sono fatte in un certo modo e poi arriva qualcosa che le trasforma e dopo non sono più le stesse. È una legge della natura così semplice, eppure così potente. Ogni metamorfosi ha la sua grazia, ogni metamorfosi è una benedizione.

C’è l’aeroporto tutto buio, stiamo partendo di notte, e io improvvisamente scoppio a piangere perché non ho mai volato, ho paura di volare, che cosa succede se voliamo e fuori non si vede il sole? Ho uno zainetto celeste sulla schiena e cerco di togliermelo, ma la cinghia mi si impiglia nel braccio, e resto a dimenarmi a scatti, mi scuoto come se mi stessero mangiando viva le formiche. Sento che gli sconosciuti si fermano a osservarmi, nessuno capisce perché sto piangendo, guardano i miei genitori con riprovazione. Chi sono questi due che fanno piangere una bambina, con che diritto possono dire che è loro se la stanno facendo soffrire?

Mamma si volta verso di me, stasera è più mamma-la-bambina che mai. Si è lavata i capelli prima di uscire, e ha asciugato i ricci a testa in giù, le si sono gonfiati come una nuvola intorno al viso. «Sembro una pecora, vero?» mi ha detto ridendo, li ha scossi tutti e io avrei voluto toccarli per vedere se facevano le scintille.

Si è messa dei jeans che le stanno enormi, li ha stretti in vita con una cintura chiusa fino all’ultimo buco. Non l’ho mai vista vestita così, lei ama le gonne; ogni tanto fa la ruota davanti a mio padre, gira su se stessa con l’orlo che sale a scoprirle le gambe quasi fino alle mutandine, e poi a me e a Jill sussurra, complice: «Ho caldo, prendo aria».

Mi abbraccia forte, mia madre, in ginocchio sul pavimento delle partenze dell’aeroporto di New Orleans, e riesco a sentirle le costole sotto la maglietta. Per la prima volta dopo tanti mesi, profuma di vaniglia. Mi aggiusta la cinghia dello zaino, e dentro al mio orecchio mormora: «Basta, Mia. Ora ci siamo solo noi».

E io smetto all’istante di piangere, perché ha detto le parole magiche: solo noi.

C’è la casa-piscina di Roma, nella quale ho finalmente una stanza tutta per me e però ancora non mi ci sono abituata. A volte mi lancio contro i muri per misurare tutto quello spazio, ho le braccia sempre piene di lividi. La voce di mio padre mi arriva attraverso la porta, bassa e fredda di rabbia trattenuta.

«Non ha senso nemmeno discuterne» dice, e sento un tonfo. Un pugno sul tavolo, qualcosa che è caduto, chissà. La voce di mamma invece non la distinguo, parla troppo in fretta e troppo sottovoce. Forse piange.

«Ascoltami» dice lui. Una pausa, poi, più dolce: «Ascoltami, zucchero, ti prego». Lo immagino che le prende le mani, le stritola in una morsa d’amore. Le dice che è inutile, che tanto la verità non la sapranno mai, le indagini sono a un punto morto. Dobbiamo andare avanti, e per farlo dimenticare è la cosa migliore. «Vuoi che Mia abbia una vita normale o vuoi che diventi quella a cui hanno ucciso la sorella?»

A questo punto mamma piange davvero, stavolta sento i suoi singhiozzi e poi papà che la calma, papà che la culla. La starà abbracciando, dondolandola sulla poltrona grigia che hanno comperato pochi giorni fa a Porta Portese, con mamma che contrattava sul prezzo con una luce selvaggia negli occhi.

«Da adesso non ne parliamo più. Mai più. È meglio così, fidati di me» dice mio padre. E a me si drizzano i peli sulle braccia, cerco di pensare a mia sorella, ma non mi ricordo la sua faccia, per un attimo non mi viene in mente nemmeno il suo nome.

C’è la casa di questa nuova compagna della scuola americana, G. Sono arrivata a Roma da poco e mi ha invitata per una merenda, un gesto che poi non si ripeterà più. È una casa tutta tappezzerie e poltrone dorate, non ho mai visto niente di simile e cammino in punta di piedi. La sua camera è il doppio della mia, piena di giocattoli sul pavimento e sulla scrivania, c’è il bambolotto uguale a quello che i miei non mi hanno mai voluto regalare, c’è persino una coroncina da principessa che penzola da un comodino. Siamo sedute per terra, nel poco spazio a disposizione, e lei mi sta raccontando i pettegolezzi della scuola, mi spiega di chi posso essere amica e a chi posso dare confidenza. A un paio di ragazze, dice, non devo nemmeno rivolgere la parola. Ha dei boccoli biondi da bambola e uno spazio tra gli incisivi nel quale ogni tanto infila la lingua. La trovo carina, e di nascosto cerco di imitare il modo in cui arriccia il naso quando pensa di aver detto qualcosa di divertente.

All’improvviso la porta si apre ed entra un bambino. Cammina traballando, non avrà neanche due anni. Ha i capelli radi e fini fini, e penso che anche io da piccola li avevo così. Il pannolone umido gli è sceso quasi alle ginocchia, ma lui sorride lo stesso e fa dei versi, sembra contento di vederci: si muove deciso in direzione di un orso di peluche buttato in un angolo. La mia nuova amica si alza in piedi di scatto, il viso contratto, e gli dà uno spintone. Il bambino atterra di schianto sul pannolone, solleva il faccino stupito e mi fissa. Respira con la bocca, non riesce nemmeno a piangere.

«Che palle, mio fratello» dice G. Si gira verso di me, sospettosa. «Tu hai fratelli? Sorelle?»

«No» rispondo. «Sono figlia unica.» E intanto sento le guance che mi si fanno rosse, come se mi avesse chiesto se ho mai baciato un ragazzo, se mi sono già venute le mie cose.

Adesso so che dimenticarmi di Jill è stato un processo graduale e involontario, eppure anche qualcosa che ho scelto in un momento. Ho preso una decisione, irrevocabile e improvvisa come il colpo di pistola dello starter: da adesso in poi, ci sono solo io.