UN TORMENTO PROGETTATO PER DURARE

di Giorgio Cusatelli

 

Ernst Jünger, lo scrittore più inquietante tra quelli che in Germania non si opposero all’avvento di Hitler con la scelta dell’esilio (fu la cosiddetta «emigrazione interna»), pubblicò queste «Api di vetro» (Gläserne Bienen) in un momento difficile, nel 1957, quando si era al culmine dell’ostracismo comminatogli, crollato il nazismo, per l’ambiguità politica che taluni suoi atteggiamenti degli anni Trenta sembravano implicare.

Dalla prospettiva odierna, però, gli atti di quel tormentoso processo, come testimoniano apporti critici non certo sospetti,11 appaiono contraddittori: da un lato, si deve riconoscere che l’appello combattentistico delle giovanili «Tempeste d’acciaio» (1920) venne forzato sino al più brutale revanscismo dalla propaganda del regime; dall’altro, rimane dubbia la portata dell’adesione di Jünger all’iniziativa anti-hitleriana sfociata nell’attentato di Stauffenberg (20/7/1944). Di modo che, non per prescrizione o per consenso all’attuale deflessione delle ideologie costituite, ma per un’oggettiva carenza di documentazione, s’impone ormai una sorta di «sospensione del giudizio».

Ad una posizione del genere, d’altronde, opportunamente cauta e perciò provvisoria, invogliano la quantità e la qualità dei testi succeduti, quali tappe d’una stagione senile operosissima, a quello che consideriamo qui; e soprattutto invoglia la circostanza del graduale attenuarsi, in essi, degli spunti politici o politicizzabili, e del corrispondente rafforzarsi, in un alone d’isolamento e quasi d’ascetismo, della più tenace sperimentazione formale.

A Jünger, «anarca» anche in materia di poetiche, non s’adattano facilmente gli schemi storico-letterari: le sue letture, vaste e versatili, si direbbero occasionali – sin dal principio, in trincea, quando amava Sterne, Karl May e l’Ariosto, – e non compongono, almeno apparentemente, un sistema organico; le sue prove di narratore, di diarista, di saggista, non risultano ascrivibili a una linea determinata (costeggiano, di volta in volta, il decadentismo, l’espressionismo, la Neue Sachlichkeit), né possono venire interpretate come contributi a singoli generi, più o meno tradizionali; persino la radice autobiografica, pure collegata a un invincibile vitalismo, stenta, in parecchi casi, a manifestarsi, con la conseguenza che il dato biografico – l’adolescenza ribelle; la lunga appartenenza ai ranghi militari; l’impegno di studioso, estraneo a ogni struttura accademica, – perde rilievo agli occhi di chi lo indaghi.

L’insieme, tuttavia, quale si presenta in una prosa di pregio costantemente altissimo, rivela una singolare compattezza, un equilibrio ben calcolato, una compattezza molto rara nel quadro del ’900 tedesco, dove abbondano, all’opposto, episodi di scompenso e dissipazione.

Di ciò offre testimonianza, per esempio, la constatazione che, quando si procede ad accertare, nei risultati e nella poetica, lo specifico carattere narrativo di un testo, l’impresa non è realizzabile senza che tornino in gioco, con maggiore o minore intensità ma sempre soggetti a un impulso unificante, tutti gli apporti d’altra natura e derivazione. Questo è, precisamente, l’esito di un approccio alle «Api di vetro» che non voglia limitarsi alle osservazioni iniziali, ma ambisca a collocare il romanzo, all’interno della produzione di Jünger, nel ruolo importante che ad esso compete.

Rapportando il nostro libro alle scritture narrative coincidenti con i poli del percorso creativo jüngeriano, possiamo riconoscere, per quanto concerne la rappresentazione dell’oggetto, che esso appartiene a un grado identificabile come mediano, e riesce così a conciliare la plausibilità del plot e dell’ambientazione con le suggestioni di un immaginario aggiornatissimo.

Dopo la prima guerra, subentrando ai resoconti «in presa diretta» di quell’esperienza (quattro titoli, dal 1920 al 1925), anche i «Ludi africani» (1936) avevano ricalcato un modulo autobiografico (diciottenne, Jünger s’arruolò nella Legione Straniera e prestò servizio in Algeria); dopo la seconda, due sofisticati romanzi utopici, «Heliopolis» (1949) e «Eumeswil» (1977), avrebbero invece celebrato un definitivo distacco dallo spazio-tempo reale.

La divaricazione colpisce, perché introduce alla tecnica messa in opera per «Le api di vetro» (e in qualche modo anticipata, nel ’39, dal libro più noto di Jünger, «Sülle scogliere di marmo»). Qui, proprio sulla linea di confine, il fondamento storico appare salvaguardato con scrupolo, al livello sociologico (la situazione del reduce) e a quello psicologico (gli effetti dell’emarginazione), soltanto al fine, però, di poterlo compromettere mediante l’irruzione del dato immaginario, o addirittura allucinatorio, rappresentato dagli automatismi. Il romanzo, di conseguenza, prende sede in entrambe le dimensioni, derivando la sua carica dalla possibilità di condizionarle a vicenda: alla pratica della «vita violenta», partecipata in modo volontario e insieme coatto, s’alterna l’unica teorizzazione accessibile, quella, seppure parziale, che è consentita, nel distacco, dalla più puntigliosa osservazione; e scompare finalmente quello spirito pedagogico, frutto eccessivo di principî troppo germanici (esaltati, anzichè attenuati, dalla laicità), che appesantisce tante altre pagine di Jünger.

La medietas, applicata in senso attivo nel momento di un’ardua transizione – si badi alla data del libro, – si rivela, insomma, fattore di mediazione, quindi di sintesi del disperso, di semplificazione del complesso. Assimilati tutti i motivi e tutte le soluzioni, Jünger apre uno spiraglio nella sua ermetica armatura di lanzichenecco e di robot.

Lo scrittore, come s’è osservato, non sopporta schemi. Così, se prendiamo ad indagare, nel flusso indifferenziato di questa prosa, gli accostamenti e gli scarti, gli abbandoni e le riprese – non avvicendantisi «a macchia di leopardo», bensì interni a un discorso omogeneo e tali che si propongono solo come molecole dello stile, – ci imbattiamo, ancora una volta (era la cifra dell’esordio), in una componente diaristica: il romanzo si manifesta come resoconto di un episodio della vita del protagonista, che costui sviluppa in prima persona nella rigorosa successione cronologica d’una serie di scene.

È su tale componente che viene ad innestarsi il contributo autobiografico – al pari del suo Richard, Jünger aveva conosciuto l’educazione militare, ne aveva visto crollare i principi, aveva dovuto affrontare il trauma del reduce, – il quale esprime, se lo si confronta con i testi specifici del diarista (oltre alle «Tempeste d’acciaio», le Strahlungen, o «Irradiazioni», sugli eventi della guerra nazista, ben più sottili e perforanti), un’esperienza tutta interiore d’umiliazione e quasi d’ottundimento, sostenuta dalla consapevolezza dell’impotenza e del degrado.

Ma è proprio l’opzione fondamentale del mezzo narrativo a correggere il solipsismo di quei testi e a permettere che occupi con sicurezza il cuore del libro, nell’ampiezza di un dubbio coinvolgente una generazione intera, il tema del disgiungersi del passato dal presente. L’uno che ancora devasta, come una piaga, la memoria del maggiore Richard, l’ex ufficiale di cavalleria costretto dalla miseria a vergognosi compromessi («Avevamo sempre servito a cavallo. Ora questi gloriosi animali dovevano spegnersi. Scomparivano dalle strade e dai campi, dai paesi e dalle città, e da molto tempo non si erano più veduti in una carica. Ovunque venivano sostituiti da automi. La loro sostituzione corrispondeva a un mutamento negli uomini, che diventavano più meccanici, più calcolabili, tanto che spesso non si aveva più nemmeno la sensazione di trovarsi tra uomini»). L’altro che appare come terra di conquista al grottesco araldo della classe emergente, Zapparoni, il capitalista dai tratti hoffmanniani di Coppelius, impegnato a sedurre le masse con il miraggio dell’avanzamento tecnologico («La tecnica in lui tendeva semplicemente verso le cose piacevoli: il vecchio desiderio dei maghi di mutare il mondo in un attimo per mezzo del pensiero sembrava quasi avverarsi»).

Con la proposta di questa dicotomia il campo del romanzo registra l’insorgere della componente saggistica, folta di suggestioni per un autore ripetutamente esercitatosi nel genere inventato dai maestri dell’intelligenza moderna (ai momenti cruciali, quando gli serviva una cattedra gestita in interiori homine, Jünger replicò sempre con un saggio: nel ’32, alla vigilia dell’avvento di Hitler, con «L’operaio»; nel ’45, appena disfatto il disegno totalitario, con «La pace»). Poiché come cardine del sistema antisistemico dell’inflessibile nichilista si pone, però, la negazione di qualsiasi coagulo ideologico, non nasce qui, diversamente che in Musil o Broch, la tentazione del romanzo-saggio: anzi, la disposizione al narrare dilaga con ancor maggiore intensità, ed è proprio essa, rifiutando la funzione consolatoria convenzionale, ad avvertirci, nelle riflessioni mai soltanto psicologiche del protagonista, che la divaricazione passato/presente, lungi dal suggerire nostalgia per ciò che il tempo ha travolto, sancisce il primato di questa divinité amorfa cui tutti i personaggi – tutti gli uomini, nella proiezione esistenziale di Jünger, – devono offrire in sacrificio gli estremi residui d’istintualità. Nessun rimpianto, nessuna illusione, ma la nitida percezione dell’orologio che ciascuno porta dentro il petto, caricato in anticipo sino all’istante della morte: ecco, per usare metafore a lui familiari, il messaggio d’uno scrittore sin dalle origini proteso verso un’indistinta religiosità (nel «Cuore avventuroso», 1929, s’era chiesto: «Dove sono quei conventi dei santi in cui l’anima, nel fondo della sua notte più buia, celebrava i propri splendidi trionfi e conquistava lottando il tesoro della grazia? Dove le colonne degli stiliti, da vedersi come monumenti di una superiore socialità?»).

Tale messaggio, però, sarebbe deviante chiamarlo pessimismo o nichilismo, sulla base del forte interesse di Jünger per Schopenhauer e per Nietzsche. Per due ragioni almeno. La prima è che esso viene codificato, su basi sado-masochistiche, da un irrefrenabile vitalismo – il processo è vistoso nelle «Tempeste d’acciaio», orgia di distruzione e autodistruzione, – di modo che dall’annichilimento affiora una speranza di sopravvivenza cosmica (l’ultimo Jünger aprirà varchi verso l’esoterismo). La seconda, più importante, è che il tempo medesimo, inteso come storia individuale e come Storia assoluta, viene superato dalla proposta d’una metastoria che, distruggendo insieme al passato anche l’angoscia del futuro, stabilisca un nuovo presente, immobile e definitivo.

Questo è ciò che Jünger pratica con più tenacia, nel profondo della ricerca d’uno stile che sia tutt’uno con le forze impossibili della natura; uno stile che prenda dall’entomologo, dal botanico, dal geologo – tre mestieri dello scrittore, in climax discendente verso la matrice ctonia, – la corazza del coleottero, il flabello dell’orchidea, il minerale opaco e scabro, la drupa («Potremmo definire il cristallo un essere capace di formare una superficie interiore, e, nello stesso tempo, di esternare la propria profondità», troviamo nel «Cuore avventuroso»), e li converta in parole definitive (nella stessa pagina: «L’uso delle parole trae forza dalla natura stessa del linguaggio, che possiede a sua volta profondità e superficie»),

Questo, appunto, è ciò che viene espresso, nel nostro romanzo, dall’immagine delle api di vetro. Contraffazione di insetti dediti al lavoro collettivo e insieme connessi all’idillio (il rococò Jünger…), quindi per eccellenza «naturali», esse, pura materia eterodiretta, rendono finalmente tangibile una sfera atemporale, coincidendo paradossalmente con una visione ottimistica («Ciò che nelle officine di Zapparoni veniva fabbricato, costruito e allestito in serie, facilitava parecchio la vita»).

A questo punto, come per un colpo di scena, la descrizione comincia a trasmettere straniamento e segreta minaccia («Erano di molto più grosse di un’ape e persino d’un calabrone. Avevano press’a poco la circonferenza d’una noce ancora nel mallo. Le ali non erano mobili come negli uccelli o negli insetti, ma giravano intorno al corpo in un orlo rigido, piuttosto come un piano destinato a stabilire l’equilibrio o a sollevare l’automa»). E qui si arresta, per così dire, il movimento unidirezionale del romanzo, e all’ottimismo s’affianca il dubbio, portatore di un’ambiguità che ci starà dietro sino alla fine («Tutti quegli automi di lusso potevano non soltanto contribuire ad abbellire, ma anche ad abbreviare la vita, senza mutare molto della loro costruzione. In comune avevano soltanto il ripugnante sistema dell’insidia, il vile trionfo dei cervelli calcolatori sul coraggio vitale»).

Distruggendo l’insetto-osservatorio che non gli dà tregua, il protagonista annienta il conforto di un potere magico, per quanto fallace? Oppure rientra nella realtà e trova riparo nel rassegnarsi alla sua emarginazione? Non si creda che Jünger opti per questa seconda soluzione, come sembrerebbe dalla chiusa, che si mostra sentimentale per provocazione. Ciò che egli mette davanti al lettore, è semplicemente l’incognita della scelta. Il romanzo potrebbe venire riscritto nello schema opposto, e se è vero, come impariamo nelle ultime righe, che «nella tecnica molto è illusione», può anche essere vero – dipende da noi – che d’illusione soltanto si nutra la vivibilità della vita. Jünger, che attraversò tante carneficine, che ha frequentato Poe e persino Lovecraft, offre, nell’una e nell’altra attesa, un tormento progettato per durare.