CAPITOLO XV
APPENA avevo conosciuto la scoperta di Zapparoni, subito avevo pensato ai miglioramenti. Il che è proprio del nostro tempo. Quando poi apparvero le figure opache, cominciai a sentirmi inquieto, perplesso, a irritarmene; anche questo è un segno del tempo, dove la categoria d’un uomo è determinata dalla sua padronanza della tecnica, e la tecnica è diventata despota. È mortificante non capire e doversi abbandonare allo stupore come un ottentotto davanti al quale si accende un fiammifero o al cui orecchio si accosta un orologio. Veramente simili ottentotti non esistono più. Già, sin da bambino, viene abituato a ragionare.
Ai tempi in cui andavo a scuola e anche quando servivo sotto Monteron, tutto era ancora un po’ diverso. Sebbene anche noi si venisse già addestrati alla conquista metodica, ci si preoccupava ancora un poco di ciò che accade nell’interno dell’uomo. Con questo non alludo, si capisce, alla psicologia. Da quando l’uomo di Manchester mi ebbe disarcionato, sapevo che cosa ci voleva, e ripresi il tempo perduto. Mi aveva insegnato a pensare, mi aveva messo in moto.
Che cosa potevano significare i nuovi apparecchi che si mescolavano agli sciami delle api? La questione non mutava: appena si era capita una nuova tecnica già se ne ramificava e staccava l’antitesi. Nelle correnti delle api si erano inseriti individui variopinti come chicchi di porcellana in una colonna di vetro. Erano anche più rapidi, come ad esempio in una colonna di automezzi le vetture dell’ambulanza, dei pompieri, della polizia. Altri si libravano in alto, al di sopra del traffico. Dovevano avere una circonferenza maggiore; per determinarla mi mancava un punto di riferimento. Mi interessavano soprattutto gli apparecchi grigi, che volavano avanti e indietro davanti agli stabilimenti e, adesso, molto più vicino a me. Uno di loro pareva fatto di corno opaco o di quarzo fumoso. Girava in cerchio pesantemente a una moderata altezza intorno al boschetto, in modo da sfiorare quasi i gigli tigrati; ogni tanto restava librato immobile nell’aria. Quando i carri armati si dispongono sopra un terreno, gli osservatori si librano su di loro in modo simile. Forse era una cellula di sorveglianza o di comando. Tenni specialmente d’occhio questo apparecchio grigiofumo e cercai di comprendere se ai suoi movimenti corrispondevano o seguivano mutamenti nella massa degli automi.
Sarebbe stato difficile calcolarne le dimensioni, erano oggetti fuori dell’esperienza solita e per i quali mancava una norma. Senza esperienza non esiste dimensione. Se vedo un cavaliere, un elefante, un autobus, non importa a quale distanza, ne conosco le dimensioni. Qui invece i sensi si confondevano.
In tali casi di solito ricorriamo all’esperienza, ai raffronti. Cercai, dunque, quando il grigiofumo si muoveva nel mio campo di visione, di cogliere nello stesso momento un oggetto conosciuto che me ne desse le dimensioni. Non fu difficile; da alcuni minuti infatti il grigiofumo si librava tra me e il più vicino fosso della palude. Questi minuti, mentre io, con gli occhi fissi su lui, lentamente spostavo il capo, ebbero un effetto specialmente soporifero. Non sapevo dire se i mutamenti che credevo di riconoscere sulla superficie dell’automa fossero reali o no. Lo vedevo trascolorare come per segnali ottici, sbiadiva e poi bruscamente s’illuminava di color di sangue. A poco a poco si fecero visibili due escrescenze nere, sporgenti come corna di lumache.
Intanto non dimenticavo di osservarne le dimensioni, quando il grigiofumo invertì il movimento del suo cammino e per la durata d’un secondo si fermò sopra una pozza della palude. Gli sciami di automi se n’erano andati o non li vedevo più, perché ero rimasto incantato? Comunque il giardino era perfettamente silenzioso e senza ombre, come accade nei sogni.
«Una scheggia di quarzo, della grandezza di un uovo di anatra.» Arrivai a questa conclusione, confrontando il grigiofumo col fiore del giunco, che egli quasi sfiorò. I fiori del giunco li conoscevo bene sin da bambino; allora li chiamavamo «puliscicilindri» e ci eravamo rovinati il vestito nell’acquitrino tentando di coglierli. Bisognava aspettare che l’acqua gelasse, ma anche allora l’avvicinarsi era pericoloso, perché rasente ai giunchi il ghiaccio era fragile e crivellato dai buchi delle anatre.
Un perfetto termine di paragone era la zanzara, che ornava la foglia della drosera come incisa in un rubino. Anche la drosera era una mia antica conoscenza. L’avevamo presa con le radici durante le nostre incursioni nelle torbiere per trapiantarla in un terrario. I botanici la chiamano «pianta carnivora»: era stata questa barbarica esagerazione che ci aveva fatto desiderare la delicata pianticella. Quando il grigiofumo, che ora si librava più in basso, sfiorando quasi l’orlo della pozza nella palude, entrava nel mio raggio visivo, potevo notare che, in verità, paragonato alle api, egli era di considerevole grandezza.
Nell’osservazione tesa e monotona si nasconde il pericolo delle allucinazioni, come sanno tutti quelli che viaggiano nella neve o sulla sabbia o hanno percorso le strade interminabili e diritte come una fettuccia. Cominciamo a sognare; e le immagini prendono il sopravvento.
«La drosera, dunque, è una pianta carnivora, un’erba cannibalesca.»
Perché mi sarà venuto questo pensiero? Era come se avessi veduto le foglie rosse frangiate con le ventose appiccicaticce immensamente ingrandite. Un inserviente vi gettava da mangiare.
Mi strofinai gli occhi. Una figura di sogno mi aveva ingannato in questo giardino, dove le cose minuscole diventavano grandi. Però nel medesimo tempo sentii nel mio intimo un segnale stridulo, come il campanello d’una vettura che si avvicinasse.
Dovevo aver veduto qualcosa di illecito, di vergognoso, che mi aveva spaventato.
Questo era un luogo nefasto. Pieno d’una grande costernazione balzai in piedi, per la prima volta da quando mi ero seduto, e puntai il binocolo sulla pozza della palude. Il grigiofumo si era avvicinato di nuovo; non era più librato nell’aria e mi accerchiava con le antenne sporgenti. Non badai a lui, avvinto dal quadro sul quale egli aveva guidato il mio sguardo come un cane da punta sulle pernici.
La drosera era piccola come prima. Una zanzara era già un buon pasto per lei. Però accanto a lei, nell’acqua galleggiava un osceno oggetto rosso. Lo esaminai attentamente con il binocolo. Oramai ero bene sveglio; non poteva essere un’illusione.
La pozza nella palude era circondata da giunchi, in uno spazio aperto vidi lo stagno bruno e ricco di torbe. Foglie di piante acquatiche vi formavano sopra un mosaico. L’osceno oggetto rosso stava sopra una di queste foglie, vi spiccava nettamente. Lo esaminai ancora, non poteva sussistere alcun dubbio: era un orecchio umano.
Qui non era possibile nessun errore: era un orecchio mozzato. E non era nemmeno da porre in forse ch’io non fossi in possesso delle mie facoltà, del mio pieno giudizio. Non avevo bevuto vino e nemmeno fumato una sigaretta. Da molto tempo, già in conseguenza delle mie tasche vuote, ero vissuto nel modo più sobrio. Del resto non sono di quelli come Caretti che improvvisamente diventano allucinati.
Cominciai a scrutare la pozza nella palude sistematicamente e con raccapriccio crescente: era seminata di orecchie! Distinguevo orecchie grandi e piccole, delicate e grossolane, e tutte recise da un taglio netto. Alcune giacevano sulle foglie delle piante acquatiche come il primo orecchio, che avevo scoperto inseguendo il grigiofumo. Altre erano per metà coperte dalle foglie, e altre ancora luccicavano nell’acquitrino bruno.
A questo spettacolo mi assalì una ondata di nausea come accade a un viandante, il quale camminando lungo la spiaggia s’imbatte in un fuoco di cannibali. Riconobbi la provocazione, la svergognata sfida che includeva. Conduceva a una realtà sempre più bassa. Era come se l’attività automatica, che un momento prima mi aveva ancora tenuto nel suo incanto, fosse scomparsa; non la notavo più. Mi parve possibile che fosse stata un miraggio.
Nel medesimo tempo fui sfiorato da un’aura glaciale, la vicinanza del pericolo. Sentii le ginocchia che mi si piegavano e mi lasciai ricadere nella poltrona. Forse vi si era seduto il mio predecessore prima di scomparire? Forse una di quelle orecchie gli era appartenuta? Sentii una punta di fuoco alla radice dei capelli. Ormai non era più questione di accettare o rifiutare un posto. Oramai era in gioco la testa, e se uscivo sano e salvo da quel giardino, avrei potuto parlare di fortuna.
Sul caso bisognava riflettere.