CAPITOLO II

MI tornava alla mente il tempo in cui eravamo alla scuola di guerra; molto tempo indietro. Twinnings sedeva accanto a me. Già allora aveva un poco il carattere del mediatore e andava d’accordo con tutti. Erano stati tempi duri; non ci trattavano coi guanti. Il nostro istruttore si chiamava Monteron; davanti a lui ci si sentiva sempre in grande soggezione.

Il lunedì era un giorno specialmente brutto; giorno della resa dei conti, e del giudizio. Alle sei si era già nel maneggio, con la testa pesante. Mi rammento che spesso avrei avuto piacere di cadere, per poter andare in infermeria, ma finché le ossa erano sane, d’infermeria non se ne parlava.

Lì non era come a casa, una piccola febbre non valeva nulla. Monteron riteneva le cadute da cavallo ottime per la salute, utili all’allenamento e per insegnarci a tenere il ginocchio nella posizione esatta.

La seconda ora era dedicata alla cassa di sabbia,1 ma raramente ci si arrivava. Di regola Monteron, era maggiore, entrava come un arcangelo dal cipiglio temporalesco. Naturalmente c’è anche oggi della gente davanti alla quale si ha paura, ma non esiste più un’autorità come quella. Oggi, si ha semplicemente paura, allora si aveva anche la cattiva coscienza.

La scuola di guerra era situata nelle vicinanze della capitale, e chi non si era visto annullare il permesso e non era agli arresti vi andava con la ferrovia periferica o col tram a cavalli o in vettura. Altri andavano a cavallo lasciando la cavalcatura dai parenti, perché c’erano allora ancora molte stalle nella città. Eravamo tutti magnificamente in forma, avevamo anche danaro in tasca, infatti in una piazza d’armi non si poteva spendere nulla. Perciò non c’era momento più bello di quello in cui si vedeva aprire la porta del campo.

La mattina del lunedì era tutt’altra cosa. Quando Monteron entrava nel suo ufficio, vi era già ad aspettarlo un pacchetto di lettere spiacevoli, denunce e rapporti. Ai quali si aggiungeva inevitabilmente il rapporto dell’ufficiale di picchetto su due o tre di noi che non erano entrati in orario, e su un quarto che non era ancora tornato. Poi c’erano le inezie: uno era stato richiamato all’ordine per avere fumato davanti al corpo di guardia del castello, e un altro aveva salutato il comandante della città con piglio poco militaresco. Per lo più non mancava nemmeno il pezzo forte. Due avevano dato scandalo in un bar, un altro si era ribellato alla ronda che l’aveva fermato, mettendo mano al pugnale. Erano ancora trattenuti e bisognava mandare a ritirarli. Due fratelli, partiti in permesso per un funerale, avevano perso al gioco tutto il loro danaro a Homburg.

Ogni sabato, all’appello, Monteron scrutava le file. Dopo essersi accertato anche una volta che nessuno indossava una «divisa di fantasia», così egli definiva le più leggere infrazioni, ci congedava con due parole. Ci ammoniva contro le tentazioni. E ogni volta noi si rompeva le file con i migliori propositi e la certezza che noialtri in quelle tentazioni non saremmo caduti.

Però la città era stregata, era un giardino di perdizione. Faceva orrore vedere con quale astuzia tendeva le reti. Un giorno di permesso si divideva in due metà, delimitate abbastanza esattamente dal pasto serale, una metà chiara e una metà oscura. Faceva pensare a certe illustrazioni, dove si vedeva rappresentato da un lato il ragazzo buono e dall’altro il cattivo; soltanto con la differenza, che qui i due ragazzi erano la medesima persona. Nel pomeriggio si visitavano i parenti, ci sedevamo alla luce del sole davanti ai caffè o si bighellonava nel Tiergarten. Qualcuno poteva essere visto a un concerto o addirittura a una conferenza; ritratto dell’allievo come lo sognava Monteron, fresco, beneducato e come appena uscito dal guscio. Era un vero piacere.

Poi veniva la sera con i suoi appuntamenti. Ci si incontrava con l’amica, ci si radunava in gruppi. Si cominciava a bere; l’allegria aumentava. Poi si sciamava per la città per incontrarsi di nuovo verso la mezzanotte, da Bols o al Buffet inglese.

Così ci si ritrovava in luoghi sempre più loschi o addirittura vietati. Il Caffè Viennese era frequentato dalle dame del demi-monde, e vi si litigava facilmente con camerieri insolenti. Nei grandi «palazzi della birra» ci si imbatteva in studenti vogliosi di far baccano. In fine, rimanevano aperti pochi posti, come la Lampada Eterna e le sale d’aspetto delle stazioni. Là prevalevano gli ubriachi. E si arrivava alle chiassate dove non c’era da mietere nessun alloro. Il comando conosceva questi luoghi, e non a caso le sue ronde capitavano sempre nel momento in cui ci si trovava coinvolti in qualche rissa. Nella mischia si vedeva apparire la punta degli elmi, e si gridava: «Si salvi chi può». Spesso era troppo tardi. Bisognava seguire la ronda, e il capo si rallegrava di avere di nuovo preso in castagna un allievo della scuola di guerra.

I rapporti, Monteron li trovava il lunedì sul suo tavolo. Arrivavano col primo treno o venivano trasmessi telefonicamente. Monteron era di quei superiori che la mattina sono particolarmente di cattivo umore. Il sangue gli saliva facilmente alla testa. Allora si sbottonava il colletto della divisa. Era un brutto segno. Lo si sentiva borbottare: «Incredibile dove si cacciano».

Anche a noi pareva incredibile. Non c’è differenza maggiore di quella tra una testa indolenzita e pesante al mattino e la sua immagine impazzita della sera precedente. Eppure era una sola unica testa. I luoghi dove eravamo stati, quanto si era detto o addirittura fatto, tutto sembrava si riferisse ad altri. Non poteva e non doveva riguardare noi.

Nondimeno, mentre l’insegnante di equitazione ci faceva manovrare nel maneggio, un oscuro presentimento ci avvertiva che qualcosa non andava bene. Quando si saltano gli ostacoli col filetto annodato e le braccia strette alle anche, bisogna avere il cervello pronto. Eppure ci accadeva di galoppare come in sogno, con la mente assorta in quell’oscuro enigma, che era per noi la notte precedente.

Lo risolveva Monteron davanti alla cassa di sabbia in un modo che superava tutti i nostri timori. Avvenimenti, che ci erano rimasti nella memoria frammentari e velati, vi apparivano sotto una luce penetrante in un insieme sommamente sgradevole. Twinnings, il quale già allora aveva opinioni giuste, disse una volta che era davvero indecente permettere ai frigidi sottufficiali di dare la caccia agli allievi in libera uscita; bisognava farli incontrare in condizioni eguali.

Comunque fosse, difficilmente l’inizio della settimana passava senza temporali. Monteron poteva ricorrere a tutta l’eloquenza dell’autorità; arte oggi perduta. Sapeva risvegliare l’autentica consapevolezza del male fatto. Non avevamo soltanto commesso l’una o l’altra mancanza, ma scagliata la scure alla radice dello Stato, messo in pericolo la monarchia. Del resto, in parte aveva ragione; tutti quanti facevano quel che volevano, senza provocare scalpore, perché la libertà era grande e universale; ma se un allievo della scuola di guerra si rendeva colpevole della più leggera mancanza, allora il mondo, l’opinione pubblica gli si gettavano sopra unanimi. Era già un segno precursore dei grandi mutamenti, che avvennero poco tempo dopo. Probabilmente Monteron li prevedeva. Ma noi eravamo semplicemente incoscienti.

Adesso, volgendomi indietro, mi sembra che quelle procedure penali fossero per lo più regolate da un’indulgenza maggiore di quella che ci si attendeva. Si temeva il vecchio. Se dopo gli esercizi al maneggio ci si affrettava a cambiarci, il decano della camerata ci ammoniva: «Ne vedrete delle belle. Il vecchio si è già alzato il bavero», era peggio allora di quando più tardi ci avrebbero detto: «Preparate tutto».

In fondo il vecchio aveva un cuore d’oro. E in fondo tutti lo sapevano, questo spiegava perché si aveva paura di lui. Se diceva: «Meglio sorvegliare un sacco di pulci che un corso di allievi della scuola di guerra», oppure: «Quando il re mi darà finalmente il pane della vecchiaia, me lo sarò lautamente guadagnato», aveva ragione; infatti il compito non era facile, per lui. Ci sono superiori che godono quando qualcuno si mette nei guai, perché allora possono dimostrare il proprio potere. Monteron ci soffriva. E siccome lo sapevamo, poteva accadere che uno avendo fatto qualche passo falso, andasse da lui la sera e glielo confessasse. Quando Gronau perse tutto quel danaro al gioco, il vecchio andò la notte tardi in città per mettere le cose a posto. Però era già troppo tardi quando ne tornò il giorno dopo a mezzogiorno.

Bene, bene, voleva temprarci. Ma non ci feriva nell’intimo. La mattina del lunedì di solito grandinava: arresti, sospensione di permessi, servizio alla stalla, ordine di presentarsi in divisa di fatica. Ma a mezzogiorno il tempo era già migliorato; e noi ci eravamo dimostrati molto zelanti nel servizio.

Durante il nostro corso capitarono due o tre casi che presero tutt’altra piega. Casi a cui non si può rimediare con gli arresti. Eppure era straordinario quante cose il vecchio sapesse sistemare con gli arresti. Quei casi che ho in mente, non provocarono temporali, ma piuttosto lo stato d’animo di quando è accaduto qualcosa di cui non è lecito parlare, di cui si può soltanto bisbigliare; un andirivieni, un mistero dietro porte chiuse, e poi l’interessato scompariva. Non si faceva più quel nome, o se una volta lo si pronunciava, per una svista, tutti fingevano di non avere sentito.

In simili giornate il vecchio, che altrimenti era d’una attenzione inesorabile, poteva essere distratto, perso nei suoi pensieri. Poteva durante la lezione interrompersi a metà di un periodo e fissare la parete. Allora si sentivano frasi d’un monologo, che gli affioravano involontariamente alle labbra, come: «Potrei giurare, che se accade una infamia, c’è una donna sotto».

Queste parole mi tornarono alla memoria, mentre Twinnings attendeva la mia risposta. Naturalmente il riferimento era molto vago, e certo Monteron pronunciando quella frase non avrebbe mai pensato a una donna come Teresa. Però è certo che un uomo fa per una donna cose che non farebbe mai per se stesso.

Una di queste cose era certamente l’incarico che mi offriva Zapparoni. Non sapevo dire il perché; ma di fronte alle cose sospette si desta un presentimento, che raramente inganna. Infatti c’è una differenza, tra vegliare sui segreti di Stato e su quelli d’un privato, anche ai tempi nostri, in cui la maggior parte degli Stati non sanno più a quale santo votarsi, almeno gli Stati che si rispettano ancora. Un posto come quello offerto da Zapparoni conduceva presto o tardi a un incidente automobilistico. Poi durante l’indagine si trovano dai venti ai trenta spari in fondo alla vettura. Non è un caso da polizia stradale. E la sepoltura è ricordata più tra i fatti di cronaca varia che negli avvisi funebri. Accanto alla tomba aperta, Teresa non avrebbe veduto la migliore società, e certo nessuno dei nostri bei tempi. Nemmeno Zapparoni sarebbe stato presente. Al crepuscolo, uno sconosciuto le avrebbe portato una busta.

Quando mio padre venne sepolto, le cose avevano un altro aspetto. Egli aveva condotto una vita tranquilla, ma nemmeno lui sulla fine si era più sentito come si deve. Sul letto di morte mi aveva detto: «Ragazzo, muoio appena in tempo». E mi aveva guardato afflitto. Prevedeva forse allora molte cose.

Questi e altri pensieri mi venivano in mente, mentre Twinnings aspettava la mia risposta. È incredibile quale valanga di idee possa precipitare in un minuto come quello. Bisognerebbe essere un pittore per mettere tutto in un quadro.

Ma io vedevo la nostra casa squallida, il nostro focolare spento, se mi posso concedere questa perifrasi poetica per dire che da vari giorni ci avevano tolto la corrente. La posta portava soltanto ingiunzioni di pagamento, e quando udiva suonare alla porta, Teresa non osava aprire per paura di creditori insolenti. Non avevo molte ragioni di fare il difficile.

E con tutto ciò avevo ancora il senso del ridicolo, l’impressione di essere un tipo all’antica, uno di quelli che si preoccupano ancora di simili inezie, mentre tutti gli altri accettavano l’utile dove si offriva, e mi guardavano con disprezzo. Due volte avevo dovuto con altri innumerevoli scontare gli errori di governi incapaci. Non ne avevamo ricavato né compensi né fama, al contrario.

Era venuta l’ora per me di mettere in disparte le idee fossili. Recentemente qualcuno mi aveva fatto notare che la mia conversazione brulicava di espressioni fuori uso, come «vecchi camerati» o «afferrare qualcuno per la dragona». Facevano un effetto comico ai giorni nostri, come i timori d’una vecchia zitella, che si dà ancora delle arie per la sua virtù stantia. Al diavolo, bisogna smettere.

Avevo una sensazione sgradevole allo stomaco, semplicemente fame, e il fiele mi si sparse nel sangue. Nel medesimo tempo sentivo nascere in me una simpatia per Zapparoni. Ecco un altro che si curava di me. Probabilmente si trovava, con tutta la diversità dei suoi mezzi, in una condizione simile alla mia: doveva pagare e ascoltare la predica per giunta. Veniva dissanguato, derubato, ed era lui lo sfruttatore. E il governo, indiscutibilmente servile di fronte al più grande numero, incassava le sue tasse e lo lasciava depredare.

Del resto, se le parole «vecchi camerati» fanno ridere, perché si dovrebbe ancora prendere sul serio parole come «governo»? Quei figuri avevano forse preso in appalto il diritto di non far ridere? La svalutazione delle parole non li riguardava? C’era ancora al mondo qualcuno che poteva insegnare agli altri che cosa fosse il decoro? Anche un vecchio militare non era più un vecchio militare, però questo aveva i suoi vantaggi. Era arrivata l’ora in cui bisognava pensare anche a sé.

Come si vede, cominciavo già a mettermi dalla parte della ragione; è la prima cosa da farsi, quando si desidera accodarsi a una faccenda losca. È strano, come non si può semplicemente andare lì e fare un torto a qualcuno. Prima bisogna persuadersi che se lo sia meritato. Persino un brigante che vuole rapinare uno sconosciuto, prima attaccherà lite con lui per andare in collera.

Non mi riuscì difficile, infatti ero di un tale umore che tutti mi andavano bene per sfogarmi, anche se non avevano colpa di nulla. Ero persino arrivato al punto di far subire a Teresa il contraccolpo dei miei stati d’animo.

Sebbene fossi già quasi deciso, feci ancora un tentativo per sfuggire e dissi a Twinnings:

«Non posso credere che Zapparoni abbia atteso proprio me. Avrà avuto, anche prima, soltanto il fastidio della scelta.»

Twinnings accennò di sì col capo. «Giustissimo, le richieste non mancano. Però è un posto difficile. La maggior parte vuol fare le cose troppo bene.»

Sorrise e aggiunse:

«Tutti pregiudicati grossi così».

E aprì le braccia come se spalancasse un registro, ripetendo il movimento come un pescatore che abbia preso un luccio con la lenza. Di nuovo mi aveva toccato in un punto sensibile. Sentivo scomparire l’ultimo resto del mio malumore.

«E chi non è pregiudicato oggi? Tu forse, perché sei sempre stato una volpe sopraffina. Altrimenti soltanto quelli che si sono tenuti indietro in guerra e in pace.»

Twinnings rise. «Non t’arrabbiare, Richard. Sappiamo oramai tutti, che hai qualche neo. Però la differenza è questa: le tue condanne sono quelle che ci vogliono.»

Egli doveva saperlo, perché aveva appartenuto al giurì d’onore che mi aveva giudicato, non la prima volta quando fui radiato dall’esercito per complicità in alto tradimento, dopo di essere stato condannato dal tribunale di guerra. Le due condanne le seppi soltanto nelle Asturie, dove mi furono utili. No, alludo al secondo giudizio, che mi reintegrò nel grado. Ma che cosa sono le giurie d’onore, quando anche la parola «onore» è fra quelle diventate totalmente sospette?

Venni dunque riabilitato da uomini come Twinnings, il quale probabilmente era stato in casa dei suoi parenti inglesi. In verità sarebbe toccato a lui, scolparsi. E, cosa curiosa, tra i miei documenti la condanna rimane. I governi mutano, gli atti sono immutabili. Rimaneva il paradosso che nei registri dello Stato l’avere rischiato la forca per servirlo mi valeva l’incancellabile titolo di traditore. All’udire il mio nome, gli stalloni di carta degli uffici, che erano arrivati ai loro posti soltanto attraverso me e i miei simili, facevano una smorfia.

Oltre a questa grossa complicazione c’erano tra i miei documenti anche alcune inezie, sono pronto ad ammetterlo. Tra queste una beffa di quelle che si facevano quando si stava ancora bene, risaliva ai tempi della monarchia. Inoltre vi si ricordava anche un oltraggio a un monumento; una di quelle parole fondate su un antico prestigio in un tempo in cui i monumenti non sono più monumenti. Avevamo buttato giù un blocco di cemento armato, che portava un nome, ma non so più di chi. In primo luogo avevamo bevuto troppo, e in secondo luogo nulla si dimentica più facilmente dei nomi, che ieri erano sulle labbra di tutti, e delle Grandezze che danno nomi alle strade. Lo zelo di erigere monumenti è straordinario e a volte dura appena una generazione.

È giusto, tutto ciò non soltanto mi era nociuto, ma era anche inutile. Non ci pensavo più volentieri. Però gli altri avevano per queste cose una eccellente memoria.

Secondo Twinnings, le mie erano le condanne che ci volevano. Ma a me non andava a genio che Zapparoni ne fosse soddisfatto. Infatti che voleva dire? Voleva dire che cercava un uomo ambiguo a cui si può fare appello in due modi. Aveva bisogno d’un uomo retto, ma non tutto d’un pezzo. Da noi nel gergo popolare un factotum di questo genere si chiama uno col quale si può andare a rubare i cavalli. Il proverbio deve datare dai tempi in cui il furto di cavalli era una impresa pericolosa, sì, ma non infamante. Se riusciva, era onorevole; se no, si veniva impiccato a un salice o bisognava rinunciare alle proprie orecchie.

Il proverbio si adattava benissimo alla circostanza. Certo c’era ancora una piccola differenza: Zapparoni cercava, palesemente, un uomo col quale avrebbe potuto rubar cavalli; però era un signore troppo grande per prendere parte al colpo. Ma a che serviva oramai? C’era ancora un altro proverbio, adatto alle mie condizioni, cioè quello che nel bisogno il diavolo mangia le mosche. Dissi dunque a Twinnings:

«Va bene, tenterò, se tu lo consigli. Forse mi prende. Però, parlando tra vecchi camerati, t’avverto che non voglio impegolarmi in affari torbidi.»

Twinnings mi rassicurò. In fondo non m’ingaggiavo presso uno qualunque, ma in una ditta di fama mondiale. Avrebbe telefonato il giorno stesso e mi avrebbe dato la risposta. Poi suonò, ed entrò Federico.

Federico si era fatto vecchio anche lui: camminava curvo, con una corona sottile di capelli bianchi come la neve, sul capo calvo. Lo conoscevo da tanto tempo, allora teneva in ordine la divisa di Twinnings. Quando si faceva visita a Twinnings, nell’anticamera si incontrava Federico. Per lo più aveva tra le mani uno strumento diventato oramai da anni un pezzo da museo, che si chiamava la cesoia dei bottoni. Del resto si pensi quel che si vuole d’un uomo come Twinnings, ma il fatto che un servitore avesse resistito per decine di anni da lui, è un punto a suo favore.

Quando Federico entrò, vidi un sorriso illuminargli la faccia. Fu un bel momento, un momento d’armonia, che ci unì tutti e tre. Tornava per noi un raggio della spensierata giovinezza. Dio mio, come era mutato il mondo da allora. A volte ho pensato che questo sentimento annunciasse semplicemente la vecchiaia. In fine ogni generazione rievoca il suo bel tempo passato. Ma per noi era qualcosa di diverso, qualcosa di spaventosamente diverso. Certo sarebbe stato diverso, anche se si avesse servito sotto Enrico IV, Luigi XIII o Luigi XIV. Però avevamo sempre servito a cavallo. Ora questi gloriosi animali dovevano spegnersi. Scomparivano dalle strade e dai campi, dai paesi e dalle città, e da molto tempo non si erano più veduti in una carica. Ovunque, venivano sostituiti da automi. La loro sostituzione corrispondeva a un mutamento negli uomini, che diventavano più meccanici, più calcolabili, tanto che spesso non si aveva più nemmeno la sensazione di trovarsi tra uomini. Però a volte sentivo ancora l’antico tempo come un clangore di trombe al primo raggio del sole e come il nitrito dei cavalli, che faceva fremere i cuori. Cose passate.

Twinnings ordinò la colazione: pane abbrustolito, prosciutto con le uova, tè, porto e altra roba. Aveva sempre fatto una colazione abbondante, come quasi tutti gli uomini positivi. Aveva sofferto molto meno di me e di parecchi altri le ingiurie del tempo. Tutti hanno bisogno di uomini come Twinnings, senza che essi facciano grandi concessioni; non si compromettono con nessun governo. E danno a ogni cosa soltanto l’importanza strettamente necessaria; nessun mutamento gli passa la pelle. Era stato fra i miei giudici. Ecco il mio destino: essere giudicato da gente per la quale mi ero compromesso.

Mi versò il porto. Inghiottii il mio rancore.

«Alla tua prosperità, vecchio figlio di Mercurio.»

Rise. «Da Zapparoni anche tu non vivrai come un cane. Telefoniamo subito a Teresa.»

«Sei un vero amico, ad averci pensato. Però è fuori a fare la spesa.»

Perché non gli dissi che mi avevano tolto, con la corrente elettrica, anche il telefono? Probabilmente non era una novità per lui. Sapeva anche certo, quel volpone, che le budella mi si contorcevano dalla fame. Ma prima di ordinare la colazione aveva aspettato che accettassi la sua offerta.

Dopo quanto si è detto, a nessuno, credo, verrà l’idea che egli si fosse dato da fare gratis per me. L’unica eccezione che faceva per i vecchi camerati, era di non chieder loro nessuna mediazione. Sc la faceva dare in compenso dal socio. A gente come Zapparoni poco importava qualche sterlina più o meno.

Quello di Twinnings era un buon lavoro. Prima di tutto era buono perché non sembrava un lavoro. Egli semplicemente conosceva un mucchio di gente e da queste conoscenze ricavava un profitto: anch’io conoscevo molte persone, ma ciò non rappresentava nessun utile per il mio bilancio. Anzi era piuttosto una fonte di spese. Ma se Twinnings conosceva me e Zapparoni, era un affare per lui. E senza che gli costasse la più leggera fatica; non conoscevo nessuno che vivesse in modo più gradevole e uguale. Combinava gli affari a colazione, a pranzo, e la sera, quando andava al teatro.

Vi sono persone alle quali il danaro arriva con passo leggero e senza attirare l’attenzione: non conoscono le difficoltà di quasi tutti gli altri. Twinnings era di queste, non l’avevo mai conosciuto diverso. Era anche nato da genitori ricchi.

Però non voglio porlo in luce troppo sfavorevole. Ogni uomo ha le sue debolezze e i suoi pregi. Twinnings ad esempio non avrebbe avuto nessuna necessità di fare ciò che ora gli venne in mente, cioè andare nella stanza attigua e tornare con un biglietto da cinquanta sterline, che mi porse. Non ebbe nemmeno bisogno di insistere per farmelo accettare.

Senza dubbio non voleva che mi presentassi troppo sbrindellato da Zapparoni. Però c’era qualcos’altro: il ricordo della vita in comune. C’era la scuola di Monteron; che non poteva essere rinnegato da chiunque ne avesse fatto parte. Quante volte l’avevamo maledetto; quando si stava stanchi morti a letto dopo una giornata, nella quale un servizio aveva seguìto l’altro, a piedi, a cavallo, nella stalla e sulle sterminate distese di sabbia. Monteron conosceva quegli istanti di sconforto; gli piaceva aggiungervi il colpo, un tocco finale, magari un allarme per le esercitazioni notturne.

Devo confessare che la pigrizia della carne scompariva. I muscoli diventavano come acciaio, purificato di ogni scoria sull’incudine d’un bravo fabbro. Anche le facce si mutavano. S’imparava l’equitazione, la scherma, come si cade bene e molte altre cose ancora. S’imparava per tutta la vita.

Anche nell’indole ne rimanevano tracce per tutta la vita. Monteron poteva rivelarsi particolarmente sgradevole, se veniva a sapere che uno di noi aveva piantato in asso un camerata nei guai. Quando un ubriaco aveva combinato qualche danno, prima di tutto Monteron domandava se qualcuno era rimasto con lui. E allora ci voleva la misericordia di Dio per quello che l’avesse abbandonato o non se ne fosse curato come di un bambino. Non lasciare mai solo un compagno in nessun pericolo, né nella metropoli né in combattimento, era uno dei principi di Monteron, che egli ci inculcava a forza di martello, sia nelle manovre sui plastici, sia sul terreno, sia nei terribili lunedì.

Sebbene fossimo una società di scervellati, su questo punto egli riusci, è innegabile. Quando la sera, prima di tornare al reggimento, sedevamo con lui e intorno a lui (poteva diventare molto allegro), quella era qualcosa di più della solita cenetta d’addio. Diceva press’a poco:

«Tra voi non c’è nessun luminare, questa volta, eppure anche così c’è voluta molta fatica. Però non c’è nemmeno tra voi nessuno del quale il re non si possa fidare, e in fondo questa è la cosa principale».

In quelle sere nessuno beveva troppo. Si sentiva che dietro al vecchio c’era qualche cosa di superiore al re, superiore alla sua carica. E lui ce lo comunicava; e poi durava per la vita e forse di più. Durava anche quando nessuno sapeva più chi era stato il re. Anche Monteron era stato dimenticato da molto tempo, il nostro fu l’ultimo corso diretto da lui. Poi era caduto fra i primi, credo davanti a Liegi, nella notte. E anche dei suoi allievi ne vivevano pochi oramai.

Ma si riconosceva sempre il suo marchio indelebile. Ci si incontrava una o due volte l’anno nelle retrostanze di piccoli locali, nelle città che erano mutate così stranamente, e qualcuna era stata distrutta due volte e ogni volta ricostruita. Allora si pronunziava immancabilmente come attraverso cortine di fiamme il nome di Monteron; e si respirava di nuovo l’aura di quel solenne congedo, di quell’ultima sera.

Gli effetti si facevano sentire ancora persino in affaristi come Twinnings, al quale egli aveva detto una volta:«Twinnings, lei è più leggero che cavaliere», parole amare. Sono convinto che Twinnings, quando mi vide seduto nel suo studio come un parente povero, e andò nella stanza accanto a prendere il danaro che mi diede per le spese, agiva contro la propria natura. Ma non poteva fare diversamente, dopo avermi persuaso a inghiottire il rospo; perché Monteron era risuscitato in lui. Infatti Twinnings riconosceva uno dei rapporti tipici che Monteron gli aveva insegnato, cioè che io ero in prima linea anche se non su una linea buona, e che lui era nella riserva.

Eravamo dunque d’accordo, e Twinnings mi accompagnò alla porta. Là mi venne ancora qualcosa in mente:

«Chi c’era in questo posto sino adesso?»

«Un altro italiano, Caretti, ma l’ha lasciato già da tre mesi.»

«Si è ritirato a vivere in pace, penso?»

«Qualcosa del genere. Sparito, scomparso senza lasciare tracce, e nessuno sa che ne è stato.»