CAPITOLO XII
GLI uccelli tacevano. Sentii di nuovo il mormorio del ruscello nel calore del fondo. Poi mi svegliai di colpo. Già di prima mattina ero stato in piedi, tormentato dall’inquietudine di chi corre dietro al suo pane. In tale stato d’animo il sonno ci sorprende come un ladro.
Dovevo soltanto avere chiuso gli occhi, infatti il sole si era appena mosso. Il sonno nella luce violenta mi aveva stordito. Mi orientai con difficoltà; il luogo era ostile.
Anche le api avevano terminato il loro sonno meridiano; l’aria era piena del loro ronzio. Pascolavano sul prato, sfiorando a sciami la spuma bianca che lo copriva o si tuffavano nella sua variopinta profondità. A grappoli si appendevano al chiaro gelsomino che orlava la strada, e quando sciamavano dall’acero in fiore accanto al boschetto l’aria risuonava come l’interno d’una grande campana, che continua a lungo a vibrare dopo che mezzogiorno è suonato. Di fiori non c’era scarsità; era uno di quegli anni di cui gli apicoltori dicono che vestono di miele i pali delle arnie.
Eppure c’era qualcosa di strano in quel pacifico commercio. Tolti i cavalli e la selvaggina, conosco poco gli animali, infatti non ho mai trovato un maestro che mi facesse appassionare per loro. Per le piante, la cosa è diversa, infatti avevamo un professore di botanica entusiasta, col quale spesso si facevano gite. Quanto può dipendere nella nostra storia da tali incontri. Se dovessi compilare un elenco degli animali che conosco, mi basterebbe un foglietto di carta. Lo dico soprattutto per gli insetti che riempiono il mondo a legioni.
Comunque so press’a poco come sono fatti un’ape, una vespa e anche un calabrone. Mentre lì seduto le contemplavo sciamare, mi pareva che a volte ne passassero alcune che spiccavano stranamente. Dei miei occhi posso fidarmi; li ho messi alla prova non soltanto per la caccia alle galline. Non mi costava nessuna fatica seguire una di quelle api con lo sguardo, finché si posò sopra un fiore.
Allora ricorsi al binocolo e vidi di non essermi ingannato.
Sebbene io, come ho già detto, conosca poco gli insetti, ebbi subito l’impressione di una cosa imprevista e supremamente bizzarra, quasi l’impressione d’un insetto piovuto dalla luna. Poteva aver lavorato a fabbricarlo un demiurgo, in regni remoti, il quale una volta avesse sentito parlare di api.
L’ape mi lasciò tutto il tempo di contemplarla, inoltre adesso da tutte le parti arrivavano altri insetti simili come operai all’ingresso dell’officina quando la sirena ha chiamato al lavoro. In queste api colpiva subito la grandezza. Certo non erano grandi come quelle incontrate da Gulliver a Brobdingnag e contro le quali si difese col pugnale, però erano di molto più grosse di un’ape o persino d’un calabrone. Avevano press’a poco la circonferenza d’una noce ancora nel mallo. Le ali non erano mobili come negli uccelli o negli insetti, ma giravano intorno al corpo in un orlo rigido, piuttosto come un piano destinato a stabilire l’equilibrio o a sollevare l’automa.
La grandezza dava meno nell’occhio di quel che si potrebbe pensare, infatti l’animale era assolutamente trasparente. L’impressione che ne ebbi mi venne soprattutto dai riflessi provocati dai suoi movimenti alla luce del sole. Quando stava come in quel momento, davanti a un fiore di convolvolo, di cui penetrò il calice con la proboscide formata da uno scandaglio di vetro, era quasi invisibile.
Lo spettacolo mi avvinse in un modo che mi fece dimenticare il luogo e l’ora. Un simile stupore ci prende quando ci viene mostrata una macchina nella cui forma e nel cui modo di funzionare si rivela una nuova trovata. Se un uomo della prima metà dell’ottocento venisse portato per magia a uno dei nostri grandi incroci, il movimento gli darebbe la sensazione d’una confusione monotona. Dopo un periodo di sbalordimento comincerebbe a capire, o a sospettarne le regole. Saprebbe distinguere le motociclette dalle vetture per il trasporto delle persone e delle merci.
Così accadde a me quando compresi che quella non era una nuova specie zoologica, ma un meccanismo. Zapparoni, quell’uomo diabolico, aveva ancora una volta invaso il campo della natura, o piuttosto ne aveva corretto le imperfezioni, abbreviando e accelerando il viaggio dell’ape al lavoro.
Mossi attentamente il binocolo per seguire le sue creature che guizzavano nello spazio come diamanti lanciati da robuste fionde. Ne udivo il sibilo, che si interrompeva bruscamente quando frenavano di colpo davanti ai fiori. E dietro di me, presso le arnie ora in piena luce, si moltiplicava in un sibilo chiaro e ininterrotto. Doveva essere costato sottili studi evitare gli urti nei punti dove gli sciami degli automi si ammassavano negli intervalli di volo.
Il procedimento, devo riconoscerlo, mi colmava di quel piacere suscitato in noi dalle soluzioni tecniche, che è anche un riconoscimento tra iniziati: qui trionfava lo spirito del nostro spirito. E si accrebbe quando notai che Zapparoni lavorava con diversi sistemi. Mi accorsi di diverse specie di automi che pascolavano nei campi e nei cespugli. Animali forniti di particolare vigore portavano un intero gruppo di pungiglioni che tuffavano negli umbelli e nei grappoli di fiori. Altri erano armati di braccia prensili, che posavano come delicate pinze intorno ai fasci di fiori per spremerne il nettare. Altri apparecchi mi rimanevano incomprensibili. Comunque Zapparoni aveva in quell’angolo un campo di esperimento per brillanti trovate.
Il tempo passò a volo mentre mi dilettavo di quello spettacolo. Gradualmente penetrai nella costruzione, nel sistema dell’invenzione. Gli alveari erano disposti in lunga fila davanti al muro. In parte erano di forma tradizionale, in parte trasparenti, fatti, sembrava, della medesima sostanza delle api. I vecchi alveari erano abitati da api naturali. Probabilmente questi sciami erano lì soltanto per dimostrare la grandezza del trionfo sulla natura. Zapparoni aveva certamente fatto calcolare quanto nettare uno sciame può produrre al giorno, all’ora, al secondo. Ora lo collocava sul campo sperimentale accanto agli automi.
Ebbi l’impressione che egli avesse posto in imbarazzo gli animaletti dalla economia antidiluviana, infatti ne vidi spesso qualcuno volarsene via da un fiore che prima era stato toccato da un concorrente di vetro. Se invece il calice era stato visitato prima da un’ape vera, vi rimaneva sempre un piccolo dessert.
Da questo conclusi, senza alcuna difficoltà, che le creature di Zapparoni procedevano in modo più economico, cioè che succhiavano in modo più esauriente. O forse, la forza vitale dei fiori si esauriva dopo che erano stati toccati dal pungiglione di vetro?
Comunque sia, l’evidenza insegnava che questa era un’altra delle fantastiche invenzioni di Zapparoni. Osservai poi il movimento davanti alle costruzioni di vetro che rivelava un metodo complesso. Credo sia stato necessario l’intero corso dei secoli sino ai tempi nostri per indovinare il segreto delle api. Dell’invenzione di Zapparoni acquistai, dopo averla contemplata dalla mia poltrona soltanto forse un’ora, una concezione già precisa.
Gli alveari di vetro si distinguevano a prima vista dagli antichi per il grande numero di aperture. Non somigliavano tanto ad apiari quanto a centrali automatiche di telefoni. Non avevano poi autentiche aperture, infatti le api non vi entravano. Non vedevo dove si riposavano o venivano fermate o dove avevano la rimessa, infatti non saranno sempre state al lavoro. In ogni caso nell’arnia non avevano nulla da cercare.
Le aperture avevano piuttosto qui la funzione che hanno nei distributori automatici o quella dei fori di contatto in una presa elettrica. Le api vi si avvicinavano, attirate magneticamente, vi introducevano il pungiglione vuotandovi il nettare di cui avevano piena la piccola pancia. Poi ne venivano allontanate con forza quasi come proiettili. Era un prodigio che in questi viavai, nonostante la grande velocità del volo, non avvenissero urti. Sebbene la manovra fosse compiuta con un grande numero di unità, avveniva con perfetta precisione; doveva esservi un principio centrale che la dirigeva.
Evidentemente il procedimento naturale era stato semplificato. Così ad esempio era risparmiato tutto quanto riguardava la produzione della cera. Non c’erano né grandi né piccole celle e nulla che stabilisse la differenza tra i sessi, ogni cosa raggiava d’uno splendore perfetto ma completamente privo d’erotismo. Non c’erano né uova né larve, né fuchi né regine. Se ci si voleva attenere a una stretta analogia, Zapparoni aveva approvato e sviluppato soltanto un alveare di operaie neutre. Anche su questo punto aveva semplificato la natura, la quale già con l’uccisione dei pecchioni aveva osato una iniziativa economica. Sin dall’inizio egli aveva escluso maschi e femmine, madri e nutrici.
Se mi rammento bene, il nettare che le api succhiano dai fiori subisce diverse trasformazioni nel loro stomaco. Zapparoni aveva tolto anche questa fatica alle sue creature sostituendola con una chimica centrale. Vedevo come il nettare incolore iniettato attraverso i fori veniva raccolto in un sistema di tubi di vetro, nei quali gradualmente cambiava colore. Intorbidato sulle prime da una sfumatura di giallo, diveniva color paglia e arrivava al fondo con una stupenda tinta di miele.
La metà inferiore dell’apparecchio serviva da serbatoio o luogo di raccolta, che si riempiva a vista d’occhio della deliziosa sostanza. Potevo seguire l’aumento sulla misura incisa nel vetro. Se col binocolo osservavo i cespugli intorno e il fondo del prato, e poi riportavo lo sguardo sugli apparecchi, vedevo che il deposito del miele era salito di diverse linee.
Presumibilmente l’aumento e in genere il lavoro non venivano osservati soltanto da me. Distinsi un’altra specie di automi che oziavano davanti agli apparecchi o anche aspettavano come fanno i sorveglianti o gli ingegneri in una officina o in un cantiere di costruzione. Si distinguevano facilmente dagli altri perché erano color fumo.