CAPITOLO VII

ERANO questi i pensieri che mi opprimevano mentre guardavo il fondo del ruscello, sulle cui sponde il contadino arava. Piano piano la superficie marrone, il terreno arato si allargava. Ecco un bilancio migliore del mio.

Ma i pensieri non ci assalgono come ho riferito. Siamo noi che li colleghiamo, che ce ne rendiamo conto. Li ordiniamo in un prima e un dopo, li disponiamo l’uno accanto all’altro, in una successione, una contiguità che non hanno quando nascono in noi. Allora nel firmamento interiore splendono, come stelle cadenti, luoghi, nomi, cose ora informi. Si mescolano i morti con i vivi, i sogni con le cose vissute. Quali segni sono mai questi, e dove vagabondiamo noi nella notte? Vidi il nobile volto di Lorenzo, che saltò dalla finestra. Non era quello il nostro destino, la nostra realtà? Un giorno avremmo toccato terra. C’erano stati tempi, in cui la vita era valutata quasi soltanto come la preparazione di quel momento; forse erano stati meno privi di senso del nostro.

Un tenue rumore mi fece sussultare. Qualcuno doveva essere entrato. Balzando in piedi mi trovai di fronte a un vecchio che mi guardava. Doveva essere venuto da un gabinetto, che ora vedevo attraverso la porta aperta. Vidi l’angolo d’un grosso tavolo, ancora illuminato da una lampada, nonostante l’ora meridiana, coperto di carte scritte e stampate e di libri aperti.

Lo sconosciuto era vecchio e piccolo ma mentre giungevo a queste conclusioni, sentivo subito che non dicevano nulla. Era davvero sconosciuto? ed era vecchio e piccolo? Ricco di anni certamente, infatti vedevo capelli bianchi brillare sotto la visiera che portava per proteggersi gli occhi. Inoltre i tratti del viso recavano l’impronta caratteristica lasciata da una lunga vita. Qualcosa di simile si trova nei grandi attori, che hanno impersonato lo spirito di secoli. Però mentre in loro il destino li ha lavorati in superficie, il destino di quest’uomo aveva lavorato in profondità: egli non recitava.

Fissare l’età era cosa secondaria, perché lo spirito non ha età. Quel vecchio poteva affrontare un rischio, fisico, morale o intellettuale, più facilmente di innumerevoli giovani e subire la prova meglio, perché si univano in lui potenza e intuito, astuzia acquistata e dignità innata. Quale era il suo animale araldico? Una volpe, un leone, uno dei grandi uccelli di rapina? Dovetti piuttosto pensare a una chimera, di quelle che nidificano sulle nostre cattedrali e guardano giù la città con saggio sorriso.

Come era vecchio eppure non sembrava vecchio, così era piccolo eppure piccolo non sembrava; il suo essere cancellava quell’impressione. Durante la mia vita avevo incontrato uomini significativi, uomini voglio dire che hanno da fare con le ruote più intime del nostro meccanismo, vicinissimi all’asse invisibile. Possono essere uomini di cui si trova il nome in ogni giornale, ma anche assolutamente sconosciuti, possono essere buoni o cattivi, attivi o inattivi. Eppure c’è in loro un’aura comune, imponente, che non tutti, ma molti, e in verità piuttosto gli esseri semplici che i complicati, percepiscono. Un filosofo, ad esempio, al quale è data questa forza, un nuovo ordinatore della sostanza mondiale, è capace di affascinare ascoltatori che non comprendono una sola parola del suo discorso. Eppure pendono incantati dalle sue labbra. Lo stesso è possibile in ogni altro campo. Deve esistere un’immediata percezione della grandezza, indipendente da ogni comprensione. Veniamo colpiti come magneti dalla corrente elettrica. Che questa forza si manifesti in lettere, parole o libri, è secondario; anzi spesso così si diminuisce addirittura la forza dell’attrazione. Non è facile interpretare questo fenomeno, perché è informe. Si trasforma in opere e atti, in simboli intellettuali e morali o agisce anche astraendosi magari nell’ascesi, nel sacrificio e nella meditazione. Ma la nostra percezione si trova al di fuori di questa evoluzione che la precede. Corrisponde come oscuro sentimento a un influsso indiscriminato. Noi sentiamo forse: «Ecco, è lui» oppure: «A lui riuscirà» o sentiamo semplicemente il respiro dell’ignoto.

Similmente mi accadde con Zapparoni; sentii: «Lui ha la formula», oppure: «Costui è un iniziato, uno degli alti gradi». Una frase, diventata luogo comune: «Scienza è potenza» acquistò un senso nuovo, immediato, pericoloso.

Anzitutto gli occhi avevano una grande forza; e lo sguardo regale, il taglio largo che lascia vedere il bianco, sopra e sotto l’iride. Si riceveva un’impressione artificiale, come risultante da una delicata operazione, e in più la fissità meridionale. Era l’occhio d’un grande pappagallo azzurro, che avesse cento anni. La membrana nittitante appariva e scompariva. Non era l’azzurro del cielo, non era l’azzurro del mare, non era l’azzurro delle pietre: era un azzurro sintetico, escogitato in luoghi molto lontani da un maestro che voleva superare la natura. Lampeggiava sull’orlo dei fiumi più antichi del mondo, nel volo sopra le radure. A volte fra le piume si intravedeva un rosso stridulo, un giallo inaudito.

L’occhio di questo pappagallo azzurro era color d’ambra; mostrava, quando guardava verso la luce, le sfumature dell’ambra gialla, e nell’ombra quelle dell’ambra rosso marrone, con altre più antiche del tempo. L’occhio aveva contemplato grandi accoppiamenti in regni dove la potenza generatrice non è ancora individuale, dove terra e mare si abbracciano e gli scogli si ergono come falli sul delta. Era rimasto freddo e duro come calcedonio giallo, non toccato dall’amore. Soltanto quando guardava nell’ombra, si oscurava come velluto. Anche il becco era rimasto duro e aguzzo, sebbene per più di cento anni avesse schiacciato noci dure come diamanti. Qui non c’era un problema che non venisse risolto. L’occhio e i problemi erano come la serratura e la chiave corrispondente. Lo sguardo tagliava come una lama di acciaio molleggiante. Mi penetrò sino nell’intimo. Poi le cose tornarono al loro posto.

Avevo creduto che i monopoli di Zapparoni riposassero sullo scaltro sfruttamento degli inventori, invece mi bastò uno sguardo per capire che v’era all’opera più d’una geniale intelligenza da grande affarista occupata a trarre rendite da regni plutonici. Giove, Urano e Nettuno erano in potente congiunzione. Bisognava dire piuttosto che quel piccolo vecchio sapeva inventare anche gli inventori: li trovava sempre infatti dove il suo mosaico li richiedeva.

Soltanto più tardi mi accorsi e ne fui colpito, di avere subito saputo di fronte a chi mi trovavo. Il che era strano, perché il grande Zapparoni, come lo conosceva ogni bambino, non aveva la minima somiglianza con l’uomo che incontrai nella biblioteca. La figura diffusa specialmente dalla Zapparoni Film era piuttosto quella d’un mite nonno, di un Babbo Natale, che ha la sua officina nei boschi coperti di neve, dove i nani lavorano per lui ed egli medita instancabilmente con che cosa potrà fare piacere ai bambini grandi e piccoli. «Ogni anno torna…» ecco il tono del catalogo delle officine Zapparoni, atteso ogni ottobre con un’impazienza di cui non aveva goduto nessun libro di favole, nessun romanzo di fantascienza.

Zapparoni doveva dunque avere un impiegato che faceva per lui questa parte, forse un attore che rappresentava il padre nobile o anche un robot. Era persino possibile che si servisse di varie figure e ombre della sua persona. È un vecchio sogno dell’uomo, che ha prodotto diversi modi di dire, ad esempio: «Non posso mica farmi in quattro». Per Zapparoni a quanto pareva non soltanto era possibile, ma doveva riconoscervi un’utile estensione e un accrescimento della personalità. Da quando possiamo con qualche parte del nostro essere, come con la voce, e con l’apparenza, entrare in una macchina e uscirne godiamo alcuni vantaggi dell’antico proprietario di schiavi senza conoscerne gli svantaggi. Se qualcuno aveva capito questo, era Zapparoni, conoscitore e perfezionatore di automi per il gioco, il godimento e il lusso. Uno dei suoi sosia elevato a sua immagine ideale lo presentava con voce più convincente e apparenza più mite di quel che la natura gli avesse conferito, nei documentari settimanali e alla televisione; un altro teneva una conferenza a Sidney, mentre il maestro si tratteneva in comoda meditazione nel suo gabinetto.

Mi sentivo vacillare di fronte a questa capacità di moltiplicarsi. Operava come una illusione ottica, suscitava dubbi sull’identità. Chi mi diceva se qui mi trovavo davanti a quello vero? Ma doveva essere lui, e il buon Nonno era un suo sottocapo. La voce, del resto, era gradevole.