CAPITOLO XIX

TUTTO questo mi tornò in mente dopo la pericolosa scoperta, quando la debolezza mi afferrò in modo sempre più irresistibile. La nausea contro la quale lottavo non mi prometteva nulla di buono; sospettai che si sarebbe ripetuto quel che avevo sofferto quando avevo fermato il braccio di Atje Hanebut. Con Zapparoni non mi sarei liberato così a buon mercato. Cercai dunque di farmi coraggio come si fa con un bambino ammalato. Press’a poco così:

«Orecchie tagliate se ne trovano su ogni autostrada».

Oppure: «Ne hai vedute altre e questa non ti riguarda affatto. Adesso fila all’inglese».

Cercai di richiamarmi alla memoria episodi della guerra giudaica di Flavio Giuseppe, il quale è sempre stato tra i miei scrittori favoriti. Là andava diversamente. Con quale massiccia consapevolezza, con quale certezza d’una missione superiore e con quale corrispondente robustezza di coscienza recitavano gli attori, i romani, gli ebrei nelle loro diverse fazioni, i popoli ausiliari, le guarnigioni delle fortezze di montagna, che si difendevano sino all’ultimo uomo, sino all’ultima donna. Allora non si sentiva ancora il decadente blaterare che si udì cent’anni dopo con Tertulliano. Tito diede ordini duri, ma con tranquillità sublime, quasi dalla sua bocca parlasse il destino. Sono sempre stati necessari nella storia periodi in cui azione e coscienza del diritto coincidevano perfettamente, cioè come stato d’animo generale, di tutti gli avversari e di tutti i partiti partecipanti. Forse Zapparoni era arrivato a un tale periodo. Oggi bisognerebbe essere tra quelli che comandano, le vittime non contano. Più vicino ci si trova al centro del potere, meno importanza hanno. Gente che ha parte del potere o crede soltanto di averla, passa sopra milioni di vittime, e le masse li acclamano. Un cavalleggero appiedato, un uomo che non aveva mai preso le armi se non contro uomini armati, appariva al contrario una figura sospetta.

Bisognava salire anche spiritualmente nel carro armato.

Del resto avevo ancora in tasca il resto delle sterline di Twinnings; avrei voluto andare a cena fuori con Teresa quella sera. L’avrei condotta alla Antica Svezia e sarei stato gentile con lei. L’avevo trascurata per via delle mie preoccupazioni. Le avrei detto che con Zapparoni non era stato possibile mettersi d’accordo, ma che avevo qualcosa di meglio in vista. Lei temeva sempre che per causa sua, io mi prendessi impegni avvilenti. Aveva di me una opinione troppo buona; tanto da avermi fatto spesso arrossire. Domani sarei andato da Twinnings e avrei parlato con lui di quei posti ai quali egli non aveva ancora accennato, perché non me ne riteneva capace. Avrei potuto accettare la sorveglianza d’un tavolo da gioco. A questi posti c’è la certezza di venire coinvolti in scandali che finiscono male, se non si sa scivolarne fuori come un’anguilla. Bisogna accettare mance. Vecchi camerati, che giocavano ancora sempre un po’, come avevano imparato a fare nei cavalleggeri, si sarebbero sulle prime sorpresi, ma poi avrebbero spinto verso di me un gettone tondo o magari anche quadrato se avevano avuto un periodo di fortuna. Avrei imparato. Sapevo bene per chi lo facevo. E lo facevo volentieri, avrei fatto anche dell’altro. Avrei detto a Teresa che lavoravo in ufficio.