CAPITOLO X

ZAPPARONI era subito rimasto colpito da un passo che riguardava il primo tempo delle guerre mondiali. Fillmor accennava alle grosse perdite iniziali, che attribuiva in parte all’inesperienza delle truppe. Dovute anche, tra altre cause, all’avere il nemico alzato bandiera bianca e ripreso poi il fuoco quando i nostri, rassicurati, si accostavano senza copertura. Ora Zapparoni voleva sapere se io avessi conosciuto esperienze simili e se si trattasse d’uno stratagemma guerresco usuale.

La domanda mi giunse opportuna; vi avevo meditato sopra. Apparentemente Zapparoni voleva, dopo il disgraziato saluto, portare la conversazione su un campo in cui mi prevedeva esperto. La cosa prometteva bene.

In quanto alle bandiere bianche, se ne parla sempre nelle voci che si diffondono subito dopo l’inizio delle ostilità. Sono in parte inventate dai giornalisti, che hanno il compito di fare dell’avversario l’Uomo Nero; in parte, come anche in questo caso, sono vere.

In una guarnigione aggredita, la volontà di resistenza non è sentita così ugualmente come potrà apparire alle forze attaccanti. Se la situazione si fa minacciosa, si formano due tendenze: alcuni desiderano difendersi a ogni costo, mentre altri giudicano che tutto è perduto. Così può accadere che le truppe attaccanti siano alternativamente allettate da segnali di resa e poi schiacciate sotto una scarica di fuoco. Subiscono gli effetti senza conoscere la molteplicità degli impulsi, e prendono per successivo ciò che è simultaneo. Necessariamente giungono alla conclusione che sono stati attirati in un’imboscata. Era invece una illusione ottica, invincibile. Osservato spassionatamente l’episodio, si conclude che un oggetto pericoloso è stato avvicinato senza la precauzione necessaria. Così ci capita quando ci si ferisce con un coltello a due tagli, e lo gettiamo contro la parete. Il responsabile della ferita non è l’oggetto, ma chi l’adopra. L’errore sta nell’attaccante. Il capo che ha permesso alla sua gente di avvicinarsi tranquillamente non sapeva il fatto suo. Pensava alle manovre, non alla guerra.

Zapparoni ascoltò questo discorso, facendo a volte cenni affermativi col capo.

«Non c’è male, anche se troppo umano… Bene, lei vede subito dove sta l’errore. Il cielo ci protegga da simili avventure. Il maresciallo non si sofferma su considerazioni tanto particolari.»

Rise di cuore, e volle ancora indugiare sull’argomento.

«Se ho capito bene, le cose stanno press’a poco così: io sono in trattative con un concorrente, mettiamo con una ditta. Lo metto alle strette, mi fa un’offerta favorevole. Io prendo tutte le mie disposizioni, mi assicuro le somme liquide e le riserve. Nel momento in cui si deve mettere la firma vengo a sapere di avere negoziato con un sottogruppo, e che non v’è nessun impegno valido. Intanto, gli altri si sono rimessi o hanno fatto conoscere la mia offerta a destra e a sinistra. Tutto l’affare dovrà essere ricominciato da capo.»

Fece una pausa e poi proseguì:

«Questa è una manovra non precisamente insolita. È possibile che io abbia trattato con soci i quali sono andati oltre le loro prerogative, o che si sia voluto mandare la faccenda per le lunghe, e ottenere da me una nuova offerta. Forse tutti erano già d’accordo nel momento in cui l’offerta venne fatta e avevano l’acqua alla gola. Intanto le congiunture sono cambiate, e si cercano pretesti per sottrarsi all’impegno».

Mi guardò afflitto e scosse il capo.

«Sono forse obbligato a preoccuparmi di quel che è accaduto dietro le quinte? Potevo supporre che l’uomo col quale negoziavo aveva una procura. Ho subìto gravi danni, ho perso tempo, e avuto delle spese. Ora ho altre preoccupazioni: contro chi posso rivalermi?»

Non sapevo dove volesse andare a finire; la sua voce adesso aveva acquistato qualcosa di inflessibile; non mi lasciò nemmeno il tempo di riflettere, ponendomi una domanda dopo l’altra.

«Contro chi si rivarrebbe lei nel caso mio?»

«Per cominciare, con la ditta stessa.»

«E se non viene a capo di nulla?»

«Con quello dei soci che ha firmato.»

«Veda, è evidente. Si pensa con chiarezza maggiore, quando è in gioco il danaro. È uno dei suoi vantaggi.»

Si appoggiò tranquillo alla spalliera della se: dia e mi guardò strizzando gli occhi.

«E quanti poi ne passiamo a fil di spada, quando li abbiamo presi, i malandrini?»

Maledizione, mi pareva di essere caduto io nel tranello. Si risvegliarono in me ricordi di inferni passati, di cose che si dimenticano volontieri.

Zapparoni non attese la risposta. Disse:

«Vorrei poter pensare che pochi l’abbiano fatta franca. Del resto è giusto. In questo caso uno risponde dell’altro, e cioè con la propria testa.»

Avevo l’impressione che la conversazione si andasse trasformando sempre più in un interrogatorio.

«Supponiamo, per una volta tanto, che lei si affidi a uno dei soci… allora quelli che hanno issato la bandiera bianca devono pagare?»

«Sarebbe la prima cosa da aspettarsi.»

«Lo pensa davvero? O piuttosto si preferirebbe liquidare quelli che hanno ancora le armi alla mano.»

«Lo ammetto.»

«Praticamente accadrebbe forse che nel primo impulso della rabbia non si facesse distinzione.»

«Purtroppo ha ragione.»

Seguì una pausa. Il sole splendeva caldo sul terrazzo, e si sentiva soltanto il ronzìo delle api, che foraggiavano fra le aiuole. Sentivo che attraverso quel gioco di domande e risposte io venivo sospinto entro uno schema di cui non mi era chiaro il significato, irto di tranelli, tali che non potevo nemmeno giudicare se vi ero caduto. Forse gli auspici erano favorevoli Finalmente Zapparoni riprese il filo del discorso.

«L’ho posto davanti a tre decisioni. Non ne ha scelta nessuna e in ogni caso mi ha dato una

«Credevo che volesse discutere con me la questione giuridica.»

«Lei è dell’opinione che ogni caso abbia un aspetto giuridico?»

«No, ma ogni caso ha anche un aspetto giuridico.»

«Bene. Però questo aspetto può diventare trascurabile. Diventa subito chiaro, quando si ha da fare con gente litigiosa. Inoltre ogni caso ha anche un aspetto sociale, anche un aspetto militare, ed è anche una questione di equilibrio di forze e molte altre cose ancora. Ma lasciamo questo. Ci condurrebbe troppo lontano, ai pesi atomici del potere e del diritto, alla quadratura del cerchio: non è questo il nostro scopo. Del resto anche il suo giudizio teorico del caso è insoddisfacente.»

Zapparoni diceva questo senza asprezza, piuttosto benevolmente. Poi discusse le osservazioni che avevo fatte all’inizio del nostro colloquio. Erano assurde: se si contemplava la situazione generale, risultavano a tutto vantaggio dell’avversario. Secondo me, dunque, quanto Fillmor aveva riferito della perfidia nemica era semplicemente una illusione ottica. L’attaccante si trovava di fronte un numero di gruppi che agivano secondo princìpi diversi, senza attuare un preciso stratagemma o senza malvagio accordo. Egli, Zapparoni, mi avrebbe dimostrato che questa possibilità esisteva almeno. Che cosa sarebbe accaduto, poi, se il mio attacco fosse fallito in campo aperto? Quei gruppi che avevano issato la bandiera bianca avrebbero insistito nella resa? Al contrario, non avrebbero avuto nulla di più urgente da fare se non di riprendere le armi, e sulla linea intera sarebbe divampato un senso di trionfo. Così si sarebbe rinsaldata l’unità dell’avversario, potevo esserne certo. Una forza sconfitta si divide, vittoriosa si sente omogenea e agisce. Nessuno vuol essere col vinto, ma tutti col vincitore.

Soltanto a proposito del contegno tattico, della lama a due tagli, Zapparoni consentiva con me. Bisognava ritenere l’avversario capace di tutto, avvicinarsi a lui con cautela. Se Fillmor gli attribuiva la perfidia, era una semplificazione pedagogica ed efficace. Questo le truppe e il pubblico l’avrebbero capito subito, mentre la mia versione era troppo accademica.

«Ha seguìto il dibattito sul preventivo della difesa? Vogliono di nuovo toglierci somme spaventose per attrezzature medioevali, per una società di sorveglianza notturna che zoppica in ritardo sul tempo. Tra le spese, sono persino elencati cani, cavalli e piccioni. Il maresciallo ha le sue buone ragioni per darsi un’occhiata intorno alla ricerca di una nuova professione.»

Così tornò al tono con cui aveva cominciato. Non avevo seguìto il dibattito alla Camera. Anche ai miei bei tempi non lo seguivo. Già allora, leggevo più volentieri Erodoto o le Storie di corte di Vehse,4 quando mi annoiavo. Nei giornali, leggevo di volo i grossi titoli, i fatti diversi, la terza pagina e mi facevo grazia del resto. Da quando vivevo sotto pressione mi mancavano tempo, denaro e gusto per farlo. Tutt’al più studiavo le offerte di lavoro nelle vetrine. Non c’è nulla di più vecchio del giornale vecchio di un giorno. Per il resto, ero troppo occupato nella ricerca di sotterfugi per sfuggire ai miei creditori. E questo mi stava più a cuore della politica.

Non desideravo nemmeno di sapere che idea si facesse Zapparoni dell’esercito. Probabilmente per lui era come una sezione delle sue officine, uno di quei laboratori in cui professori e ingegneri lavoravano in tuta, tutta gente che non montava a cavallo e si nutriva di cibo crudo con dentature artificiali, ma che volentieri premeva il bottone del campanello. Un cretino matematico provocava in un secondo maggiori sciagure del grande Federico nelle tre guerre di Slesia. Senza contare che allora uomini come Fillmor non diventavano marescialli. Più facilmente si prendeva un mezzo pazzo come Blücher, se era un uomo di cuore. Il cervello doveva soltanto eseguire ordini. Però su quella terrazza mi affliggevano preoccupazioni tutt’altro che storiche.

La mia spiegazione non aveva soddisfatto, non poteva esservi nessun dubbio. Zapparoni mi aveva adescato in modo che mi rivelassi e poi era girato intorno alle mie parole come il giardiniere intorno a un albero, dove vede spazi vuoti. La sessione era somigliata all’esame d’un vecchio capitano; intorno, tutti al di fuori di lui sanno in anticipo che non riuscirà a essere promosso maggiore. Andando via ci si domanda a che scopo è stato inscenato lo spettacolo. Il buffo era che in fondo Zapparoni avrebbe dovuto professare la mia opinione ed io la sua. Invece mi aveva smascherato come un chiacchierone liberale.

Zapparoni si alzò; probabilmente voleva congedarmi. Invece con mia sorpresa mi concesse ancora una tregua. Accennò a un tetto di paglia, che sporgeva il culmine tra le fronde dove sboccava il ruscello.

«Ho ancora qualcosa da sbrigare, signor Richard, potrebbe aspettarmi laggiù. Non si annoierà. È un luogo piacevole.»

E così dicendo mi fece un cenno amichevole, quasi avessimo interrotto una piacevole conversazione che si attendeva di continuare. Io scesi la scala, sorpreso, confuso dall’abbondanza di tempo che mi concedeva. Probabilmente era un suo capriccio. L’interrogatorio mi aveva affaticato, spossato. Era bene che fosse finito. Entrai nel sentiero del giardino con la sensazione che si prova durante l’esame nell’udire il campanello che annuncia una pausa.

Alla prima svolta mi girai. Zapparoni stava ancora sul terrazzo e mi seguiva con lo sguardo. Mi fece un cenno e gridò:

«Per favore, faccia attenzione alle api!»