CAPITOLO XVI
EVIDENTEMENTE adesso è venuto il momento in cui è necessario parlare di morale. È questo uno dei miei punti deboli; perciò voglio esprimermi nel modo più succinto. La mia cattiva stella mi fece nascere in un’epoca in cui si predicava troppo la morale e nel medesimo tempo si ammazzava più che in qualsiasi altra epoca. Senza dubbio sussiste un nesso tra questi due fenomeni. Mi sono domandato a volte se potesse trattarsi d’un nesso a priori, cioè che questi chiacchieroni siano già da principio cannibali, o d’un nesso a posteriori, cioè se moraleggiando si innalzino tanto da finire col diventare pericolosi per gli altri.
Sia come sia; ero sempre contento quando incontravo un essere che doveva ai suoi genitori un po’ di spirito innato e un decoro domestico, senza avere bisogno di grandi sistemi. Più non pretendo nemmeno da me stesso come uomo che nella vita si è sentito tanto predicar la morale da insegnanti e da superiori, dalla polizia e dalla stampa, da ebrei e da cristiani, da alpigiani, da isolani e da abitanti della pianura, da tagliagole e nobiles, i quali tutti non erano mai stati turbati da un filo d’aria. Non potevo più vedere un gilè bianco. Zapparoni aveva ragione: quando le cose vanno male, su tutto il fronte si alza un grido di giubilo. Così dicendo non aveva nemmeno calcolato che non soltanto l’avversario trionfa. Ora ti si levano contro quelli che ti sei veduto accanto a destra e a sinistra, e che finché tutto è andato bene erano di ottimo umore. Adesso ostentano il candore Olà del loro gilè. E uno si trova in mezzo ai gilè bianchi come un naufrago che è finito sullo scoglio dei pinguini. La cattiva stella è allo zenit. Ecco che cosa si guadagna a voler navigare nel Mondo Nuovo.
In verità l’entusiasmo che era nato in me alla prima vista del giardino di Zapparoni, avrebbe dovuto mettermi in sospetto, non preannunciava nulla di buono. Era stato superficiale, eppure non mi mancava l’esperienza. Ma chi non possiede quest’esperienza?
La brutale mostra di membra mozzate mi aveva costernato. Eppure era prevedibile in quel luogo. Non apparteneva anch’essa necessariamente alla perfezione tecnica e all’ubriacatura che la conclude?
Si sono mai veduti in qualunque capitolo della storia mondiale tante membra mozze, tanti cadaveri tagliati a pezzi come nella nostra?
Sin dall’inizio l’uomo ha fatto la guerra, però in tutta l’Iliade non mi ricordo di un solo passo in cui riferisca la perdita d’un braccio o d’una gamba.
Il mito riservava lo smembramento ai disumani, ai mostri della risma di Tantalo o di Procuste.
Basta fermarsi nella piazza davanti a una stazione ferroviaria per capire che da noi vigono regole ben diverse. Dopo Larrey abbiamo fatto progressi, e non soltanto nella chirurgia. Fa parte delle nostre illusioni ottiche attribuire queste mutilazioni agli incidenti. In verità gli incidenti sono le conseguenze di lesioni che avvennero già nei germogli del nostro mondo, il numero crescente delle mutilazioni è uno dei sintomi che dimostrano come trionfa il sistema del bisturi.
La perdita avvenne prima di farsi visibile. Il colpo fu assestato da molto tempo, e dove lo si ritiene un progresso della scienza, fosse pure sulla luna, esiste una lesione.
La perfezione umana e il perfezionamento tecnico non sono conciliabili. Se vogliamo l’una, bisogna sacrificare l’altra; a questo punto le strade si separano. Chi di questo è convinto, sa quel che fa in un senso o nell’altro.
Il perfezionamento mira al calcolabile, e il perfetto all’incalcolabile. Intorno a meccanismi perfetti irraggia perciò uno splendore orrido, ma anche affascinante.
Provocano lo sgomento, ma anche un orgoglio titanico, che soltanto la catastrofe e non il discernimento può piegare.
Lo sgomento, ma anche l’entusiasmo che suscita in noi lo spettacolo di perfetti meccanismi, sono il contrario esatto della soddisfazione con cui ci rasserena lo spettacolo d’un’opera d’arte perfetta. Intuiamo la minaccia alla nostra integrità, alla nostra simmetria. Che braccia e gambe vengano messe in pericolo, non è ancora il peggio.