CAPITOLO XVII
TANTO per accennare che la successione delle immagini e anche degli stati d’animo nel giardino di Zapparoni era meno priva di significato di quanto mi fosse apparsa nel primo sgomento. Alla ubriacatura che mi aveva data quella manifestazione dell’ingegno tecnico, seguì il malessere, seguirono le prove di crudeli mutilazioni. L’una provocava l’altro.
Naturalmente non rientrava nei piani di Zapparoni farmi giungere a questa scoperta. Le sue intenzioni erano diverse. Eppure ciascuna fase nella lotta fra potenze contiene un insegnamento, che conduce oltre l’intenzione dei due avversari, e accenna così a una partecipazione più alta.
Zapparoni voleva senza dubbio provocare lo sgomento. E v’era riuscito; certo egli trionfava già nel suo gabinetto perché io ero caduto nella rete. Probabilmente se ne stava seduto comodamente tra i suoi libri e seguiva ogni tanto sullo schermo ciò che gli comunicava il grigiofumo. Avrebbe veduto come mi comportavo. Per fortuna non avevo parlato da me solo a voce alta. Sotto questo aspetto avevo un’esperienza. Però era stato stupido, balzare in piedi.
In simili casi, una volta, il primo pensiero e anche il pensiero giusto era quello d’una denuncia. Chiunque durante una passeggiata nel bosco fa una scoperta orrenda si rivolge al più vicino posto di polizia.
Questa idea la esclusi sin dall’inizio. Gli anni in cui mi andavano a genio i bei gesti erano passati. Denunciare Zapparoni alla polizia significava accusare Ponzio a Pilato, e potevo calcolare a occhi chiusi che prima di sera sarei finito in carcere come mozzatore di orecchie. Una bella pacchia per le ultimissime edizioni della notte. No, questo consiglio me lo poteva dare soltanto qualcuno che avesse passato dormendo i trenta anni di guerra civile. Le parole avevano mutato significato, anche la polizia non era più polizia.
Del resto, anche oggi un tale che passeggiando in un bosco avesse trovato un orecchio avrebbe ancora denunciato la scoperta. Ma se in un angoletto del bosco avesse scorto, ovunque l’occhio si posasse, orecchie sparse in giro come ovuli malefici, allora che cosa avrebbe fatto? C’era da scommettere che si sarebbe ritirato in punta di piedi. Forse nemmeno il suo migliore amico, nemmeno la moglie avrebbero mai saputo nulla della scoperta. Sotto questo riguardo abbiamo l’udito sensibilissimo.
«Roba trovata non va toccata», ecco il principio, secondo il quale bisognava agire in questo caso. Certo, correvo così un altro rischio. Avrei ignorato un’azione abominevole e trascurato il mio dovere urgente e manifesto verso il prossimo. Da questo a diventare disumano c’è un passo solo.
Il caso era in tutti i sensi scabroso, in qualunque senso l’avessi risolto, agendo o non agendo. Il meglio era di comportarsi secondo il consiglio che avevo sentito una volta in un caffè viennese: «Nemmeno saperlo» ecco la parola d’ordine.
Anche così la prospettiva era sgradevole. Zapparoni poteva naufragare, fallire. Non sarebbe stato il primo superuomo a scomparire in quel modo. Ciò che avevo veduto nel suo giardino, somigliava più a una prova di mobilitazione che alla mostra d’una ditta mondiale. Poteva finire male, e in quel caso si sarebbe alzata una tempesta di sdegno, nella quale tutti coloro, che oggi si erano trincerati in un angoletto sicuro, avrebbero gareggiato con coloro che avevano bruciato incenso davanti al potentissimo Zapparoni. Gli uni avrebbero voluto indennizzarsi, gli altri giustificarsi. Tutti questi pinguini però sarebbero stati d’accordo sul conto del maggiore di cavalleria in ribasso, coinvolto nello scandalo delle orecchie mozzate. «Né sentito né veduto nulla, il caso classico», diceva il presidente, e sopra i gilè bianchi assentivano le teste dei presidenti.
Siccome la mia cattiva stella mi guida innegabilmente tra i vinti, già spesse volte avevo ricevuto lezioni di questo genere addirittura da quelli che per lunghi anni e anche la vigilia si erano seduti alla mia mensa. Ora servivano nella distrutta casa paterna in bianca veste di lacchè, alla mensa dei vincitori.
Per quel che mi riguarda, preferivo rimanere fedele alla mia vecchia uniforme; mi ci ero abituato. Mi era diventata cara, sebbene avesse parecchio risentito delle lunghe marce e delle giornate calde, quando le pallottole ci passavano a volo vicino alla testa. Era segnata dalla melma dei fossi, dalla polvere delle barricate, vi erano anche dei buchi. Erano buchi che passavano la stoffa, passavano la pelle. Certo non era un gilè bianco, ma una uniforme buona e collaudata; era sopravvissuta a monarchie e a repubbliche. In uniforme potevano mettermi sotto terra e risparmiarsi i loro fervorini.
Mi immaginavo volentieri i miei funerali; era una mia debolezza. Sarei morto povero e inglorioso, però presumibilmente due o tre cavalleggeri avrebbero accompagnato Teresa al cimitero. La sera avrebbero bevuto un bicchierino. Probabilmente Tommy Gilbert si sarebbe di nuovo sbronzato. L’avevo subito notato che gli bastavano poche gocce, e perciò mi ero meravigliato di vederlo sempre senza danari. La soluzione dell’enigma stava in questo, che in fondo era sempre leggermente brillo. Era la sua condizione normale. Già nella Prussia orientale faceva la prima colazione con un bicchierino di acquavite, prima di entrare nel glaciale maneggio, illuminato da lanterne fumose, dove il fiato degli uomini e dei cavalli era visibile quasi venisse esalato da trombe d’argento. Bastava un bicchierino perché Tommy Gilbert diventasse sentimentale. Allora c’era da divertirsi con lui. Avrebbe raccontato quel che avevamo fatto qua e là, infatti mi conosceva bene. L’avrebbe fatto perché gli piaceva raccontare aneddoti, ma anche per rallegrare un poco Teresa, e veramente, come un raggio di sole dopo una giornata triste, un sorriso avrebbe rischiarato il volto di lei. Mi sarebbe stato più caro questo, che il discorso di un pastore. Non avevo mai sopportato che Teresa portasse vestiti scuri. Sarebbe stata una bellissima giornata.