CAPITOLO I

QUANDO le cose ci andavano male, bisognava ricorrere a Twinnings. Ora mi trovavo seduto nel suo ufficio. Questa volta avevo aspettato troppo, avrei dovuto già da un pezzo risolvermi ad andare da lui, ma la miseria ci toglie ogni forza di volontà. Si resta rincantucciati nei caffè, finché ci resta qualche spicciolo, poi ci si siede dove capita e gli occhi fanno buchi nell’aria. Il periodo di iella non voleva più finire. Avevo ancora un vestito, col quale potevo ancora farmi vedere, ma quando facevo una visita non osavo accavallare le gambe, perché avevo la suola bucata. Sono casi in cui si preferisce stare soli.

Twinnings, col quale avevo servito nei cavalleggeri, aveva spesso saputo trovare una via d’uscita per me, come anche per altri camerati. Aveva buone relazioni. Dopo avermi ascoltato, mi fece capire che oramai potevo contare soltanto su lavori adeguati alle mie condizioni, cioè su lavori loschi. Aveva ragione da vendere; non potevo fare troppo lo schifiltoso.

Eravamo amici, e questo non significava molto, infatti Twinnings era amico di tutti quelli che conosceva e dei quali non era precisamente nemico. Era il suo mestiere. Che non avesse peli sulla lingua con me, non mi dava fastidio; mi dava piuttosto la sensazione di trovarmi dal dottore, che ausculta e parla chiaro. Prese il bavero della mia giacca e ne scrutò la stoffa. Subito vidi le macchie che c’erano sopra, come se la vista mi si fosse acuita.

Poi analizzò lo stato in cui mi trovavo. Ero già frusto, e con parecchia esperienza, ma poco o nulla avevo fatto che potesse raccomandarmi: ero costretto ad ammetterlo. I posti migliori erano quelli dove si guadagna tanto e si lavora poco, e che ci fanno invidiare da tutti. Però avevo forse parenti che potevano distribuire onori e incarichi, come ad esempio Paolino Domann, che aveva il suocero costruttore di locomotive, e che guadagnava in una colazione più di quanto molta gente si metta in tasca in un anno sgobbando la domenica più che nei giorni feriali? Più grossi sono gli oggetti che si smerciano, tanto meno si fatica; una locomotiva si vende più facilmente d’un aspirapolvere.

Avevo uno zio che era stato senatore, ma era morto da lungo tempo. Nessuno lo ricordava più. Mio padre aveva avuto un’esistenza tranquilla da impiegato; la piccola eredità era consumata da anni. Avevo sposato una donna povera. Con un senatore morto e una moglie che va ad aprire personalmente la porta quando suona il campanello, non v’è molto da sfoggiare

Poi c’erano i posti dove si lavora molto e alla fine si guadagna poco. Bisognava andare di casa in casa, offrendo frigoriferi o macchine lavatrici, finché a uno viene «l’angoscia della maniglia». Oppure affliggere vecchi compagni, aggredendoli alla sprovvista durante una visita, con una assicurazione sulla vita. Twinnings vi passò sopra con un sorriso, e gliene fui riconoscente. Avrebbe potuto domandarmi se sapevo fare di meglio. Sapeva, certo, che avevo lavorato nel collaudo dei carri armati, però sapeva che là ero iscritto nella lista nera. Su questo tornerò.

Rimanevano i lavori rischiosi. Si viveva bene, con un ottimo trattamento, ma non si dormiva tranquilli. Twinnings ne esaminò alcuni, erano impieghi simili alla polizia. Chi non aveva oggi la propria polizia? I tempi erano incerti. Bisognava proteggere vita e proprietà; sorvegliare terreni e trasporti, difendersi da ricatti e da violenze. L’insolenza cresceva in rapporto diretto con la filantropia. Da un certo gradino della scala sociale in su, non ci si poteva più fidare della forza pubblica, ma bisognava avere un bastone in casa.

Però anche qui l’offerta era molto inferiore alla richiesta. I posti buoni erano già occupati. Twinnings aveva molti amici, e per i vecchi soldati erano tempi brutti. C’era Lady Bosten, una vedova immensamente ricca e giovane ancora, che tremava sempre per i propri figli, specialmente da quando era stata abolita la pena di morte per il ratto di bambini. Ma Twinnings l’aveva già accontentata.

Poi c’era ancora Preston, il magnate del petrolio, infatuato ora dell’ippica, fanatico della sua scuderia come un antico bizantino, un ippomane che non temeva nessuna spesa pur di poter soddisfare la sua passione. Teneva i cavalli come semidei. Ognuno di noi cerca di mettersi in vista, e a questo fine Preston giudicava più adatti i cavalli che una flotta di petroliere o una foresta di torri di tralicci. Infatti gli portavano principi in casa. Però gli davano anche molte seccature. Nelle stalle, durante i trasporti e sulle piste bisogna tenere gli occhi bene aperti. Si era minacciati dagli accordi tra fantini, dalla gelosia di altri tifosi, dalle passioni collegate con le grosse scommesse.

Non c’è diva che bisogna sorvegliare come un cavallo da corsa, il quale dovrà vincere il Gran Premio. Ecco un posto per un antico cavaliere, per un uomo che abbia occhio attento e un cuore per i cavalli. Ma là si era già insediato Tommy Gilbert e aveva messo a posto con sé la metà del suo squadrone. Preston lo teneva come la pupilla degli occhi.

Twinnings fece il conto di questi e di altri posti come un cuoco dei piatti prelibati che sono stati cancellati dalla lista. Tutti i mediatori hanno quest’abitudine. Voleva farmi venire l’appetito. Finalmente uscì con offerte possibili: c’era da scommettere, che allora doveva esservi più di una mosca nella minestra.

Ecco Giacomo Zapparoni, un altro di quelli che non possono contare il danaro che hanno, sebbene il padre fosse venuto d’oltralpe col bastone in mano. Non si poteva aprire un giornale, una rivista, mettersi a sedere davanti a uno schermo, senza imbattersi nel suo nome. Le sue opere erano a portata di mano; egli aveva costruito un monopolio sfruttando le invenzioni altrui, ma anche le proprie.

I giornalisti raccontavano cose fiabesche su quel che egli produceva. Si regala a chi ha: probabilmente lasciavano libero campo alla loro fantasia. Le officine Zapparoni costruivano dei robot per ogni scopo immaginabile. Eseguivano ordinazioni speciali e anche modelli in serie che si potevano trovare in ogni famiglia. Non erano i grandi automi, ai quali si pensa subito nell’udir parlare di robot. La specialità di Zapparoni erano i robot lillipuziani. A parte alcune eccezioni, i più grandi erano su per giù delle dimensioni di un cocomero, mentre i più piccoli erano minuscoli e rammentavano le curiosità cinesi. Operavano come formiche intelligenti, però sempre in gruppi che lavoravano come meccanismi, dunque non secondo reazioni chimiche o fisiche. Così volevano le massime commerciali di Zapparoni, o, se si preferisce, le sue regole del gioco. Spesso pareva che, tra due soluzioni, egli preferisse a ogni costo la più raffinata. Ma questo era proprio del tempo, e favoriva i suoi interessi.

Zapparoni aveva cominciato con piccolissime tartarughe, che chiamava selettori e che erano preziose nei più sottili processi di selezione. Contavano, pesavano e assortivano pietre preziose e biglietti di banca, scartando i falsi. Il principio si era presto esteso al lavoro in campi pericolosi, al lavoro degli esplosivi e delle sostanze infette o radioattive. C’erano sciami di selettori che non soltanto scoprivano piccoli focolai d’incendi, ma li spegnevano anche sul nascere, altri che correggevano le manchevolezze nelle condutture e altri ancora che si nutrivano di sporcizia e diventavano indispensabili in ogni operazione che richiedesse una pulizia perfetta. Mio zio, il senatore, il quale vita natural durante aveva patito per la febbre del fieno, poteva risparmiarsi i viaggi in alta montagna, da quando Zapparoni aveva messo in commercio selettori allenati contro il polline.

Presto i suoi apparati erano diventati indispensabili, non soltanto nell’industria e nella scienza, ma anche nella casa. Risparmiavano la mano d’opera e conferivano alla tecnica una vita sconosciuta in passato. Un cervello ingegnoso aveva scoperto una lacuna che nessuno aveva veduto prima di lui; e l’aveva colmata. Ecco come si fanno gli affari migliori, i più grossi.

Twinnings accennò a quello che credeva fosse il punto debole di Zapparoni. Non lo sapeva con precisione; però da un calcolo approssimativo, sembrava fosse nei suoi rapporti con gli operai. Quando si ha l’ambizione di costringere la materia a pensare, non si può fare a meno di cervelli originali. Tanto più quando si deve lavorare su dimensioni ridottissime. Probabilmente in principio fu meno difficile fare una balena che un colibrì.

Zapparoni disponeva d’una base di eccellenti forze tecniche. Preferiva che gli inventori, i quali gli portavano modelli, entrassero stabilmente al suo servizio. Riproducevano le proprie invenzioni o le trasformavano. Il che era necessario soprattutto in tutte le sezioni soggette alla moda, ad esempio per i giocattoli. Non si erano mai vedute follie come nell’èra di Zapparoni. Aveva creato un regno lillipuziano, un vivente mondo di nani, che faceva dimenticare il tempo, in un miraggio, non soltanto ai bambini ma anche ai grandi. Superiore al gioco della fantasia. Però questo teatro di nani ogni anno, a Natale, doveva essere ornato di nuove scene, popolato di nuove figure.

Zapparoni occupava operai ai quali assegnava stipendi da professori, anzi, da ministri. Glieli rendevano lautamente. Un licenziamento significava per lui una perdita insostituibile, anzi, una catastrofe, se l’operaio avesse continuato il lavoro altrove, sia in patria, sia, peggio ancora, all’estero. La ricchezza di Zapparoni, la sua potenza monopolistica riposavano non soltanto sul segreto professionale, ma anche sopra una tecnica di lavoro che era stato possibile mettere insieme soltanto nel corso di decine e decine di anni, e nemmeno da tutti. E questa tecnica dipendeva individualmente dall’operaio, dalle sue mani, dalla sua testa.

Tuttavia pochi avevano la velleità di abbandonare un lavoro dove erano trattati e pagati in modo principesco. Qualche eccezione però c’era. È un’antica verità che l’uomo non si contenta mai. Inoltre gli operai di Zapparoni erano oltremodo difficili a trattare. Questo dipendeva dal carattere molto personale del lavoro; il contatto con oggetti piccolissimi e spesso bizzarri generava col tempo uno spirito stravagante ed esageratamente scrupoloso, creava indoli che si infastidivano per un pulviscolo nei raggi del sole e trovavano un pelo in ogni uovo. Costoro erano artisti capaci di fabbricare ferri per i piedi delle pulci e attaccarli con le viti. Rasentavano i limiti della pura fantasia. Il mondo degli automi zapparoniani, già abbastanza strano in sé, era animato da spiriti che si abbandonavano alle bizzarrie più strambe. Nel suo ufficio privato, si diceva, avvenivano spesso scene da gabinetto di grande alienista. Purtroppo non c’erano ancora robot capaci di produrre altri robot. Sarebbe stata la pietra filosofale, la quadratura del cerchio.

Zapparoni dovette rassegnarsi ai fatti. Appartenevano all’essenza delle sue aziende. Vi si rassegnò e non senza abilità. Nella sua officina modello egli riservava per sé i rapporti coi dipendenti, rivelandovi il fascino, la versatilità d’un impresario meridionale. Arrivava così sino ai limiti del possibile. Essere sfruttati un giorno da Zapparoni, era il sogno di tutti i giovani appassionati della tecnica. Di rado egli perdeva il dominio di sé e l’amabilità. Ma allora accadevano scenate tremende.

Naturalmente, egli cercava di garantirsi nei contratti di assunzione, sia pure con molto garbo. I contratti erano a vita, provvedevano stipendi mobili, premi, assicurazioni e, in caso di rottura di contratto, punizioni e penali. Chi aveva concluso un contratto con Zapparoni e poteva chiamarsi maestro o autore nelle sue officine, poteva ben vantarsi di essersi fatto una bella posizione. Aveva la sua casa, la macchina, le vacanze pagate a Teneriffa o in Norvegia.

Certo, v’erano le restrizioni. Erano però appena sensibili, e consistevano, per dire pane al pane, in un ben calcolato sistema di vigilanza. A questo fine servivano diverse istituzioni, chiamate con i nomi insignificanti con i quali oggidì si camuffa il servizio di sicurezza: uno si chiamava, credo, Ufficio di Liquidazione. Gli incartamenti, che vi si conservavano su ogni impiegato delle officine Zapparoni, erano simili agli incartamenti della polizia, ma molto più particolareggiati. Oggi bisogna conoscere bene gli uomini, per sapere che cosa c’è da attendersi da loro, perché le tentazioni sono grandi.

In tutto ciò non v’era nulla di riprovevole. Le precauzioni contro gli abusi di fiducia fanno parte dei doveri di colui che vuole dirigere una grande officina. Se si sapeva aiutare Zapparoni e salvaguardare i suoi segreti d’ufficio, si stava dalla parte buona.

Però che cosa accadeva se uno di questi tecnici si congedava legalmente? O se semplicemente se n’andava, e pagava la penale convenuta? Era questo un punto debole nel sistema di Zapparoni. In fin dei conti non poteva legarli con le corde. Era un grosso pericolo per lui. Nel suo interesse doveva dimostrare che questi licenziamenti non giovavano a chi si licenziava. Vi sono molti mezzi per richiamare qualcuno all’ordine, specialmente quando non si bada minimamente al danaro.

Per cominciare, si può levargli il fiato con le cause. E questo poteva bastare per mettere giudizio a parecchi. Ma c’erano lacune nella legge, che già da molto tempo non teneva dietro allo sviluppo tecnico. Ad esempio in questo caso come definire i diritti d’autore? Lo splendore che fioriva al vertice dell’opera collettiva non apparteneva al merito personale, e non poteva così semplicemente essere staccato e portato via. E così l’abilità tecnica, che si era sviluppata nel corso di trenta, quarant’anni con l’aiuto e a spese dell’officina. Non era soltanto una proprietà individuale. Ma l’individuo era indivisibile o no? Ecco questioni per le quali il senno grossolano della polizia non era sufficiente. Vi sono posti di fiducia, che sottintendono indipendenza. Il difficile sta nell’indovinare; non si fa nessun diretto accenno né per iscritto né a voce. Bisogna comprendere per intuito.

Questo, press’a poco, potei dedurre dagli accenni di Twinnings. Erano combinazioni, supposizioni. Forse egli sapeva di più, forse anche meno. In simili casi si preferisce dire troppo poco anziché troppo. Avevo già capito abbastanza: si cercava un uomo che si assumesse l’incarico dei panni sporchi.

Non era posto per me. Non voglio parlare di morale, sarebbe ridicolo. Avevo preso parte alla guerra civile nelle Asturie. In simili avventure nessuno conserva le mani pulite, sia che stia sopra o sotto, a destra o a sinistra. Si incontravano laggiù tipi con un registro di peccati che avrebbero spaventato anche i padri confessori più induriti. Certo nemmeno in sogno pensavano di confessarsi, anzi, quando erano riuniti, dimostravano il più grande buonumore, si vantavano persino delle loro iniquità, come direbbe la Bibbia. Non vedevano di buon occhio gli uomini dai nervi delicati, però avevano un loro galateo. Un posto come quello proposto da Twinnings, nessuno di essi, per quanto nera avesse la coscienza, l’avrebbe accettato, finché voleva serbare la stima dei compagni. Sarebbe stato escluso dalla compagnia, dalla mensa, dal campo. Nessuno si sarebbe più fidato di lui o avrebbe aperto bocca in sua presenza o si sarebbe aspettato aiuto da lui quando si fosse trovato nei guai. Persino nelle carceri, in galera si ha ancora la sensibilità desta per queste cose.

Avrei dunque potuto alzarmi subito, dopo avere inteso la storia di Zapparoni e dei suoi querelanti, se non avessi avuto Teresa che mi aspettava a casa.

Questa era l’ultima possibilità, e lei si aspettava molto da quella visita.

Io m’intendo poco di quanto riguarda il danaro e il modo di guadagnarlo. Nel mio oroscopo, Mercurio deve essermi ostile. Invecchiando si fa sempre più evidente. Nei primi tempi eravamo vissuti della mia liquidazione e poi avevamo venduto della roba, ma oramai da vendere non c’era altro. In ogni casa, c’è un angoletto dove prima stavano i lari e i penati, e dove oggi si custodisce ciò che non si potrà mai cedere. Nel caso nostro erano alcuni premi vinti alle corse e altri cimeli dello stesso genere in parte provenienti ancora dal babbo. Da poco li avevo portati all’argentiere, Teresa credeva che la loro perdita mi addolorasse. Soprattutto pensava di rappresentare un peso per me; era la sua idea fissa. Invece avrei dovuto muovermi da un bel po’: tutta la miseria derivava dalla mia dabbenaggine, dalla mia antipatia per gli affari.

Se c’è qualcosa che non posso sopportare, è la parte del martire. Mi fa bollire il sangue, essere preso per una brava persona. Ed era proprio l’abitudine di Teresa, che mi girava intorno come se fossi un santo. Mi vedeva sotto una falsa luce. Avrebbe dovuto sgridarmi, rimproverarmi, rompere vasi da fiori, ma purtroppo non era donna di questo genere.

Già da scolaro non lavoravo volentieri. Quando le cose si mettevano male, mi facevo venire la febbre. Ne avevo il mezzo. Dopo, quando ero a letto e mia madre veniva con limonate e compresse, non mi pentivo del mio inganno, anzi me ne compiacevo. Però non volevo essere viziato come povero malato. Cercavo allora di rendermi insopportabile, ma più mi riusciva, più preoccupazione destavo.

Qualcosa di simile mi capitava con Teresa; non potevo pensare alla sua faccia quando sarei tornato a casa senza speranza. Me l’avrebbe subito visto in viso, appena aperta la porta.

Forse vedevo la proposta in una luce troppo sfavorevole. Ero ancora pieno di pregiudizi antiquati, che non mi fruttavano nulla. Da quando tutto doveva essere fondato su contratti, senza che i contratti fossero basati su giuramento od onestà dell’individuo o comportassero un’espiazione, non c’era più né fedeltà né fiducia. In questo mondo mancava ogni disciplina. Vi si erano sostituite le soluzioni catastrofiche. Si viveva in una perpetua inquietudine, nella quale l’uno non si fidava dell’altro: ne ero forse responsabile io?

Twinnings, che mi vedeva indeciso, parve riconoscere il mio punto debole; disse:

«Teresa certamente sarebbe felice se tu tornassi con qualcosa di sicuro».