CAPITOLO XI

NELLA casa e sul terrazzo pareva che il tempo avesse rallentato il corso. Si ha un sentimento simile quando attraversando i boschi si passa nelle zone più antiche. Nessun segno ci avvertiva che non si era nella prima metà del secolo decimonono o meglio ancora nel decimottavo. I muri, le travature, i tessuti, le pitture e i libri, tutto attestava una lavorazione solida. Si sentivano le antiche misure, il piede, il braccio, il pollice, il palmo, la linea. Si sentiva che alla luce e al fuoco, al letto e alla mensa si accudiva ancora all’antica, si sentiva il lusso della cura umana.

L’esterno era diverso, sebbene fosse gradevole camminare sulla sabbia soffice e gialla come l’oro. Ogni due o tre passi, le orme si cancellavano. Vedevo un piccolo vortice, come se un animaletto nascosto nella sabbia si scuotesse. Poi il sentiero tornava a stendersi liscio come prima. Però non avevo bisogno di questa percezione per notare che qui il tempo scorreva più rapidamente e che ci voleva una maggiore vigilanza. Nei bei tempi passati si giungeva in luoghi dove c’era «odore di polvere». Oggi la minaccia è più anonima, è nell’atmosfera; però la si sente. Si entra in regni nuovi.

Il sentiero incantava; invitava a sognare. A volte il ruscello gli si avvicinava tanto da rasentarlo. Sulle sue sponde fioriva l’iris gialla, e sulle rive sabbiose il tartaro. Dei martin pescatori svolazzavano sopra e scendevano a bagnarsi il petto.

Sopra le peschiere, nelle quali i monaci avevano allevato le carpe, cresceva un tappeto verde, limitato da orli chiari. Là ingiallivano le lenticchie d’acqua, impallidivano gusci di limnee e elici. C’era odore di muffa, di menta e di corteccia d’ontano, di palude calda e umidiccia. Pensai a torride giornate d’estate, nelle quali noi ragazzi avevamo pescato con piccole reti in peschiere come quella. Si tiravano a fatica le gambe dalla melma che si attaccava come una ventosa, e quel medesimo odore saliva dalle nostre orme.

Ero già arrivato al muro di confine; il ruscello ne usciva scorrendo attraverso una inferriata. Alla sinistra appariva anche il tetto di paglia. Posava sopra pali rossi, senza nessuna parete fra l’uno e l’altro, e coronava piuttosto un boschetto che un chiosco. Probabilmente era destinato a difendere dalla pioggia o dai raggi del sole, ma non dal vento o dal freddo, chi voleva trattenersi in questa zona del parco. Una parte del tetto sporgeva, come un ombrello. Sotto stavano sedie di vimini e un tavolino da giardino verde. Qui dunque avrei dovuto attendere il mio destino.

La gente molto ricca ama la semplicità. Il padrone di casa pareva si sentisse bene qui, non era difficile capirlo. Utensili, appoggiati e appesi ai pilastri, accennavano a passatempi piacevoli. Vi si vedevano lenze, reti, nasse per gamberi, acciarini, lanterne cieche, in breve tutta l’attrezzatura del pescatore lacustre o fluviale, per la pesca di giorno o di notte. A una delle colonne pendeva uno schioppo da caccia con una maschera da apicoltore, a un’altra una lunga faretra coi bastoni per il golf. Sul tavolo stava un binocolo. Non potei sottrarmi al fascino casalingo di quel che vedevo, sebbene anche tra quella natura morta rimanessi cosciente del «regno». Il boschetto era circondato da gigli tigrati.

Adesso mi trovavo vicinissimo al campo arato dal contadino, deserto, poiché il lavoro era finito. Era suonato mezzogiorno; il contadino aveva arato per la classica misura di una mattinata. Questo campo confinava con un prato, d’un verde più delicato, quasi fosse stato importato dalla contea di Devon. Una redola che lo traversava conduceva sopra un leggero ponte. Doveva essere il campo di golf. Presi il binocolo per osservarlo, era raso come velluto. Tolte le buche non si vedeva la più piccola macchia calva, né traccia di erbacce.

Il binocolo era eccellente; aguzzava la vista in modo maraviglioso. Avevo imparato a conoscere un binocolo negli anni in cui collaudavo i carri armati, fra i miei incarichi c’era anche la verifica dell’ottica. Quel binocolo era fatto per un campo limitato, come un binocolo da teatro. A distanze vicine e medie non soltanto avvicinava gli oggetti, ma li ingrandiva.

Se di qua del ruscello continuava il prato, però qui era ancora pieno di erbacce non falciate. Mi contentai di fissare i fiori che vi si trovavano rappresentati. Il macerone portava già le semenze; vedevo ogni pelo dei suoi minuscoli paracadute. Il terreno era paludoso; ogni tanto, anzi molto vicino a me, si intravedeva l’acqua. Queste pozze erano circondate da giunchi, che portavano ancora le candele dell’anno avanti. Misurai la forza delle lenti osservando i punti dove si era accumulata la lanuggine. Ne distinguevo le più sottili fibre. Sull’orlo torbiccio dello specchio d’acqua cresceva la drosera. Faceva onore al suo nome; goccioline di rugiada scintillavano alla luce del meriggio. Una delle foglioline aveva preso prigioniera una zanzara e l’aveva circondata di fili che le impedivano la fuga. Era un ottimo binocolo.

Nel fondo il muro chiudeva il campo di visione. Era coperto di edera e pareva facile scavalcarlo; Zapparoni non avrebbe avuto bisogno di quest’ostacolo. Non gli occorrevano né ringhiere né cani da guardia, infatti nell’interno della zona tutti si limitavano alle strade permesse e facevano bene.

Le arnie di vimini erano vicine vicine al muro, sotto la sua ombra. Pensai all’ammonimento di Zapparoni, sebbene non avessi intenzione di allontanarmi dal posto dove sedevo sotto il caldo sole. Non so se le api osservassero il riposo di mezzogiorno, comunque se ne vedevano poche.

Era stato un atto amichevole quello di avvertirmi che fossi cauto con gli animali, deponeva in suo favore. Le api sono animali pacifici; non c’è bisogno di temerle, se non si aizzano per capriccio.

Cioè vi sono eccezioni. Quando ci trovavamo nella Prussia orientale, regione dove i cavalieri e i cavalli si sentono a loro agio e dove si fa anche molta apicultura, dovevamo difenderci al tempo degli sciami. In quell’epoca le api sono irritabili e sensibili a certi odori, ad esempio quello di cavalli accaldati dalla corsa o di uomini avvinazzati.

Un giorno facemmo colazione in un frutteto. Doveva essere un’occasione festiva, forse un compleanno, infatti c’erano sulla tavola del vino e del Baerenfang.5 Una sbornia di mattino ha un fascino speciale. Si tornava da una cavalcata e ci eravamo messi subito all’opera. C’era anche Wittgrewe.

L’aria era deliziosa, piena del profumo di innumerevoli fiori. Le api ronzavano qua e là affaccendate. Ben presto ci accorgemmo che erano meno pacifiche del solito e che ora questo, ora quello della nostra allegra brigata era stato punzecchiato.

In quella età tutto invita allo scherzo. Decidemmo di stare a vedere chi sarebbe diventato re delle api: chi si fosse preso il massimo numero di pinzi, avrebbe dovuto saldare il conto della sbornia.

Siccome in tavola c’era già parecchia roba, rimanemmo seduti là come pupazzi alzando soltanto molto piano il bicchiere alla bocca. Nondimeno le api insistevano nei loro attacchi. Chi si sentiva pungere sulla fronte da uno di quegli animaletti, che gli si era impigliato tra i capelli, chi alzava la mano al colletto, chi si toccava un orecchio rosso come fuoco. Smettemmo quando un grasso furiere dai capelli rossi, che sudava già parecchio, si fu buscato dodici pinzi riducendosi irriconoscibile. La sua testa si era fatta grossa come una zucca bionda, era una cosa preoccupante.

«È chiaro che lei non potrà mai permettersi di tenere delle api», gli disse l’oste. Siccome tutti gli altri erano stati toccati soltanto una o due volte o anche non toccati affatto, sembrava davvero che le api facessero una scelta. Contro di me non avrebbero fatto nulla.

Quel ricordo mi metteva di buonumore come un aneddoto del tempo degli avi. Si era allora molto vicini alla frontiera, al di là dei pali stava un reggimento di cosacchi. Ci si scambiava con loro visite, inviti a caccia o gare di corsa. In quelle occasioni, si vedevano adunate di cavalieri quali adesso non si vedono più.

Come è possibile che il tempo si sia oscurato così rapidamente, troppo rapidamente per una breve vita, per una sola generazione! È come se un momento prima si fosse stati seduti a ridere e a chiacchierare in una bella sala e poi, attraversate tre o quattro stanze, tutto fosse diventato spaventoso. Chi sospettava allora, quando noi si beveva con gli hetman, quanto era vicina dietro a ciascuno di noi la morte. Si combatteva allora apparentemente in due campi opposti, eppure fummo abbattuti dalla medesima macchina. Dove sono rimasti tutti quei ragazzi, che si esercitavano alla scherma con la lancia e con la sciabola, e dove sono i loro cavalli arabi, i cavalli di Trakehnen,6 i cavalli della steppa che portavano il padrone con tanta delicatezza ed erano così infaticabili?

Alla fine, tutto ciò può esser stato soltanto un sogno.

Zapparoni mi faceva attendere. Ripensai alla conversazione con lui sul terrazzo e il mio buonumore scomparve. Come aveva illuminato senza fatica, con due o tre domande, quella parte del mio carattere che gli premeva conoscere. Per questo mi aveva condotto sul mio terreno, sul campo della mia forza. E in un breve quarto d’ora aveva messo a nudo il mio punto debole, il mio disfattismo, la ragione per cui non ero un grande uomo come Fillmor, ma un maggiore a riposo, senza possibilità. Fillmor certo non aveva mai sparso una sola lacrima sui cavalli. Sebbene anche a cavallo avesse fatto una buona figura, me ne ricordavo, era sempre rimasto uno di quei signori pettoruti che ha dipinto Kobell.7 L’unione grande, divina con l’animale, egli non l’aveva conosciuta.

Ci vuole molto tempo per capire i propri difetti, e qualcuno non vi arriva mai. Il mio difetto consisteva nel rifiuto di accettare il consueto. Nel mio modo di giudicare e spesso anche di agire mi distaccavo dalla mia cerchia, era già evidente quando vivevo in famiglia e continuava ora nella vecchiaia.

Fin da allora rifiutavo il menù di tutti.

Piace che ciascuno abbia la propria opinione. Ma questo vale soltanto entro certi limiti. In fondo vale più per il modo in cui una determinata persona si esprime. Un grande uomo come Fillmor in fondo dice soltanto luoghi comuni, ma li dice con grande precisione, autorevolmente. Ognuno sente: questo avrei potuto dirlo anch’io. Qui sta la forza.

Se su una leggenda come quella delle bandiere bianche abbiamo un’opinione propria, faremo bene a tenerla per noi, specialmente dove sono in gioco le passioni. Probabilmente avevo suscitato in Zapparoni il timore che, se mi avesse ingaggiato, avrebbe trovato soltanto un litigioso di più. Intanto Teresa a casa aspettava.