CAPITOLO IV
DOPO che il servitore mi ebbe condotto nella biblioteca, mi lasciò solo. Era d’una cortesia perfetta. Accenno a questo particolare, perché illumina in quale stato d’animo sospettoso mi trovavo. Osservavo tutti quelli con cui venivo a contatto, ed ero pronto a offendermi molto più facilmente di prima. Il contegno del servitore lasciava concludere, a ogni modo, che il padrone di casa non aveva detto qualcosa di sfavorevole sulla mia visita. Be’, dubitavo ancora di vederlo, probabilmente tra breve sarebbe entrato uno dei suoi segretari.
La biblioteca era tranquilla e piacevole. Dai libri emanava una calma dignità. Erano ordinati negli scaffali, rilegati in pergamena chiara, in pelle di vitello sbalzato e in marocchino marrone. I volumi di pergamena portavano i titoli scritti a mano; quelli col dorso di pelle lo avevano su tasselli rossi o verdi o direttamente in lettere d’oro. Nonostante fosse antica, quella raccolta di libri non dava l’impressione di servire da tappezzeria, ma di essere adoperata. Lessi alcuni titoli, che mi dicevano ben poco: tecnica primitiva, cabala, rosacroce, alchimia. Forse una mente si riposava lì, lungo antiche vie tortuose ormai nascoste dagli sterpi.
Per lo spessore dei muri la stanza sarebbe stata oscura se non avesse ricevuto molta luce attraverso le finestre, che giungevano quasi sino in terra. La porta a vetri era spalancata sopra una ampia terrazza.
Lo sguardo mi cadde sul parco come sopra un quadro antico. Gli alberi erano raggianti nel fresco splendore delle fronde; l’occhio sentiva come bagnavano le radici nel terreno, schierati lungo le sponde d’un ruscello che scorreva pigro e a volte si allargava formando piccoli stagni sui quali riluceva un corpetto verde di muschi acquatici. Un tempo erano quelle le peschiere dei monaci; i cistercensi avevano costruito, come i castori, nelle paludi.
Era stata una vera fortuna che i muri fossero ancora in piedi. Per lo più, e soprattutto nella vicinanza delle città, questi recinti sono stati demoliti e hanno servito come cave di pietre. Qui invece si vedeva ogni tanto attraverso le fronde degli alberi la pietra grigia. Pareva che le mura chiudessero anche campi coltivati, infatti vidi lontano un contadino che camminava dietro all’aratro. L’aria era limpida; il sole luccicava sopra la pelle dei cavalli e sulla zolla che tagliata ricadeva. Il quadro era sereno, anche se lasciava perplessi nel campo d’un uomo che tra l’altro commerciava in trattori per giardino, i quali come talpe rendevano soffice il terreno delle aiuole. Intanto in casa sua tutto rivelava il suo gusto per le muse. Secondo ogni apparenza, egli non voleva vedere macchine, quando contemplava i suoi alberi e le sue peschiere dalla terrazza.
Questo gli procurava anche il vantaggio che sul suo tavolo giungevano soltanto frutti coltivati secondo le antiche norme. Anche qui valeva l’osservazione che le parole hanno mutato significato. Infatti il pane non è più pane e il vino non è più vino. Sono prodotti farmaceutici sospetti. Bisogna essere eccezionalmente ricchi oggidì per evitare gli avvelenamenti. Quello Zapparoni era senza dubbio un volpone che sapeva vivere nel castello Malepartus e precisamente a spese degli stupidi, come un farmacista il quale si facesse pagare oro le sue droghe e panacee mantenendosi sano secondo le regole dei padri.
In quel luogo v’era davvero una gran pace. Il ruggito delle officine, dei parcheggi e delle strade vi arrivava soltanto come un sottile brusio attraverso le cime frondose. In compenso si sentivano le melodie degli storni e dei fringuelli, e nei tronchi marci il martellio del picchio. I tordi saltellavano e si posavano sui tappeti erbosi e a volte risuonava in fondo allo stagno il tonfo d’un carpione che guizzava. Sulle aiuole piccole e grandi folte di fiori davanti alla terrazza, incrociavano le api e si dividevano con le farfalle la dolce preda. Era una giornata di maggio nel suo pieno splendore.
Dopo avere contemplato le pitture e i libri dagli strani titoli sedetti a un tavolino, davanti al quale stavano due sedie; e guardai attraverso la porta spalancata. L’aria era più pura che in città, quasi inebriante. L’occhio riposava sugli annosi alberi, sui verdi stagni e sul campo bruno in distanza, dove il contadino tracciava i solchi tornando indietro quando arrivava in fondo.
Come in una tepida giornata di primavera sentiamo ancora l’inverno nelle ossa, così davanti a questo quadro sentivo la scontentezza che aveva turbato la mia vita in quegli anni. Un soldato di cavalleria dimissionario faceva una triste figura in mezzo a quelle città dove nessun cavallo nitriva più. Come era mutato tutto dal tempo di Monteron! Le parole avevano perso il loro significato, e la guerra non era più guerra. Monteron si sarebbe rivoltato nella tomba se avesse saputo che cosa chiamano guerra oggi. In fondo anche la pace non era più pace.
Avevamo cavalcato ancora due o tre volte sulle pianure dove, sin dai tempi della migrazione dei popoli, cavalieri armati si erano sempre mossi. Ben presto avremmo sperimentato che non era più possibile. Avevamo portato ancora le belle divise dai bei colori delle quali eravamo fieri e che splendevano di lontano. Però non vedevamo più l’avversario. Si era presi di mira a grande distanza da tiratori invisibili, e gettati di sella. Quando li raggiungevamo, li trovavamo chiusi in bozzoli di filo spinato che tagliavano la corona dei cavalli e sopra i quali non si poteva saltare. Fu la fine della cavalleria. Dovemmo appiedarci.
Nei carri armati si stava stretti, nel caldo e nello strepito, pareva di essere seduti in una caldaia martellata da fabbri. Esalavano odore di olio, di combustibile, di caucciù, di nastro isolante bruciacchiato e di amianto e, quando si giungeva a distanza di tiro, anche della polvere che usciva dai cartocci. Si sentiva tremare il terreno bagnato, poi colpi netti e più vicini; presto anche i colpi arrivavano a segno.
Non erano i grandi giorni della cavalleria, di cui Monteron ci aveva raccontato. La nostra era una fatica meccanica soffocante, invisibile, ingloriosa e sempre accompagnata dalla visione della morte, che non si lasciava più respingere. Mi faceva nausea che lo spirito dovesse piegarsi così davanti alla potenza della fiamma, però deve essere una tendenza profondamente radicata nella natura umana.
Inoltre il mestiere aveva preso un carattere sospetto. Feci presto l’esperienza che anche i soldati non erano più soldati. La sfiducia era reciproca e influiva anche sul servizio. Prima era bastato il giuramento alla bandiera. Ora bisognava arruolare innumerevoli poliziotti. Fu un mutamento sconcertante. In una sola notte era diventato errore, anzi delitto, ciò che prima era stato dovere. Ce n’accorgemmo quando dopo la guerra perduta tornammo in patria. Le parole avevano perso il significato, forse anche la patria non era più patria? Perché se n’erano andati di là tutti, Monteron e i suoi?
Era una domanda che deprimeva e non soltanto me, ma molti altri. Cominciammo a scervellarci e non trovammo la soluzione. Venne fuori che la nostra era stata un’educazione vigorosa, sì, ma troppo ristretta. Non comprendevamo le cose più semplici. È innegabile che di due eserciti in guerra tra loro, se non si arriva a fare partita patta, uno bisogna che sia sconfitto. Non potevamo darci pace che questa sorte fosse toccata a noi. Non potevamo tirare le somme; ci doveva essere entro di noi un punto cieco. Non si riusciva ad accettare la disfatta, che era pure così manifesta, così palese.
Nulla sarebbe potuto essere più contrario all’evidenza. Avremmo dovuto ingoiarla, digerirla come una medicina amara. Invece cominciammo a persuaderci che soltanto il tradimento aveva potuto abbatterci, e che eravamo stati vinti contro le regole del gioco. E questo doveva per forza condurci sopra una strada sbagliata.
Ripenso malvolentieri a quegli anni, in cui tutto si era mutato; e vorrei estirparli dalla memoria come un cattivo sogno. Ciascuno vedeva nell’altro il colpevole. Dove l’odio partecipa alla semina, non si può raccogliere che gramigna.
Una terribile esperienza mi guastava questi ricordi. Mi deve essere capitata nel tempo in cui rovesciammo il monumento; era stato eretto a uno dei nuovi tribuni, il quale era di nuovo diventato impopolare. Anche questa è una delle parole che vivono perché una volta vi fu un impero romano. Avevamo bevuto; era mezzanotte, e il monumento giaceva nella luce livida d’un terreno dove si costruiva una casa. Gli operai ci prestarono le loro mazze e facemmo un lavoro così pulito, che soltanto due immensi stivali di cemento armato rimasero dritti. Non ricordo quasi più né il luogo né i nomi connessi con quell’oscuro scandalo delle erme; chi se ne interessa, come Zapparoni, può leggerlo nei miei documenti.
Eravamo soliti incontrarci presso un compagno, che abitava in una camera mobiliata all’ultimo piano di una di quelle case che venivano costruite allora, in fretta e prive di solidità. La camera aveva una finestra larga, dalla quale si guardava giù nel cortile, che dall’alto pareva appena più grande d’una carta da gioco, come in fondo a un pozzo. Il camerata si chiamava Lorenzo; era un ragazzo snello, un po’ nervoso e anche lui aveva servito nei cavalleggeri. Gli volevamo bene tutti; si ritrovava in lui qualcosa dell’antica libertà, dell’ antica leggerezza. Quasi ognuno aveva una sua idea fissa, allora; era una speciale caratteristica degli anni che seguirono a quella guerra. Egli era convinto che la macchina fosse la fonte di tutti i mali. Perciò voleva far saltare in aria le officine; dividere di nuovo la terra e trasformarla in un grande regno di contadini. Allora tutti sarebbero stati pacifici, sani e felici. Per documentare la giustezza di questa idea, si era fatto una piccola biblioteca: due, tre palchi di libri squinternati, soprattutto di Tolstoi, che era il suo santone.
Il povero ragazzo non sapeva che oggi c’è una sola riforma agraria: l’espropriazione. Eppure anche lui era figlio d’un agricoltore espropriato, che non era sopravvissuto alla perdita dei suoi beni. Pareva strano soprattutto che egli propugnasse quelle idee in cima a una casa d’affitto, e in una cerchia alla quale certo non mancavano progetti confusi, ma che tecnicamente era ben preparata.
Di conseguenza non mancavano mai allegre interiezioni quand’egli sviluppava le sue idee, come magari: «Indietro all’èra della pietra» o: «Neandertal, sei tu la mia gioia». Non si badava o piuttosto non si vedeva abbastanza chiaramente che qualcosa d’una ira santa, anche se impotente, struggeva il nostro amico; infatti la vita in queste città, che ardevano come sventrate da becchi d’acciaio, era spaventosa. A Lorenzo non si addiceva allora la nostra rude compagnia, avrebbe avuto bisogno delle cure d’una famiglia, d’una donna amorevole. Monteron aveva avuto per lui un affetto particolare.
In quella terribile serata (o piuttosto era quasi mattina) si era bevuto molto; e le teste si erano riscaldate. Bottiglie vuote si allineavano sul tavolo e lungo le pareti, e dai portacenere il fumo serpeggiava attraverso la finestra aperta, di dove lo sguardo si posava sopra un cielo malsano. Si era ben lontani dalla pace dei paesi.
Mi ero quasi addormentato, e soltanto il chiasso della conversazione mi teneva sveglio. D’improvviso sobbalzai sgomento; sentii che nella stanza accadeva qualcosa di grave. Così un apparecchio ricevente comincia a vibrare al primo segno di un messaggio. La musica viene interrotta dai segnali d’una nave che lotta con la tempesta.
I camerati tacevano; guardavano verso Lorenzo, che si era alzato in piedi, in uno stato di estrema eccitazione. Dovevano averlo di nuovo irritato, prendendo in scherzo quel che veramente avrebbe richiesto l’intervento d’un medico esperto. Troppo tardi ciascuno riconobbe quanto tutto allora fosse insolito.
Lorenzo, che del resto non aveva bevuto nulla e che anzi non aveva l’abitudine di bere, pareva caduto in trance; non lottava più per la sua idea. Si lamentava piuttosto per la mancanza di uomini di buona volontà; se ci fossero stati, tutto sarebbe stato facile. I padri lo avevano dimostrato. E poi sarebbe così facile compiere il sacrificio che i tempi attendevano. Allora si sarebbe chiusa la voragine che si era aperta nella terra.
Lo guardavamo senza sapere come volesse concludere; per metà ci pareva una tirata senza senso, per metà uno scongiuro che evoca cose raccapriccianti.
Poi si calmò, come se meditasse su una conclusione davvero convincente. Sorrise e ripeté: «È tanto facile. Voglio farvi vedere come si fa». Poi gridò: «Evviva…» e si bilanciò fuori della finestra.
Non voglio dire a chi inneggiasse. Ci pareva di sognare, di essere immobilizzati da una corrente ad alta tensione; restammo seduti come una adunanza di spettri con i capelli irti nella stanza diventata vuota.
Lorenzo, sebbene fosse il più giovane di noi tutti, era stato il caposquadra in ginnastica; lo avevo veduto abbastanza spesso fare il volteggio sulle parallele o al cavallo. Precisamente così svanì dalla soffitta; aveva posato leggermente la mano sul davanzale e scivolò in curva, in modo che la sua faccia guardava ancora nella camera.
Furono cinque, furono sette secondi di silenzio eccezionale, quelli che seguirono? Non lo so. Ad ogni modo, anche nel ricordo, si vorrebbe piantare un cuneo nel tempo, affinché perdesse la sua logica, la sua inesorabilità, un cuneo nel tempo implacabile. Poi riecheggiò dalla profondità del cortile il terribile tonfo, sordo, e duro nel medesimo tempo, e mortale, senza possibilità di dubbio.
Ci precipitammo giù per le scale, nel cortile stretto, crepuscolare. Non voglio dire quale creatura vi si trovò ripiegata in se stessa. Da una simile altezza il corpo di solito precipita a capofitto; che Lorenzo fosse riuscito ad atterrare sulle gambe, dimostrava che era un buon ginnasta. Il salto sarebbe riuscito dal secondo, forse anche dal terzo piano: ma vi sono cose impossibili. Vidi due chiare fibbie, dalle quali pendevano brandelli di carne, i femori nell’urto avevano bucato le cosce e biancheggiavano scoperti. L’uno gridava di chiamare un medico; l’altro chiedeva una pistola, il terzo la morfina. Io sentivo che la pazzia mi minacciava, e fuggii nella notte. L’infausto atto mi aveva colpito nel profondo, lasciandomi un segno incancellabile; distruggendo qualcosa anche in me. Perciò non posso parlarne come d’un episodio; non me ne posso liberare riflettendo che molte cose insensate accadono nel mondo.
Esiste qualcosa d’insensato? Esistono certo avvenimenti dai quali ci possiamo più o meno rimettere, e qualche volta è molto difficile, anche per i santi. Ma questa non è ancora una ragione per accusare Dio. Vi sono tuttavia ragioni per dubitare di Lui, ma quella, che egli non abbia fatto il mondo come noi immaginiamo il nostro salotto, non è fra esse. Questa anzi parla piuttosto in sua difesa. Prima lo si capiva meglio.
Per quel che riguarda Lorenzo, egli diede in verità un esempio, seppure diverso da quello che intendeva dare. Seppe rendere evidente in un attimo ciò che la maggior parte della nostra cerchia impiega una vita intera a capire. Una volontà forte, anche buona, che si nutre del passato e non trova terreno nel presente, è condannata all’impotenza e conduce per forza alla distruzione di sé, se mira all’impossibile.
Allora compresi la spaventosa parola: «inutilmente». Già dopo la disfatta mi aveva trafitto, alla vista di prodezze sovrumane, di inesauribili sofferenze fra le quali essa si levava nella notte rossa di incendi come una roccia coronata di avvoltoi. E mi lasciò una ferita che non si rimargina mai.
Pareva che i camerati prendessero il fatto meno tragicamente. Tra i partecipanti a quella serata c’era un gruppo di spiriti forti, i quali più tardi fecero molto parlare di sé; pareva che un demone li avesse messi insieme. Si riunirono anche il giorno dopo e decisero che il nome di Lorenzo fosse radiato dalle liste. Per loro il suicidio era un inammissibile omaggio allo spirito del tempo.
Gli si fece un misero funerale in uno dei cimiteri della periferia. Quando i partecipanti si separarono risuonavano parole scandalizzate: «Saltato dalla finestra ubriaco» e altre simili.