CAPITOLO VI

ORA dovrei descrivere come ebbi nausea di tutto questo, ma andrei troppo lontano. Se ho cominciato con l’accennare al lato politico del fenomeno, l’ho fatto per abbreviare. Ovunque regna Hybris, minaccia un pericolo grande.

Ero dunque istruttore senza grado fisso e impiegato presso il collaudo dei carri armati: uno specialista, come se ne ha bisogno oggi in tutti i campi. Il mio campo appartiene a quelli che, pur essendo indispensabili, non godono particolare stima. Perciò anche la mia stima per i committenti era poca. Ogni padrone ha il garzone che si merita. Gli svantaggi dello stato di specialista sono noti. Vi sono però anche vantaggi, tra gli altri quelli che non c’è subito bisogno di accomunarsi con gli altri. Ci si può limitare alla parte pratica.

Il tempo libero lo occupai soprattutto nei miei studi storici. Nel mio modo di vivere, difficilmente potevo portare libri con me, tolto un piccolo fondo inalienabile; andavo però spesso nelle biblioteche e alle conferenze. Formulai anche una mia teoria. Secondo me, noi ora ci troviamo nel periodo precedente Azio, sotto la maledizione della guerra civile, a questa epoca dovrà seguirne un’altra, nella quale saranno celebrate le aziadi, una grande serie di secoli pacifici. Noi tuttavia, sino alla fine, non avremmo veduto che miserie.

Per quel che riguardava il mio posto di istruttore, per me, come per i miei compagni l’attività tecnica non rappresentava una difficoltà. Io mi vi ero anche quasi appassionato. Intanto, tutti coloro che hanno insegnato o tenuto esercitazioni, sanno che la cosa essenziale è un’altra. Perché gli alunni penetrino la materia, bisogna che l’Eros di chi insegna si unisca all’Eros di chi impara, l’esempio all’imitazione, si stabilisca il gioco reciproco di dare e ricevere. Si ripete così, al di là d’ogni tecnica, un rapporto semplice, come quando il selvaggio addestra i suoi figli a tirare l’arco, o un animale guida i suoi piccoli. Uno dei grandi ordinamenti del cosmo è pedagogico; ne sono convinto.

Sentivo il bisogno di trattare con i giovani. Per questo dovevo affidarmi ai miei talenti personali; mi mancava l’autorità superpersonale di Monteron. Prima, usavo con loro un tono cameratesco, più tardi il sentimento si approfondiva, si faceva paterno. Mi era stato negato di avere figli, sebbene li avessi sempre desiderati. Come avrebbero dominato la vita, questi giovani, era una domanda che sempre mi turbava. Erano nati in un’epoca malsicura, non avevano mai conosciuto uomini dotati della incondizionata certezza di un Monteron. Io avevo così una visione più esatta del pericolo cui erano esposti, della solitudine nei mari sconosciuti, della loro terribile posizione di fronte al nulla.

E non parlo di pericolo materiale sebbene anche l’idea di esso mi opprimesse, quando giungeva la sera del commiato. Ecco i ragazzi seduti, si stringevano come nel nido. Certo, venivano pronunciati i soliti discorsi: «Presto potremo mostrare quel che abbiamo imparato» e simili, ma c’era anche della paura nell’aria, un’ombra molto oscura, che non si lasciava bandire. E pensavo, quando li vedevo seduti là: «Sì, presto uscirete dove nessun maestro vi potrà seguire. E che cosa vi attende là?»

Saperli così soli, mi diventava sempre più insopportabile. Due o tre volte ottenni di poterli accompagnare; non fu cosa approvata e serviva anche a poco, infatti presto si arriva dove bisogna lasciare il prossimo solo, non possiamo dargli nessun aiuto, come se il mare ci separasse da lui. Volentieri avrei dato la mia pelle per loro, non avevo molto più da aspettarmi in questo mondo. Ero un uomo finito. Però le palle mi passavano alla larga.

E sempre mi stupivano il loro coraggio, la loro capacità. Quando l’intelletto abbandonò gli uomini politici, come presto accadde, essi dovettero buttarsi nella breccia, dovettero garantire i debiti dei padri e degli avi. Là non si poteva più parlare dei tempi della cavalleria. In quale miserevole cucina vennero condotti! E andarono senza una parola di rimprovero. A questo punto vedevo, come credo, un poco più a fondo di Monteron. A lui dovette restare nascosta la zona della profonda, ingloriosa sofferenza che comincia quando non esiste più ordine stabilito.

Per la parte politica mi preoccupavo poco. Avevo il sentimento che noi tutti quanti si faceva un salto dalla finestra. Presto o tardi dovevamo sfracellarci. Eravamo sospesi, così si dice, in aria. Ho già accennato che i miei amici in parte, sia politicamente, sia militarmente, erano stati promossi ad alte cariche. Mi tenni tranquillo sulla loro scia. Con qualcuno bisogna pure collaborare.

Senza dubbio esiste un intuito che ci aiuta poco, anzi più facilmente ci nuoce. Chi guarda troppo da vicino la cucina, si rovina l’appetito. Che anche tra noi ci fosse un lato d’ombra e che anche tra gli avversari non tutto fosse così nero come veniva dipinto, saperlo e dirlo era inutile per me. Mi rendeva sospetto, un po’ da per tutto e mi privava dei benefici della camaraderie.

Avevo scrupoli, mi mancava la spregiudicatezza del partigiano e questo era il mio lato debole, che si lasciava presto riconoscere. Strettamente collegata a tale mancanza c’era la mia inclinazione per i vinti, che spesso mi faceva compiere notevoli evoluzioni. Vi tornerò sopra in occasione delle Alture di Spicher.

Un tale tratto del carattere, una tale debolezza di carattere, non rimane nascosto, e per questa ragione, nonostante i miei innegabili meriti, non facevo strada. Il rimprovero di essere un sofista, uno che spacca il capello in quattro, un indeciso mi accompagnava in tutte le mie note personali. Esistono in ogni carica, in ogni comunità, uomini intelligenti, di fronte ai quali bisogna stare attenti. Il capo di stato maggiore che scrisse durante la campagna asturiana nel mio libretto: «Solitario con tendenza disfattista» vedeva giusto. Siccome è riuscito veramente a condensarlo in una formula concisa, voglio approfittare della sua perizia intellettuale per parlare del mio disfattismo, là dove bisogna accennare a questa qualità che complica la mia carriera.

Dopo questo periodo non mi calcolarono più come partigiano ma come specialista, il che corrispondeva alle mie inclinazioni ma favoriva scarsamente i miei progressi. Esisteva poi un altro ostacolo, di cui mi resi conto soltanto gradualmente. Consisteva in questo: io potevo influire facilmente su cento o duecento persone, ma non su mille o più. A prima vista sembra curioso, infatti si vorrebbe pensare che dove esiste la qualità d’un determinato influsso, la sua capacità di estendersi non è da discutere. Non è così, ma ci sono voluti parecchi anni prima che me ne accorgessi.

Riuscivo a barcamenarmi davanti a duecento allievi, aiutato dalla specialità che insegnavo e dalla mia inclinazione personale, che però non bastavano di fronte a un numero maggiore. In questo caso infatti sarebbe stato necessario aggiungere un’opinione definitiva sull’epoca. Non importa che l’opinione sia giusta, ma deve essere definitiva. Monteron una tale opinione l’aveva, perciò come direttore d’una scuola di guerra era a posto. A me mancava; io avevo i punti di vista d’un uomo che cade dalla finestra. Troppo intelligente per possedere la solita sicurezza del partigiano, pure non arrivavo a valutazioni stabili. In questa sicurezza c’è un segreto, per il quale bisognerebbe ricorrere a parole troppo grosse; è come un’armatura, che ci salvaguarda di fronte al mondo, qualsiasi giudizio si debba dare. Se mi è permesso addurre qualcosa in mia difesa, dirò che almeno non fingevo di possederla.

Il capo di stato maggiore arrivava con poca fatica alla conclusione, aggiungendo alle mie note il seguente parere: «Non idoneo a posti direttivi». Si chiamava Lessner, apparteneva alla giovane generazione e disponeva della potenza di giudizio sorprendente e sempre presente, che da lungo tempo viene ammirata, anzi idolatrata in misura crescente.

Così avvenne che io conclusi poco. Passai quegli anni in luoghi diversi, ma con inclinazioni costanti. Quando non si va avanti personalmente siamo gli ultimi ad accorgercene. Ce lo fanno capire i fatti esterni. Antichi allievi vengono fuori come nostri superiori. Sentiamo che il rispetto non aumenta, anzi diminuisce nella misura in cui invecchiamo: la sproporzione tra la nostra età e la nostra posizione diventa visibile, prima agli altri, poi anche a noi. Così arriva il tempo di ritirarci.

L’aiuto viene spesso da un lato inaspettato, viene dai deboli, e così avvenne anche a me, quando incontrai Teresa, con la quale strinsi alleanza. Il mio disfattismo era in piena fioritura, universale. Mi induceva ad allontanarmi dal gioco mutevole delle lotte politiche che apparivano vuote e insignificanti, fatica sprecata, tempo perduto. Volevo non pensarvi nemmeno. Mi fu chiaro che un solo essere umano, capito fin nel profondo della sua ricchezza, può darci più e meglio di quanto un Cesare o un Alessandro potrebbe mai conquistare. Lì è il nostro regno, la migliore delle monarchie, la migliore repubblica. Lì è il nostro giardino, la nostra fortuna.

Sentivo che il mio gusto si volgeva di nuovo alle cose semplici, naturali, ai godimenti sempre possibili. E proprio adesso il passato doveva tornare come un’onda che afferra il nuotatore e lo respinge al largo quando ha già conquistato la sua isola? E doveva tornare in una forma brutta e losca? Era questo il prezzo che dovevo pagare per avere dissipato l’intelligenza nei disordini dell’epoca? O il disagio mi veniva da una visione più acuta delle cose?