CAPITOLO VIII

«MAGGIORE Richard», disse, «il signor Twinnings me l’ha raccomandato, e il suo giudizio per me è importante. Egli pensa che lei voglia dedicarsi a un’occupazione migliore, più pacifica, e in questo egli l’ha preceduto già da molto tempo. Be’, per questo non è mai troppo tardi.»

Con queste parole era uscito sul terrazzo e mi invitava a sedermi. Lo seguii, stordito come dal dentista, il quale col primo movimento ha toccato sino in fondo il nervo dolorante e il focolaio dell’infiammazione. La cosa cominciava nel modo più sfavorevole possibile.

Naturalmente ero ai suoi occhi una figura equivoca, e lo ero anche ai miei. Che egli mi avesse voluto assicurare in forma benevola della sua disistima, non doveva offendermi, tenendo poi conto che quello non era certo per me il momento opportuno per essere ipersensibile.

Però con lo sprezzante accenno alla mia professione egli aveva toccato una ferita antica e mai sanata. Sapevo che le mie passate occupazioni, per quel genere di inventori e costruttori che si immedesimava in questo spirito, venivano subito dopo il furto di cavalli, e che era bene staccarsene, ma su questo punto non sapevo imitare Twinnings.

Un uomo come Zapparoni poteva dire quel che voleva, suonava sempre bene, era giusto, non soltanto perché poteva assoldare la stampa, che gli rendeva omaggio in articoli di fondo, nella terza pagina e nella pubblicità, ma anche più perché incarnava lo spirito del tempo. Gli omaggi erano dunque gradevoli perché non erano soltanto pagati, ma anche profondamente sentiti: non chiedevano all’intelligenza o alla morale dei pubblicisti più di una gioiosa adesione.

Certo devo ammettere che Zapparoni poteva esser ritenuto il cavallo di parata dell’elevato ottimismo tecnico, che domina i nostri più eminenti intelletti. Inoltre la tecnica in lui tendeva semplicemente verso le cose piacevoli: il vecchio desiderio dei maghi di mutare il mondo in un attimo per mezzo del pensiero sembrava quasi avverarsi. A questo bisognava aggiungere ancora il grande effetto della sua figura, che ogni capo di Stato gli poteva invidiare e che si vedeva sempre circondata da frotte di bambini.

Quanto nelle sue officine veniva fabbricato, costruito e allestito in serie, facilitava parecchio la vita. Ma faceva parte della normale correttezza tacere che era anche pericoloso. Però difficilmente lo si poteva negare. Durante gli ultimi venti o trent’anni, grazie a Dio, non vi era stato nessun grosso incendio, ma soltanto una successione di crisi locali. In quelle occasioni le potenze mondiali avevano con previdente bilancio calcolato i danni che confidavano di poter recare. Allora si era veduto che in quei calcoli le officine Zapparoni rappresentavano una parte principale, e che tutti quei robot lillipuziani e quegli automi di lusso potevano non soltanto contribuire ad abbellire, ma anche ad abbreviare la vita, senza mutare molto nella loro costruzione. In comune avevano soltanto il ripugnante sistema dell’insidia, il vile trionfo dei cervelli calcolatori sul coraggio vitale.

In grande, le officine Zapparoni somigliavano a un tempio di Giano con una porta colorata e una porta nera, e quando il cielo si annuvolava, da questa porta oscura scaturiva un fiume di raffinati strumenti micidiali. Quella porta oscura era anche tabù; in verità non doveva nemmeno essere presente. Però ogni tanto tornavano a trapelare dagli uffici di costruzione voci sommamente inquietanti e non per niente l’officina dei modelli si trovava nel cerchio più interno. Era presumibile che anche il posto vacante fosse in rapporto con simili cose.

Non ho nessuna intenzione di ricamare su uno dei nostri temi più popolari: «Perché accade ciò che non dovrebbe accadere?» Tanto accade lo stesso. Mi preme piuttosto una questione specifica, che su questo punto mi aveva spesso preoccupato e che in conseguenza del saluto umiliante mi si presentò di nuovo bruscamente alla coscienza. Voglio dire: perché questi spiriti, che hanno minacciato e mutato la nostra vita in modo così allarmante e imprevedibile, non sono contenti dello scatenamento e del dominio di immense forze e della fama, della potenza, della ricchezza che affluiscono verso di loro? Perché vogliono a ogni costo essere anche santi?

La questione mi preoccupava specialmente quando lavoravo al collaudo dei carri corazzati. Tra i pochi libri che portavo allora con me, oltre al Flavio Giuseppe, avevo la Conquista del Messico di Prescott. Il fascino di quest’opera sta nell’evocazione del denso incantesimo, della magia in cui vive l’uomo entro una tarda civiltà neolitica, con la sua casta sacerdotale e i suoi templi solari, nei quali si sacrificano ininterrottamente vittime umane. Come attraverso una fessura lo sguardo si posa sopra volti rigidi, tagliati nella pietra, sopra fiumi di sangue, scorrenti dagli scoli del theokallis. Non c’è da maravigliarsi se gli spagnoli pensavano che una delle grandi residenze di Satana si era spalancata davanti a loro.

Però, se anche una volta calerà il sipario del grande teatro mondiale, chi può dire che su di noi e sui nostri sacrari non si poserà uno sguardo ugualmente sgomento? Non sappiamo come si parlerà di noi nella storia di lontani secoli o nel grande giudizio dei morti delle varie culture. Forse preferiranno un simile prete sanguinario ai nostri santi.

Quale giudizio verrà pronunciato sul rapido acceleramento che comincerà sulla fine del secolo diciottesimo come la preparazione a un salto mortale? Da un certo punto in avanti si può parlare d’una cultura alla dinamite, e non è un caso che il nostro più grande premio culturale sia alimentato da un fondo garantito dalla dinamite. Il mondo è pieno del rumore di innumerevoli esplosioni, rapide, minuscole, che spingono infinite macchine, sino alle esplosioni che minacciano continenti. Si passa attraverso un panorama di quadri i quali, se non cadiamo sotto il loro fascino, devono rammentarci un grande manicomio: qui una corsa, dove una vettura si lancia come un proiettile tra gli spettatori e li miete a dozzine, e là una squadriglia di bombardieri che cancella una città con un bombardamento a tappeto sciogliendo in fumo in pochi minuti un’opera d’arte alla quale hanno collaborato secoli. Un apparecchio di lusso precipita a terra avvolto di fiamme rosse. Equipaggio e passeggeri, uomini, donne, bambini si carbonizzano diventando mummie in mezzo allo scheletro infuocato. Bellezza e splendore della vita, ornamenti, seta e diamanti svaporano nelle fiamme.

E simili fari si accendono ogni giorno sul pianeta. Dopo averne veduto uno da vicino nel suo raccapricciante orrore, salivo mal volentieri sull’apparecchio. A volte dovevo prendere parte a quel che in gergo tecnico si chiama un «carosello volante», un volo a cerchio sopra una piazza d’armi, per osservare e discutere i movimenti dei carri armati. Sentivo il rischio. Ma non sarei tanto temerario da accettarlo per risparmiare un poco di tempo in un viaggio di piacere. In questa lotteria è molto più facile non avere nessun numero vincente che fare cinquina.

Ci stupisce il Messico e Babilonia e non badiamo a quel che non è meno stupefacente vicinissimo a noi. Ci sorprendiamo che un Caligola pretendesse onori divini, e non badiamo come tra noi si offra un tale incenso. A questo si aggiunga ancora il grande rispetto per coloro che trovano una formula, o compiono un’invenzione che può scuotere le fondamenta del mondo. Forse il movimento mira a un Gran Premio che non potrà più venire assegnato da uomini.

Che Zapparoni guardasse dall’alto in basso un soldato di cavalleria, e gli facesse la predica, non era meno assurdo che se un pescecane condannasse i propri denti. Soldati di cavalleria ve ne furono durante millenni, e il mondo era sopravvissuto nonostante Gengis Khan e altri signori, venivano e se n’andavano come la marea alta e bassa. Ma da quando ci sono santoni come Zapparoni, la terra si vede minacciata. Il silenzio dei boschi, gli abissi degli oceani, l’estrema cerchia dell’aria sono in pericolo. Operano durante la pace cose peggiori di quel che mai un tiranno, un signore della guerra abbia mai chiesto agli uomini, preparano veleni che prima non si sospettavano neppure, che non erano nemmeno conosciuti per nome. La loro attrezzatura esige ogni giorno il sacrificio d’una battaglia e ogni anno quanto una guerra, e in qual modo atroce.

E dietro questi fatti stava l’applicazione brutale e inesorabile di un intelletto, che in fondo conosceva soltanto un unico movimento, quello che nel medesimo tempo abbreviava, accresceva meccanicamente e accelerava. Ma potevano così creare un olivo, un cavallo? Con tutta quella immensa potenza potevano certo costruire città, ma non una sola casetta, come prima avevano saputo fare un piccolo muratore, un falegname. Eppure vi sono anime innocenti che addirittura ordinano chiese a questa gente, da cui non si vorrebbe accettare il regalo d’un chiosco per il giardino. E sono servite nello stile che si addice a un rifugio, a un aereo, a un frigorifero, e lì officiano davanti a un pubblico che crede più nella penicillina che nella messa.

Avevo ammirato abbastanza questi superbanausi, manovali di potenze a loro sconosciute. Finché durerà questa ammirazione, le distruzioni aumenteranno, le misure umane diminuiranno. Un ingegno che mette il mondo in pericolo non può produrre una zanzara.

Se la scienza deve essere potenza, bisogna sapere, per cominciare, che cosa sia la scienza. Che Zapparoni vi avesse riflettuto, lo rivelava il suo sguardo; era un iniziato, uno che sa. Si era preoccupato di problemi che andavano oltre la parte tecnica. Lo vedevo dai suoi occhi. Guardava come una chimera sui grigi tetti, aveva vivificato la foresta primitiva con le sue piume celesti. Un bagliore della tinta immateriale si era frantumato nel nostro tempo. Nel suo piano, nella sua ambizione egli doveva mirare più su della fame crescente di potenza e di lusso delle masse.

C’erano nel suo occhio sottintesi preistorici. Riconosceva esso ciò che era eternamente sottinteso in un nuovo momento della storia, nell’inganno della Maja con la sua sterminata pienezza di immagini, che ricadono come le gocce d’acqua d’una fontana nella vasca? Sentiva la nostalgia delle grandi foreste nel Congo, nelle quali sorgono razze nuove? Forse dopo un audace volo nei mondi superni sarebbe tornato laggiù. Storici negri avrebbero allora formulato le loro teorie su di lui come noi sul palazzo di Montezuma.

Di simili questioni avrei parlato volentieri con lui. Ci occupa tutti il cocente pensiero che forse c’è ancora una speranza, dopo tutto. Un grande fisico è sempre nel medesimo tempo un metafisico. Ha un concetto più alto del nostro sapere, del suo compito. Avrei volentieri gettato uno sguardo sui suoi diagrammi di produzione. Mi sarebbe stato anche più prezioso che sistemare la faccenda per la quale ero venuto. Invece di invitarmi nel suo gabinetto, il grande uomo mi accoglieva come un bramino capo, il quale nel tempio della dea Kali è avvicinato da un mendicante. Mi accoglieva con un luogo comune.