CAPITOLO V
GLI altri si misero ben presto a svolgere una attività straordinaria. Arrivavano notizie di loro dalle province baltiche, dalle Asturie e da molti luoghi, anche lontanissimi; non vi furono torbidi in cui non si facessero vivi. Compivano imprese prodigiose, ma non si poteva dire che il tempo li secondasse, o almeno lo faceva soltanto là dove insorgeva la reazione.
Cominciai allora a occuparmi di storia. Ero curioso di vedere se fatti simili fossero già accaduti in passato. Tra i personaggi storici mi attirava il giovane Catone, al quale non piacque la causa vincitrice, ma la vinta. Anche a me nel grande quadro mondiale le ombre parevano più significative e più profonde della luce; e il lutto la vera corona della contemplazione: Ettore e Annibale, indiani e boeri, Montezuma e Massimiliano del Messico. Certo anche questa era una delle ragioni del mio naufragio: la sfortuna è contagiosa.
I camerati intanto, di mano in mano che allargavano l’attività e acquistavano prestigio, cercavano di farmi unire a loro. Avevano un’opinione precisa sulla capacità di ciascuno. Erano convinti ch’io fossi un buon istruttore.
Ed era giusto; avevo il vantaggio di essere uno specialista. Tuttavia anche qui devo fare una riserva, accennare perché meritavo il titolo e perché no.
Senza dubbio avevo un talento naturale per istruire, cioè per avvicinare la gioventù alla materia che sarà suo compito imparare e che più tardi dovrà dominare. Padronanza del cavallo nel maneggio, poi sul terreno, conoscenza del carro armato nelle sue parti nei rapporti fra loro, come guidarlo sotto il fuoco, come comportarsi in zone colpite o in qualsiasi modo pericolose: insegnare queste all’allievo in teoria e in pratica, non presentava per me nessuna difficoltà. Ho già accennato come, per quanto riguardava la tecnica, fossimo quasi perfetti. Se partecipavo a un corso centrale su una nuova invenzione, si poteva essere sicuri che sapevo far fruttare il mio ingegno. Feci anche parte delle ispezioni ai carri armati. Si andava nelle officine a contrattare con gli ingegneri i prezzi dei brevetti di invenzione.
Sia detto di passaggio, queste invenzioni diventavano sempre più ripugnanti. Su questo punto, viveva inestirpabile in me un avanzo della primitiva valutazione dei vecchi cavalleggeri. Sono pronto a riconoscere che, nei primi tempi, l’uomo a cavallo godeva di un forte vantaggio sull’uomo a piedi. In compenso, egli doveva servire per usi del tutto diversi. Questa differenza fu colmata dall’invenzione della polvere da sparo, a ragione deplorata dall’Ariosto. Essa segnò la fine dei magnifici eserciti, come quelli che guidava ancora Carlo il Temerario. La cavalleria ebbe però ancora le sue grandi giornate, e non potevo ritenere ingiusto che la fanteria avesse ancora il diritto di mirare due o tre volte prima di essere tagliata a pezzi. Ma poi venne la morte della cavalleria.
I vecchi centauri furono vinti da un nuovo Titano. Vidi vicinissimo a me il mio vincitore, mentre giacevo sanguinante sull’erba. Mi aveva buttato giù di sella. Era un tale piccolo e mingherlino, un pustoloso cittadino della periferia, un qualunque coltellinaio di Sheffield o un tessitore di Manchester. Se ne stava accoccolato nel suo immondezzaio, aveva strizzato un occhio e con l’altro mirava attraverso il trespolo col quale aveva fatto il male. Tesseva con disegno rosso e grigio una funesta tela. Era il nuovo Polifemo o piuttosto uno dei suoi più bassi tirapiedi, con una protesi ferrea davanti al viso monocolo. Dunque, questo era l’aspetto che avevano ormai i signori! La bellezza dei boschi era finita.
A questo punto, mi viene in mente Wittgrewe, uno dei miei primi maestri. Prima di venire da Monteron, imparai da lui i princìpi elementari dell’arte di montare a cavallo. Wittgrewe addestrava le rimonte; un torneo di cavalleria era inconcepibile senza Wittgrewe. Aveva cosce di ferro e teneva le redini con una mano morbida come il velluto. Anche il cavallo più difficile, il puledro più vergine, in meno d’un’ora riconosceva in lui il padrone. Feci la mia prima manovra sotto la sua direzione. La sera andavo volentieri nella stalla dove lui abitava con i cavalli, e mi ci sentivo bene, anche se avevamo passato una lunga giornata in sella; dall’alba sino al «silenzio».
Nella stalla si stava bene; sotto i cavalli c’era un fitto strato di paglia, i cui steli solleticavano loro la pancia. S’incontravano sempre due o tre altri cavalleggeri da Wittgrewe, dei vecchi del terzo anno. Là imparai come si governa il proprio cavallo dopo una lunga cavalcata, come gli si offre la paglia, lo si strofina caldo, gli si toccano i pasturali, gli si porta l’acqua, nella quale si è sparso del tritume, affinché non beva troppo in fretta, come lo si cura e lo si coccola, finché non mette il muso sulla spalla e soffia con le narici. Imparai anche a conoscere i misteri della guardia nelle stalle del quartiere agricolo, a bere acquavite, a fumare pipe di mezza lunghezza con boccioli dipinti, a giocare a carte e a fare altre cose che appartengono alla preparazione per gli esami da ussaro. Dove appariva Wittgrewe, dove passava per il cortile con la giacca sbottonata e con passo dinoccolato e riposato, comparivano presto anche le ragazze: ragazze bionde, castane o brune, ragazze con le scarpe a punta o con stivali alti, ragazze con o senza fazzoletto in capo. Egli accoglieva tutto ciò come naturale e non aveva bisogno di fare nulla; le ragazze venivano, come vengono i gatti quando si sparge la valeriana. Venivano anche nella stalla, quando il contadino e la moglie o quando i signori erano andati a dormire. Allora si beveva e si tagliavano salsicce, si giocava agli indovinelli e si davano pegni; in breve Wittgrewe non era mai fuori posto.
Aveva anche una magnifica voce per cantare.
Del resto la mia prima manovra fu nel medesimo tempo anche la sua ultima; nell’autunno lasciò il servizio e si trovò un impiego. Dopo un poco di tempo lo rividi, un giorno che andai in tram a Treptow. Pagai il biglietto e non volli credere ai miei occhi, quando lo riconobbi nel bigliettario; ma non c’era dubbio: era Wittgrewe. Portava adesso un rigido berretto verde, piatto come un fulminante, e una borsa di cuoio, vendeva biglietti per dieci centesimi, suonava ogni tre minuti, tirando una cinghia, e diceva forte i nomi delle fermate. Lo spettacolo mi costernò; mi afflisse come se avessi visto in gabbia e ammaestrata a fare due o tre trucchetti una bestia della libera foresta. Ecco dov’era il nostro magnifico Wittgrewe.
Anche Wittgrewe mi aveva riconosciuto. Intanto non mi salutò con molta allegria, pareva che ripensasse poco volentieri al passato comune. E il mio stupore crebbe quando m’accorsi che egli ricordava l’epoca dei cavalleggeri come il tempo d’un’attività inferiore, insignificante, e riteneva la sua attività in quella vettura come un progresso e una promozione.
Sebbene evidentemente egli non lo desiderasse, andai a vederlo in casa sua. I giovani perdono malvolentieri i loro modelli. E Wittgrewe era appunto il cavalleggero, così come è rappresentato nel libro. Il rapido salto agli ostacoli, lo sfruttamento delle occasioni cercate presuppone un sangue mobile, un temperamento sanguigno. E allora bisogna con queste qualità accettare la leggerezza, come faceva lo stesso Monteron, sebbene non ce lo lasciasse scorgere.
La casa di Wittgrewe era anche più triste di lui. Situata nella zona di Stralau, dove Berlino «piange e ride». Mi introdusse in una stanza, dove stava una credenza di noce del Caucaso, coronata da una coppa di cristallo. Si era sposato. Scoprii allora per la prima volta che proprio coloro i quali sono stati per lunghi anni il gallo del pollaio hanno mogli più sprovviste di fascino.
Mi sorprese soprattutto che in tutta la casa non si vedesse né un cavallo né incisioni né fotografie di cavalli e nessuno dei premi da lui vinti nei tornei. Del vecchio «vino, donne e canto» gli era rimasto soltanto l’appartenenza a una società corale di Stralau. Qui finivano le sue pretese mondane.
E quali erano le sue speranze? Voleva diventare controllore, magari anche ispettore, sua moglie attendeva una piccola eredità, e forse egli sarebbe stato un giorno eletto presidente della sua società corale. La sua magra moglie ci fece silenziosamente compagnia, mentre si beveva birra bianca;3 me ne andai con l’impressione d’essere arrivato in un momento inopportuno. Forse avrei dovuto invitarlo a bere con me o alle corse all’Hoppegarten, infatti nelle profondità del suo essere doveva dormire qualche ricordo; la memoria non poteva essere completamente svanita. Mi immaginavo che Wittgrewe di notte nel sogno montasse a cavallo e galoppasse cantando per le vaste pianure; finché la sera sull’orizzonte non l’accogliesse un grasso quartiere con le alte travi dei pozzi a carrucola.
Accennando al Polifemo di Sheffield o di Manchester, mi sono trovato a parlare di Wittgrewe. Si era prostrato davanti alle nuove divinità, e Taras Bulba si rivoltava nella tomba. Presto seppi che non era un caso unico. Si ripeté per molti altri. A noi, che servivamo nelle province orientali, venivano soltanto giovani militari di campagna; figli di contadini, garzoni di contadini, sin dalla fanciullezza abituati ad avere da fare con cavalli. Gli anni di servizio in cavalleria erano per loro una festa. Poi le grandi città presero ad accoglierli in numero sempre maggiore e finivano come Wittgrewe. Si impegnavano in un lavoro insignificante, indegno d’un uomo e che avrebbe potuto essere fatto ugualmente bene da una donna o da un bambino, se non addirittura da una parte dell’ordigno al quale lavoravano.
Ciò che avevano fatto in gioventù e che da migliaia di anni è stato il compito e la gioia dell’uomo: montare un cavallo, arare di mattina dietro al bue il campo fumante, nell’estate cocente mietere il giallo grano, mentre rivoli di sudore scorrono per il petto abbronzato e le donne possono a stento tenergli dietro, prendere il pasto all’ombra dei grandi alberi: tutto quel che la poesia dai tempi antichissimi ha cantato, ora non doveva più essere. La gioia se n’era andata.
Come poteva spiegarsi questa predilezione per una vita scolorita e piatta? Certo, il lavoro era più facile, anche se meno sano, e rendeva più danaro, lasciava più tempo e forse permetteva più divertimenti. La giornata in campagna è lunga e dura. Eppure tutto ciò valeva meno d’un tondo tallero di prima, del riposo serale, d’una festa campestre. La scontentezza sui loro visi dimostrava chiaramente che si erano scostati dalla felicità. La scontentezza superava presto ogni altro stato d’animo, diventava religione. Dove ululavano le sirene, regnava l’orrore. E ben presto restò appena un angoletto dove non arrivavano.
A questo, tutti bisognava che si adattassero. Altrimenti sarebbe venuta, se ci si voleva ostinare nell’anacronismo come noi nella nostra vita di cavalieri, la gente di Manchester. Veramente era finito. Ora si diceva: mangia cavallo mio o muori. Wittgrewe l’aveva intuito prima di me. Non tocca a me criticarlo, anch’io alla fine sono stato costretto a seguire la stessa via.
La cosa stava press’a poco così: l’uomo di Manchester ci aveva fatto vedere che cosa significava tirare dritto. Bisognò abolire i cavalli. Adesso arrivavamo noi col carro armato per scovarlo col fumo, e allora egli ci regalò una nuova sorpresa.
Devo riconoscere che in questo succedersi di armi sempre nuove e sempre più rapidamente invecchiate, in questo raffinato gioco di botta e risposta fra cervelli troppo coltivati, c’era un fascino che per un po’ di tempo mi avvinse, soprattutto quando lavoravo all’ ispezione dei carri armati. La lotta per la potenza era entrata in una nuova fase; veniva condotta con formule scientifiche. Le armi piombarono nell’abisso come fenomeni fuggevoli, come quadri gettati nel fuoco. Se ne producevano di sempre nuove, in una successione proteiforme. Lo spettacolo era avvincente, su questo punto mi trovavo d’accordo con Wittgrewe. Quando si mostravano i nuovi modelli alle masse nelle grandi parate, sulla Piazza Rossa a Mosca o in altri grandi centri, regnava un devoto silenzio, e poi prorompeva il giubilo. Che significava quel rumoreggiare, quando sulla terra passavano in corteo nuove tartarughe e serpenti di bronzo, mentre nel cielo triangoli, saette e razzi in forma di pesce si ordinavano con la rapidità del pensiero in mutevoli figure? Erano sempre armi nuove, certo, che si presentavano, eppure in quel silenzio e in quel giubilo c’era anche l’elemento eternamente malvagio dell’uomo, che ama il tranello e l’insidia. Invisibili passavano Caino e Tubalcaino nel corteo dei simulacri.