Una visita difficile

Il capitano di fregata B. andò un giorno da Napoli a Torre del Greco per trovare la madre di un suo marinaio, di nome Battiloro, morto in combattimento. Entrambi erano rimasti feriti gravemente dalla stessa raffica, in plancia. E si erano poi trovati accanto, sul divano della sala nautica, a farsi medicare: il valoroso comandante del cacciatorpediniere, nobile piemontese, fianco a fianco col più umile uomo di bordo. Era questi un ragazzo molto semplice, quasi rozzo, un pescatore senza istruzione; eppure era morto in bellezza. Poiché qualche giorno prima era stato rimproverato per la divisa in disordine, quando si sentì prossimo alla fine: «Avete visto, comandante» disse «che oggi sono pulito?». Non di lasciare il mondo era preoccupato, ma soltanto di andarsene bene, come fanno i bravi soldati. E la sua immagine era rimasta nel cuore del capitano di fregata B. specialmente cara; simboleggiando il bel cacciatorpediniere dovuto lasciare, l’animo generoso dell’equipaggio, le ore indimenticabili e pure della battaglia.

Il capitano di fregata B. era faticosamente guarito.

Ma ora non navigava più, ora se ne stava chiuso dal mattino alla sera in un comando, fra pratiche e telefonate. Le ferite gli facevano ancora male. E col passar del tempo cresceva il desiderio di conoscere la madre di Battiloro, un progetto formulato dapprima senza persuasione. Aveva l’impressione di poter ritrovare in lei l’animo stesso di Battiloro, di tornare per qualche istante alle giornate eroiche ormai lontane.

In un pomeriggio caldo e caliginoso egli si fece condurre in macchina a Torre del Greco. L’auto si fermò in una piazzetta scoscesa. Su per quella stradetta, a sinistra, era l’abitazione di Battiloro. Proseguire tuttavia era impossibile perché una casa, crollando, aveva bloccato il passaggio. Qui erano venuti, proprio il mattino di Pasqua, gli aviatori nemici; e intorno non c’erano che innocenti case di pescatori e marinai, proprio niente altro, non cantieri, non depositi, non ferrovie, nulla che avesse a che fare con la guerra. Allora il comandante, sceso di macchina, si incamminò a piedi verso l’opposto ingresso del vicolo. Era un labirinto di strade povere e semideserte. Ma tutto intorno orti verdissimi che mettevano abbastanza allegria. Lo seguirono una decina di ragazzetti, follemente incuriositi da quell’ufficiale così elegante con le cordelline d’oro a una spalla.

Il comandante imboccò il vicolo, stretto tra due barriere di muri. Stranamente, verso la metà, esso si spalancava alla luce. Anche qui erano cadute le bombe. Una casa a destra era crollata. In un’altra, a sinistra, affacciandosi a un androne, si vedeva un largo foro circolare nel soffitto; e attraverso il foro, come in certi spaccati pubblicitari di transatlantici, la stanza di sopra; un comò, un santo a una parete, il letto fatto, tutto assurdamente tranquillo e in ordine. Un piede del letto era sospeso nel vuoto. Non si udivano voci. Possibile che…? Ma B. scartò il troppo crudele pensiero.

Gente usciva intanto dalle case. Non erano però bene informati. Indicarono la casa dei Battiloro ma per il resto si contraddicevano. Qualcuno confermava che un figlio era morto in guerra. Altri dicevano che non un figlio era morto ma una figlia, una figlia sposata, nell’ultimo bombardamento (si trovava in rifugio con in braccio un suo bambino di sei giorni; lei era rimasta schiacciata, il piccolo invece lo avevano estratto dalle macerie senza neppure un graffio). Finalmente, a forza di chiedere, si riuscì a sapere: dei figli Battiloro uno era caduto in guerra, una nel bombardamento di Pasqua, una terza, pure sposata, era rimasta ferita e adesso si trovava all’ospedale; poi ce n’era un quarto, ancora ragazzetto.

B. entrò nella casa. Una minuscola scaletta menava a una larga terrazza sulla quale diverse porte si aprivano. Uscì un giovanotto, parente dei Battiloro; marinaio sui dragamine, venuto in licenza da Cefalonia. Disse che la mamma Battiloro era uscita, probabilmente si trovava in una casa vicina da amici; avrebbe mandato subito qualcuno a chiamarla. Intorno si vedevano case di pescatori, bianche di calce, tutte terrazze, terrazzini, scalette esterne. Una ragazza invisibile cantava. C’era un’aria grigia da pioggia. Il comandante era leggermente a disagio. Che cosa avrebbe potuto dire adesso a quella madre?

Il marinaio in licenza chiacchierava, fin troppo disinvolto a motivo del vestito borghese.

Ma a un tratto il comandante scorse il mare. Tra due spigoli di case ne appariva un pezzetto, come miraggio conturbante. «Ecco,» disse al marinaio in licenza «ecco un dragamine come il tuo» e faceva segno a una minuscola sagometta nera al limite dell’orizzonte. Il giovanotto sorrise: «No, comandante, quello è uno scoglio. Da qui lo vediamo quando soffia scirocco. Quando c’è libeccio invece non si vede più». Seguì un silenzio imbarazzato. Finché comparve un prosperoso ragazzetto tutto bianco di farina; era il più giovane dei Battiloro, garzone presso un fornaio. «Come assomiglia a suo fratello» disse il comandante, e il volto gli si illuminava. Poi lo strinse affettuosamente: «Vedi? Io sono il comandante della nave dove era imbarcato tuo fratello. Era un bravo marinaio, sai? Tu devi essere degno di lui. E dimmi, quando sarai grande, farai anche tu il marinaio, vero?». Il fanciullo senza timidezza rispose: «No, io farò il panettiere». Rise il marinaio in licenza; anche il comandante avrebbe voluto ridere ma non ci riusciva.

Ed ecco vennero a dire che la mamma Battiloro non era presso i vicini bensì in casa della seconda figlia, quella ferita, distante qualche chilometro. «Andiamoci» fece il comandante e ridiscese nel vicolo dove i monelli stavano ancora aspettando. In automobile salì anche il marinaio per insegnare la strada.

La macchina corse per la litoranea del golfo, fiancheggiata da siepi ininterrotte di case che sembravano un unico smisurato paese. Si fermò dinanzi a una delle tante abitazioni, bassa, polverulenta e slabbrata. Dal marciapiede si entrava in uno stanzone vuoto e brulicante di mosche, dove un bambino stava giocando per terra. Seguiva una grande camera zeppa di mobili, con tre letti giganteschi, nella quale erano riunite le donne. Qui tutto era rassettato e pulito.

La mamma di Battiloro sedeva su un breve divano. Era una dolce vecchietta, estremamente quieta e composta. Sul suo volto non c’era sofferenza; ma neppure calore di vita. Desideri, illusioni, ansie, vanità erano in lei finiti per sempre. Il comandante le sedette vicino, le parlava amorevolmente, le spiegava chi era, perché era venuto a trovarla. Lei taceva, faceva segno di sì, di sì, ma sembrava lontana, Dio sa se capisse veramente. Intorno, senza contare i bambini, erano quattro giovani donne, eccitatissime dalla visita inaspettata; specialmente una, di estrema grassezza ed esuberanza, non smetteva di affaccendarsi a far posto, procurare sedie, dare spiegazioni di ogni genere. Si aveva l’impressione che nessuna avesse afferrato bene perché l’ufficiale fosse venuto. «E allora, sta bene adesso?» domandò a un certo punto una di esse. Le altre si affrettarono a zittirla. Il fatto è che non aveva capito niente; credeva che B. fosse venuto a portare notizie della figlia ferita.

Ma perché quelle donne continuavano a parlottare? Chi era quel vecchio austero entrato adesso con grandi cerimonie? Perché il marinaio dei dragamine si affannava, credendo di non dare nell’occhio, affinché si offrisse qualcosa al comandante? E che significava di là, in cucina, quell’improvviso armeggìo come di festa? La mamma di Battiloro, seduta con grande compostezza, annuiva alle parole del comandante; a opera dei dolori ella pareva del tutto svuotata.

«Era seduto vicino a me commosso, come noi due qui, adesso. E mentre mi medicavano…» Lei faceva segno di sì, con la testa, ma la sua mente doveva essere lontana, i suoi occhi non più capaci di piangere; come quando a un albero strappano via tutti i rami e a poco a poco il tronco si dissecca. «Per fortuna non ha sofferto, io gli tenevo una mano…» Lei faceva segno di sì, di sì, con rassegnazione infinita.

«Ecco qui due giornali. Qui si parla di vostro figlio. Ve li farete leggere. Hanno scritto degli articoli proprio per lui.» Lei li prese, fece per aprirli, li ripiegò di nuovo, ma era evidente che non se ne rendeva conto.

«Adesso dovete dirmi, vi prego, ditemi se posso fare qualcosa per voi, ditemelo con tutta sincerità.» Ed ecco le labbra della madre si mossero, mormorarono qualche parola: «Le sue robe…» disse «i suoi vestiti…». Avrebbe voluto gli effetti personali del figlio, andati probabilmente perduti dopo il bombardamento, nel travaglio del bastimento colpito. E qui il comandante si accorse di aver dinanzi una povera mamma che gli anni, la maternità, i dolori avevano alla fine spenta; e non ne restava che un’ombra, una specie di dolce simulacro, staccato già dalla terra. Tutto poteva lasciar supporre ch’ella fosse ancora tra di noi; invece, senza che nessuno sapesse, lei si era incamminata adagio adagio dietro quei due figlioli, e ormai ne aveva fatta di strada. Invano il comandante B. era venuto fin qui a cercarla e ora la chiamava indietro perché gli rispondesse; lei andava avanti sulle orme dei figli perduti; ed era inutile che lui parlasse ancora, proprio come parlare a un fantasma. E gli altri intorno non capivano. Essi erano buoni e amorevoli con la mamma di Battiloro ma non immaginavano neppur di lontano che cosa fosse successo dentro di lei; alla presenza di così aristocratico ufficiale erano esclusivamente preoccupati di non far cattiva figura. Di fuori cominciava a piovere.

Il capitano di fregata B. ha rinunciato a parlare. Risponde con sorrisi stentati alle premure della famiglia, accetta una fetta di dolce, è impaziente di andarsene. Non vede l’ora di uscire sulla via donde potrà scorgere tra le case qualche pezzetto di mare, una sia pur misera striscia, ma di nudo, plumbeo, selvaggio mare deserto. Si rende conto di essere solo, assolutamente solo coi suoi meravigliosi ricordi nella stanza zeppa di gente. Anche Battiloro, animo semplice, si sentirebbe solo qui dentro. Perché ciò che i soldati soffrono nelle ore grandi della guerra non può essere spartito con gli altri uomini, una barriera misteriosa separerà gli uni e gli altri per sempre.

“Corriere della Sera”, 4 luglio 1943