Notte di agguato
nell’abisso marino
DA BORDO DI UN SOMMERGIBILE
Arrivammo alla zona di agguato. Illuminato dolcemente dalla luna, pareva assurdo che quel placido mare potesse nascondere insidie, imparzialmente sostenere noi ed altri esseri umani partiti da remoti porti e venuti fin qui con l’intenzione di ucciderci. L’acqua gorgogliava intorno alla rotonda pancia del sommergibile, dal basso giungeva il borbottio armonioso dei Diesel, il comandante balzò giù dal bordo superiore della torretta, dove era seduto, e disse: «E ora». Anche la vedetta silenziosamente discese come un gatto dal suo aereo trespolo.
«Abbattere i timoni!» gridò il comandante. Nel dare gli ordini la voce sua aveva una intonazione curiosa, quanto mai familiare e viva; come se non fossero formule ripetute centinaia di volte, ma le inventasse lì per lì, sue creazioni personali. Pure le scandiva sillaba per sillaba, con la precisione di un chirurgo che mai e poi mai potrà concedersi un attimo di disinvoltura o di abbandono. Insistente è a bordo di un sommergibile questa sensazione: che ogni comando, per quanto in apparenza banale, abbia importanza di vita e di morte; e che una distrazione da nulla possa diventare colpevole come un tradimento.
«Abbattere i timoni!» gridò il comandante e dalla bocca del portavoce che saliva dal fondo uscì la risposta: «Abbattere i timoni!». Chi riceve un ordine lo ripete sempre, lettera a lettera, per dare garanzia di avere capito. Ogni frase trova così sempre la sua identica eco, anche se con accento diverso. Ciò che a lungo andare crea un’atmosfera un po’ allucinata, come se tutti, eccetto il comandante, parlassero come automi.
Guardai giù dal portello, nel rotondo pozzo verticale della torretta. Il primo tratto era buio. Poi, attraverso un’apertura circolare, si scorgeva un pezzo di pavimento in linoleum, illuminato vivamente, con listelli e boccole d’ottone lucidi come i pomoli delle porte all’ingresso di una ambasciata. Laggiù era la camera di manovra. «Andare in affioramento appena abbattuti i timoni!» gridò ancora il comandante, illuminato dalla luna. «Andare in affioramento appena abbattuti i timoni!» rispose dal portavoce l’eco di coloro che in navigazione non vedono né vedranno mai la luna, né il sole, né le nuvole bianche. Sei metri di distanza verticale separano due opposti mondi: in alto il mare, il vento, l’aria pura, la libertà senza confini, in basso la clausura in una scatola d’acciaio zeppa di ordigni.
I timoni orizzontali di prora si erano già abbassati, paralleli alla superficie del mare, come pinne di un pesce immenso. Da poppa venne un sordo muggito. «Giù!» fece il comandante. Questa la classica paroletta, la più importante forse di quante si pronuncino a bordo, sinonimo di immersione e di emozionanti attese (così come l’ordine gemello «Su!», all’atto della salita, accende sui volti stanchi la luce della liberazione). Cominciava il rito della discesa negli abissi, per noi misterioso. Sui fianchi del nero scafo un ribollio sordo, per l’aria che usciva dalle casse, aria vecchia e marcia che spandeva acuto odore di officina meccanica.
Ci calammo a precipizio per la scaletta e prima che fossimo arrivati in basso sopra la nostra testa era già stato sprangato il portello, sottraendoci alle stelle. Eccoci finalmente nel tubo meraviglioso che porta uomini vivi nelle profondità del mare. Ecco il santuario di eroismi lunghi e pazienti, dove non si odono crepitare fucilate né galoppare cavalli alla carica, dove non sventolano bandiere né suonano le trombe di vittoria.
Eccoci nel ventre di questa balena cristallizzata, tra il groviglio delle matematiche viscere, tante volte descritto. Invano, sgusciando per le ovali strozzature delle porte stagne, percorrevo da un capo all’altro il tubo sottomarino cercando qualcosa di consono alla normale vita umana. Chi gira i grandi bastimenti da guerra, aspri labirinti d’acciaio, ogni tanto incontra un lettino, uno scrittoio, una lampada con paralume, una tenda di seta, un gingillo, un ritratto di donna, un fiore. Ma qui gli specchi molati dei due armadietti, nel quadratino ufficiali, unico segno di eleganza domestica, sembravano un’ironia, e così le quattro cuccette: perché ai lati, attorno, sopra e sotto i giacigli urgevano ancora gli ordigni e le macchine della guerra, la girobussola, i rigeneratori dell’aria, la rastrelliera dei moschetti, gli acciarini dei siluri, i respiratori, a pochi centimetri dal naso dell’uomo dormiente.
«Aria alla rapida! Chiudi e storna gli sfoghi d’aria! Timoni a salire!» Non me ne ricordo che pochi, dei comandi dati per guidare giù e su fra gli strati acquei la favolosa talpa dei mari. Gli uomini erano intenti alle ruote dei timoni, alle valvole, alle bussole, ai manometri, alle mille leve, manovelle, intercettazioni, pompe, eccetera. Il comandante si era messo sul gradino per accedere al quadrato ufficiali e questo gradino era una cassetta con dentro chissà cosa, perché nel sommergibile non può essere sprecato un millimetro cubo di spazio. Egli scandiva gli ordini osservando le sfere dei quadranti e manometri registranti le profondità. Via via che si compiva la tridimensionale manovra, esse avanzavano verso i numeri indicanti le quote di immersione. Il pavimento si era improvvisamente inclinato verso prora, strani gorgoglii si udirono, poi si fece silenzio. Mi pareva che ci fosse una attesa intensa e cupa, come se qualche cosa di grave potesse accadere (in realtà era soltanto la mia impressione, non avendo io mai fatto questa esperienza). E le lancette che avanzavano avanzavano segnando l’inabissarsi, le gocce di mare filtranti da una guarnizione non serrata abbastanza, il suono astratto delle voci suscitavano vaghe apprensioni: «Idrofoni ascolto! Compenso mare! Dire!». Allo scopo di perfezionare l’assetto del battello. Le pompe cominciarono a pulsare, cacciando fuori liquido dal corpo del sommergibile. La somma dell’“avere” si assottigliava, nel conto coll’acqua aperto col Mediterraneo. Il sottufficiale alla pompa assetto diceva: «Cento, duecento, trecento… compenso mare cinquecento!». «Basta» disse allora il comandante. Le pompe si tacquero.
Nel silenzio adesso affioravano rumori sottili come il respiro di una formica: il tic-tac del tachimetro, il lieve palpito dei motori elettrici, il ronzio quasi impercettibile dell’“interfonico” che riecheggia gli ordini in ogni compartimento del battello.
«È ancora pesantino» mormorò il comandante, per dire che la nave tendeva troppo alla discesa. E per la seconda volta mi venne in mente un chirurgo. Anche in camera operatoria, come qui, parole innocenti dell’esistenza comune come “adagio, presto, giù, su, vediamo un po’, bello, brutto” acquistano un grande significato, assoluzione o condanna (ma forse anche questa è una mia esagerata impressione?). Quaranta metri d’acqua nera e compatta erano ormai sopra noi e ancora le lancette avanzavano: quarantadue, quarantatré, quarantaquattro…
«La frigorifera è fermata, la girobussola è fermata, il tachimetro è fermato, i ventilatori fermati, non resta che mettere la macchina al minimo» disse il comandante a un certo punto. «Adesso riduciamo la luce, se no si schiatta dal caldo.» Dopo alcune ore di immersione l’aria si era fatta greve.
Era una brevissima missione la nostra: appostarsi in una zona di mare sospetta e ascoltare se mai qualche battello inglese vi andasse vagando. Una cosa da nulla, quasi ridicola al paragone delle missioni lunghe quanto una luna, molte ore di immersione, con la minaccia delle mine, dei Mas, dei sommergibili, delle reti, dei caccia, degli aerei. Questa volta si trattava di poche ore e l’unica minaccia teorica era un battello subacqueo, anch’esso improbabile. Il mare era calmo, la nostra terra vicina, non c’era alcun indizio sospetto. Eppure cominciavo a capire.
Nell’aria stagnante che diventava lentamente opaca come nebbia, cominciavo a capire quale difficile impresa fosse andarsene da soli, in uno di questi scafi, per giorni e giorni, verso il nemico lontano; e il disagio sempre crescere e il sonno moltiplicarsi. Ogni mutamento un pericolo, ogni ombra intravista al periscopio un nemico. E questo per una settimana, due settimane, tre settimane.
Non esisteva più la notte, né la luna, né la divisione delle ore, eravamo immobili, in ascolto, i motori fermi. Non uno fiatava. Solo il comandante ogni tanto chiedeva: «Idrofoni?» e dalla cabina d’ascolto veniva risposto: «Zona libera!». Per almeno un raggio di parecchi chilometri il mare era vuoto.
Come in fondo a un cannocchiale, attraverso le successive quinte delle porte stagne, si intravedeva uno scorcio della camera di lancio prodiera, immersa in una caligine azzurrina. Gli uomini di servizio, in piedi dinanzi ai volantini di manovra, sembravano trasformati in statue, tanto fermi erano e muti. Alla fine il comandante andò a sdraiarsi sulla cuccetta, vestito com’era. Ma inutilmente. La pace del sonno non era per lui. Ogni due tre minuti nella camera di manovra si udiva giungere la sua voce, così familiare e viva: «Dite, come si tiene il battello in quota?». E poco dopo: «Idrofoni, idrofoni… sentite qualche cosa?…». E poco dopo: «Cos’è ‘sto rumore? (era un debolissimo suono come di latta appena appena toccata)… sì, ‘sto rumore…». E ancora, dopo quattro minuti: «Idrofoni, idrofoni…». Per lui questo significava dormire.
Ed ecco parve che il sommergibile, noi, il mare attorno e sopra, fossero morti. Era il più grande silenzio che avessi mai percepito, gelido e assoluto. Fosse passato anche un metro vicino a noi, ci avesse pure sfiorati, possedesse gli apparecchi di ascolto più diabolicamente acuti, il nemico non ci avrebbe potuto sentire. Non il più esile scricchiolio, respiro, soffio violava il nostro incantesimo. Mi balenò il dubbio che non fossimo sprofondati nelle viventi acque marine, ma ermeticamente chiusi nel cuore di un’antica terra, sovrastati da basalti e da melma, sepolti per sempre. Eppure ogni tanto, dalla cuccetta del comandante, si udiva la instancabile voce (parlava forse in sogno?), la voce che chiedeva: «Idrofoni, idrofoni…». E gli idrofonisti rispondevano sempre di no, che non si sentiva niente. Il mare era completamente deserto.
“Corriere della Sera”, 20 ottobre 1940