La vedetta
Sono un marinaio: vedetta antisilurante dell’incrociatore che naviga. Mi riparo dal vento con un pesantissimo cappottone d’orbace, passamontagna, guanti di lana. Me ne sto su uno dei ripiani dell’albero prodiero, non molto in alto perché gli sguardi possano correre sulle acque di striscio; è questa la condizione migliore per riconoscere le insidie provenienti dal mare. Sul bordo del parapetto di lamiera c’è un settore graduato e su questo, fissato a un perno, un binocolo attraverso il quale io guardo. Il mio binocolo può girare, in senso orizzontale, per un angolo di 70 gradi. Alla mia destra c’è un’altra vedetta che esamina il settore più infido, quello di prora, da cui più grande è il pericolo; perciò il suo lavoro, quantitativamente, è minore, appena 35 gradi di orizzonte. Alla mia sinistra c’è una terza vedetta che esplora il mare a partire dal centro fino a poppa estrema, la zona meno preoccupante, 95 gradi di settore. Metà dell’orizzonte viene così da noi tre tenuta costantemente d’occhio. Dall’altra parte, a dritta, altre tre vedette controllano i 180 gradi rimanenti.
Ai limiti di ciascun settore gli sguardi dei binocoli adiacenti si sovrappongono, per un angolo di 5 gradi, affinché non rimanga, per così dire, una sottile striscia di separazione sottratta a noi sentinelle. Tre e tre sei vedette antisiluranti, dodici occhi fissi sull’inquieto deserto marino. Ma sopra e sotto a noi, sulle coffe di prora e di poppa, sulla controplancia, sulla plancia segnali, molti altri marinai stanno vigilando. Non c’è porzione di mare o di cielo su cui non battano sguardi.
Sono montato di guardia alle sette, alle otto un compagno verrà a rilevarmi. Per un’ora io vivrò in compagnia del mio pezzo di mare, e posso dire di conoscerlo bene! Esso pare sempre lo stesso e immobile: mentre in realtà fugge dinanzi a me con la velocità di 20 miglia all’ora. È di colore grigio con rare strisce di schiuma (essendo oggi mediocre il vento) e oscilla su e giù in corrispondenza del rollio. All’orizzonte ultimo, le onde, viste di profilo, hanno l’apparenza di gibbosità che salgono e scendono, non tondeggianti, scabre, incredibili a vedersi. (E laggiù – fenomeno che non sono riuscito a spiegare – sia levante, nord, occidente, meridione, a qualsiasi ora della giornata, c’è una luce speciale, meravigliosa, quale vediamo nei sogni; si direbbe che laggiù il mare sia molto più bello di qui, ivi regni una eterna beatitudine, mai violata dal genere umano, che quello sia il mare degli antichissimi miti, dove mai potremo arrivare.)
Benché non abbia il coraggio di confessarlo a nessuno, da che faccio la vedetta ho l’impressione che nel “mio” tratto di orizzonte si nasconda – non riesco a spiegarmi meglio – un essere invisibile e maligno, complice del nemico. Come se il mare, di solito assolutamente imparziale tra i combattenti, fosse in quest’ora ostile a noi decisamente; e le onde che gorgogliano attorno allo scafo, pur facendo finta di niente, smanino dalla voglia di penetrarvi dentro e provocare rovina. Tale essere ci accompagna nel viaggio e sta costantemente all’erta per approfittare di una mia distrazione, cercando di indovinare il mio pensiero, se io tra un attimo ruoterò il binocolo a destra o a sinistra oppure lo terrò fermo per qualche istante, se solleverò la testa per togliere una macchiolina di nafta dall’oculare, o invece non mi curerò di pulirlo. La cosa, a pensarci, risulta assurda; eppure io sospetto che se lui riuscisse a giocarmi, nell’istante medesimo un periscopio affiorerà dal pelo dell’acqua, o uno scafo da guerra comparirà nel tratto di orizzonte che i miei occhi hanno appena abbandonato.
Solitamente comincio da una estremità e adagio adagio procedo verso la parte opposta, fino al limite del settore; poi torno indietro con uguale lentezza e così in continuazione. Ogni tanto però, quando sono arrivato a metà, mi prende il dubbio che quell’essere furbo e malevolo stia spiando i miei movimenti; e, calcolando ciò che farò, faccia sbucare l’insidia verso destra, ad esempio, dove i miei sguardi – se non cambiassi ritmo di osservazione – torneranno solo dopo un certo intervallo. Allora inverto di colpo il movimento, torno rapidamente indietro, per sorprenderlo. E invece non trovo niente.
Spesso il mio tratto di mare è attraversato da una scia bianca, a noi parallela: la scia di un cacciatorpediniere di scorta. Man mano che io sposto il binocolo verso destra, questa scia si fa più larga e schiumosa, finché a un tratto nella visuale entra di colpo la poppa del bastimento, la quale ogni volta, così concreta e nitida, in quella instabile distesa di acque, mi fa una strana impressione, come fosse una inquietante sorpresa; e non c’è verso che io mi abitui. Forse ciò dipende da un fatto: la mia attenzione è così tesa che ogni oggetto estraneo, anche se noto e previsto, il quale rompa d’un tratto la solitudine del mare, provoca una specie di frattura e mi conturba. Così come quando si trasale perché uno ha sparato un colpo, anche se si sapeva che in quel momento sarebbe successo lo sparo.
Io penso che l’essere nemico e maligno, a cui prima accennavo, faccia molto assegnamento su tali scie e sulle strisce di schiuma in genere, per trarmi in errore. Non ho mai visto, in navigazione, affiorare il periscopio di un sommergibile; dicono che è molto difficile distinguere l’estremità del tubo che emerge dalle onde, ma in compenso si scorge relativamente bene, sulla superficie, la traccia da esso lasciata. Orbene, nei giorni che le onde sono tutte frangiate di bianco, io ho la sensazione che lui ne goda, risultandone un considerevole vantaggio nei miei confronti; a tal punto è arrivata la sorda lotta tra di noi. Come infatti distinguere la minuscola scia di un periscopio nella miriade di ciuffetti bianchi? E nei giorni di mare calmo chi mi dice che essa non si possa confondere, in prospettiva, con il candido ribollio lasciato dal caccia di scorta? Non solo: spesso, se si naviga in formazione, là dove si incontrano le scie, ormai quasi spente e invisibili, di due navi, il mare d’improvviso si increspa, per una lunghezza di diversi metri con piccole onde ambigue. Ma è poi l’effetto di due scie che si incontrano? Non potrebbe essere il sintomo di una presenza nemica?
Dal mare stesso traggo così alcune inquietudini e insieme apprendo astuzie sottili; quanto più “lui” si sforza di eludermi, tanto più acuto e ostinato divengo. Oh, non è la cosa più facile e placida di questo mondo far la vedetta su una nave in tempo di guerra. Quando penso che la vita dell’incrociatore e di oltre mille compagni può dipendere dai miei due occhi, dai miei occhi soltanto, mi viene una sorta di affanno, come alle porte di un esame quando non si è studiato. Poi considero che in fin dei conti ci metto tutto l’impegno, e allora mi tranquillizzo un po’. Nel frattempo la luce del giorno è calata parecchio; il sole è nascosto da una cortina di nubi, ma è probabile stia per tuffarsi nel mare.
Ecco l’ora che “lui” predilige per architettare i suoi inganni. All’orizzonte, venuto meno il sole, “lui” non può più, con i giochi di rifrazione, costruire vuote parvenze, non può trasformare le onde in isolotti marmorei o una torpediniera lontana in un mostruoso castello. Ma in compenso ora vagano i fantasmi del crepuscolo, suggerendomi con insistenza stolte illusioni, le onde perdono il contorno e si confondono in una unica massa irrequieta, pervasa da una eccitazione animalesca, perfino il fedele caccia di scorta mutasi in un’ombra indecisa e alquanto spettrale.
Forse il mare che noi navighiamo è davvero vuoto e innocente, non ci sono nemici in agguato, le mie sono fantasie da bambino sciocco, nessun essere maligno e invisibile mi sorveglia per sorprendermi in un momento d’oblio. Eppure avrò pace soltanto quando il mio compagno mi avrà rilevato. Prima che sia finito il mio turno, sarà intanto venuta la notte, tutto scomparirà dietro un cupo sipario, il mare avrà assunto colore nero.
Nero fin che si voglia, qualche cosa i miei occhi riusciranno a vedere lo stesso. A poco a poco mi abituerò al buio, distinguerò il caccia di scorta, vedrò la sua scia bianca, perfino la cresta delle singole onde. “Lui” avrà un bel tentarmi con allucinazioni, facendo apparire navi che non esistono, lumini e luci che mai furono accesi. Avrà un bello sperare nella mia stanchezza, affinché io veda quello che non c’è e non veda poi quello che bisognerebbe vedere. Tra poco la mia ora di guardia sarà terminata. Il mare ritornerà ad essere il solito mare, e “lui” sarà d’incanto scomparso, dissolto nelle tenebre, mai esistito. Cosicché, cedendo il posto al compagno, non avrò neppur bisogno di metterlo sull’avviso.
“Corriere della Sera”, 11 febbraio 1941