Ansie di un cane di bordo

DA BORDO DI UN INCROCIATORE

Napoleone è il mio nome ma familiarmente mi chiamano Peo. Come cane di bordo dell’incrociatore, ufficiosamente ammesso dal superiore comando, ho il privilegio di potermene stare in quadrato ufficiali accovacciato per ore su una poltrona, se così mi fa comodo. Tutti mi sopportano con un bonario sorriso, parecchi mi vogliono bene, ma la vera fortuna è un protettore che mi tiene quasi sempre con sé, mi copre con la sua autorità e preserva dagli spiacevoli scherzi (soprattutto nei primi tempi, ad esempio, un ufficiale grandissimo, il più alto e forte di tutti, si divertiva a farmi ringhiare stringendomi per il collo, che strani gusti). Questo protettore alla sera mi prende in braccio, mi porta giù nel suo camerino, mi permette di dormire sul bordo del letto. Deve essere una persona importante a giudicare dal riguardo con cui lo trattano tutti, dal suo grado di maggiore, dalle dimensioni del suo alloggio, dai mucchi di carte sulla sua scrivania. Spesso ha tra le mani dei bizzarri disegni, ma su chi eserciti la sua autorità è rimasto per me un conturbante mistero.

Oh, lo so che i gatti si fanno le beffe di me. Non perché io sia brutto, piccolo e bastardo (come se loro fossero di stirpe reale! con quel pelame brindellato e lercio!). Ridono di me perché loro se ne vanno dalla mattina alla sera attraverso il bastimento, facendola da padroni, si intrufolano dappertutto, spariscono e ricompaiono come fantasmi. Mentre invece io, eccettuato il quadrato ufficiali, la coperta di poppa, il camerino del mio padrone e un’altra stanzetta di cui poi vi dirò, non conosco niente. Mi chiamano il signorino, quegli scomunicati. Fanno presto a deridermi, loro che volano su e giù per le scalette di ferro come fossero rondini. Io da solo non ce la faccio a calarmi per quei precipizi. A salire mi arrangio. Ma a scendere è un affare serio. Due tre volte ho provato, poco mancò non mi storpiassi l’osso del collo. Così, nell’incapacità di seguirli, li vedo sparire negli abissi del bastimento, beffardi e agilissimi.

Il bastimento! Dio sa quanto mi piacerebbe poterlo percorrere tutto, esplorarlo negli angoli più remoti, diventar popolare tra l’equipaggio, risolvere così finalmente il problema che sempre mi assilla.

Ecco: il mio protettore mi conduce con sé tutto il santo giorno, mi provvede cibi speciali, mi cura se sono malato, mi coccola come fossi un purosangue. Padrone più amorevole non potrei immaginarlo. Se io scendo a terra e tardo a rincasare, lui positivamente sta in pena, e quando ricompaio me lo fa capire con appropriati cenni. Sul volto suo arguto e sagace ho imparato a leggere molte cose. E mi meraviglio talora che un uomo come lui, considerato dai suoi simili con tanta stima e rispetto, apprezzi la compagnia di un cagnetto rossiccio, dal corpo sgraziato a forma di vescica, flaccido per di più costituzionalmente nel treno posteriore, vedete bene che sono sincero. (Lui stesso, col bene che mi vuole, l’ho sentito dire guardandomi: Peccato che di grazioso abbia soltanto il musino.)

Pure debbo confessare che qui a bordo mi sento straniero. Si capisce, di andarmene non ci penso nemmeno. Sono abituato, ormai. E le gioie della terra mi impauriscono più che sedurmi; si vedono certe grinte sulle banchine del porto, certi cagnacci senza onore, certe cagnette selvagge e ridicolmente pretenziose, che appena io mi avvicino mostrano i denti. In nessun’altra parte del mondo posso sperare la pace e la benevolenza che qui sto godendo. Eppure mi sento straniero. Mi accorgo che per lo stesso padrone io rappresento una distrazione, un gioco, ma che il suo animo è altrove.

Che ridicole pretese, direte: è mai possibile che un uomo anteponga un cane ai propri amici, per esempio, alla propria famiglia? No, io non volevo dir questo. Io intendo affermare che qui, sulla nave, vivono, ignoro dove nascosti, pericolosi rivali, i quali hanno sopra di me il sopravvento. Chi sono? Quale acuto fascino ne emana per incantare il mio protettore, uomo così sicuro di sé? Per fargli dimenticare, certi giorni, qualsiasi altra cosa al mondo?

Quante volte, facendo finta di dormire, sono stato ad ascoltarlo con ansia, se mai mi riuscisse di carpirgli il segreto (sebbene del linguaggio umano io capisca ben poco). Non sono riuscito a cavarne gran che. Tuttavia più di una volta ho udito da lui le parole:

«Le mie scuderie… I miei quadrupedi… Baccere! se li abbiamo fatti andare al galoppo!» e altre espressioni del genere. Ne ho dedotto che i miei rivali devono essere cavalli.

Cavalli, si fa presto a dire. Ma dove li tengono nascosti a bordo di una nave da guerra? E a che cosa possono servire? A trascinare il bastimento sulle onde? E quanti sono? Mi ricordo che tempo fa un tale chiese al mio padrone testualmente: «E di quanti cavalli disponete?». «Centocinquantamila» rispose lui, me ne ricordo benissimo. Centocinquantamila cavalli nascosti nella plancia della nave?

Poi state a sentire: ogni tanto nasce a bordo uno speciale fermento. Nei primi tempi ne restavo frastornato. Oggi invece capisco: vuol dire che dopo poco usciremo per mare. Cominciano allora le mie pene. Non più i sonnellini in quadrato, le passeggiate a poppa, le dolci notti in camerino. Il padrone mi mena in uno stanzino squallido, che dà su una specie di corridoio. Dall’altra parte del corridoio si intravede, attraverso una porta, un andito vasto, chiuso fra pareti metalliche, una specie di grandioso pozzo rettangolare. Osteriggio, lo chiamano, se non sbaglio. E ne esce un frastuono potentissimo con aliti d’aria ardente.

Mi mettono una specie di sottopancia, mi legano a un volantino di chissà quale tubolatura, che sporge da una paratia, cosicché non possa andarmene. Ma tutto questo è il meno. Ciò che mi angustia è vedere il padrone non darmi più confidenza, disinteressarsi praticamente di me. Da notare ch’egli non porta più la sua bella uniforme blu scuro, bensì una casacca di tela, che gli uomini chiamano tuta; uguale vestimento portano gli ufficiali che entrano ed escono, portano notizie a me incomprensibili; e spesso sono terribilmente sudati. Talora, a queste notizie o al termine di una telefonata, il padrone improvvisamente si alza: «Va bene,» dice «adesso scendo a vedere». Senza neppure guardarmi esce dallo stanzino, scompare nel cosiddetto osteriggio, donde esce quel fiato ardente. Va a trovare i suoi odiosi cavalli, scommetto. Per i suoi cavalli mi lascerebbe morire di fame, ne sono sicuro. Chissà poi che cosa hanno di speciale, quelle bestiacce.

C’è di peggio. Mentre si naviga odesi a un tratto un suono di tromba tutto particolare. «Posti di combattimento» dicono i marinai e i fuochisti, ma ignoro cosa significhi. Altro che carezze, allora. Il padrone si dimentica quasi che io esista, telefona e ritelefona, compare e scompare; e sempre arguto è il suo volto, ma forse un po’ diverso dal solito. Poi un colpo tremendo scuote tutta la nave. Seguono altre esplosioni, a intervallo brevissimo, letteralmente infernali. Io, sgomento, mi accovaccio a terra, le orecchie ritratte indietro (in posizione protettiva, usa dire il maggiore).

Così aspetto per lunghi minuti, invaso da oscuro spavento. Oh, quei colpi, non ho mai bene capito che cosa significhino, eppure mi fanno paura. Battaglia, scontro, combattimento, sento dire dai marinai; ermetici enigmi per me.

Gongolano i cavalli, allora. Il mio padrone è tutto per loro, si informa minutamente della loro salute, se hanno sete, se hanno fame, se galoppano di buona voglia, ogni tanto corre a guardarli personalmente. Quasi fossero loro a comandare, quelle bestiacce.

Oppure, invece del suddetto finimondo, echeggiano altri botti, molto più piccoli ma più secchi e cattivi, uno dietro l’altro, con una velocità di una macchina per scrivere. I più esacrabili di tutti. E io non so resistere allora. Perdo ogni ritegno, confesso. Latrati di abbietto terrore sfuggono dalla mia gola. E gli ufficiali sorridono, credono che desideri combattere anch’io, che abbia un cuore da guerriero, mi fanno complimenti. Poveri illusi, se sapessero.

Giorni e giorni per mare. Di tanto in tanto il protettore mio si sdraia su una rudimentale cuccetta arrangiata nello stanzino e fa una specie di sonno, vestito di tutto punto. Con un occhio dorme. Con l’altro fissa sempre la porta, se mai entrasse qualcuno portando nuovi messaggi. Io lo osservo, di sotto in su, leggo sopra il suo volto ciò che le sue parole non sanno dirmi. Egli pensa ai suoi destrieri, pensa, per loro sacrifica il sonno, si fa pallido, si consuma; pensa ai suoi centocinquantamila cavalli di fuoco, che io mai riuscirò a vedere, chiusi giù in basso, nella caverna proibita. Il loro fiato ardente soltanto mi arriva; e invece di nitrire, ruggono come leoni.

Adesso il padrone mi lascia ancora una volta. Poco fa è entrato un sottufficiale annunciando: «C’è una piccola perdita d’acqua nel …» non ho capito oltre. Subito il mio signore è saltato dalla cuccetta. «Avanti, fatti in là!» mi ha detto senza alcuna dolcezza, perché forse ingombravo il passaggio. Ed è scomparso nella penombra. Ha paura che gli manchi acqua ai suoi odiosi cavalli, ha paura che abbiano sete i poverini. E io sto ad aspettarlo per ore, col cuore che batte, legato col sottopancia, all’oscuro di tutto. Mi sento brutto, infelice, debole più che mai nel treno posteriore. Mentre i gatti di bordo, insensibili al pathos guerriero, mi sgusciano dinanzi e bisbigliano: «Napoleone!» facendo ghigni e boccacce.

“Corriere d’Informazione”, 5 giugno 1941