Col muso dilaniato

DA UNA BASE NAVALE

Bisogna andare subito a chiedere informazioni. In questo momento è entrato in porto un sommergibile col muso schiacciato. Esso si muove tuttavia con la solita disinvoltura ed è andato a mettersi alla banchina senza speciale fatica; segno che lo scafo resistente è intatto. Pure quella prora ridotta a un groviglio di lamiera ha una espressione strana e potente; muta eloquenza guerriera se ne sprigiona, come da volto umano devastato in battaglia. Da quale avventura ritorna? Ha “pizzato” contro uno scoglio? È stato investito? Bombe di profondità? Chissà che non abbia una bella storia da raccontare.

Andiamo a cercare il comandante. Non è ferito, come si poteva anche temere, bensì trovasi nel suo alloggio, già sbarbato e vestito di bianco, seduto allo scrittoio. Ora che la missione è finita, c’è da scrivere il rapporto. Così oggi si trova alle prese col brogliaccio di navigazione, una faccenda piuttosto difficile a decifrare, e perderà ore e ore.

Gli chiediamo subito la faccenda della prora schiacciata; col timore di sentirci rispondere, per esempio: Quell’ammaccatura? Ah, non è niente, è stato nell’uscire dal porto, un rimorchiatore che c’è venuto addosso. (Sempre così, quando crediamo di pescare qualche bella notizia.) Invece no, questa volta non ci son delusioni. Il muso schiacciato può raccontare una interessante e lunga storia: stramba, paradossale e abbastanza eroica, non c’è che dire. Quel muso sfregiato significa che il sommergibile, per una serie di motivi che diremo, si è gettato a speronare un piroscafo inglese; e l’ha probabilmente affondato. Una storia unica, probabilmente, nella storia del mare. Il sommergibile infatti non è nato per i corpo a corpo, che si sapesse finora. Lui come lui non si metterebbe mai in simili imprese. Ma dentro ci sono uomini, ci può essere soprattutto un comandante dall’animo ben deciso; e allora al sommergibile tocca fare le cose più imprevedibili; come, ad esempio, speronare una nave nemica.

Per favore, comandante, lasciate stare adesso per qualche minuto il rapporto di navigazione e raccontateci. E il comandante racconta; la qual cosa è piuttosto lunghetta, lo speronamento del piroscafo non essendo che l’episodio finale, la brillante chiusa di una complicata scorribanda in mezzo ai fantasmi del mare.

«Bene» fa lui. «Noi si era andati in una certa zona di mare per un certo scopo, sapete meglio di me che queste cose non si possono dire. Cominciamo dalla prima sera di agguato.»

Il comandante parla con la consueta semplicità che hanno gli uomini della sua classe, consueta ma sempre stupefacente. Pare racconti una passeggiata.

Fuori della finestra ci sono fronde d’albero che stormiscono al vento; al di là delle fronde si vede una spiaggia bianca e deserta, quindi il mare azzurro.

«Dunque, fin dalla prima sera di agguato abbiamo visto il nemico. E poi è stato un continuo seguito d’incontri. Nove volte lo abbiamo incocciato, prima di tornare a casa. Sì, una missione abbastanza animata.

«La prima notte, dicevo, verso mezzanotte e mezzo (c’era una bellissima luna), ho visto due motoscafi. Non Mas, proprio motoscafi senza quella specie di piccola plancia. Do subito l’ordine: prepararsi al combattimento. Quei due erano sui 1.000 metri, con rotta parallela alla mia. Manovro per attaccarli ma anche loro contromanovrano, uno alla mia dritta, uno a sinistra. Fuoco allora. Pure loro hanno sparato ma si vede che non se la sentivano. A 500 metri circa hanno fatto dietro front e se ne sono andati. Ma uno deve essere rimasto colpito, e abbastanza bene, anche; se n’è andato via tutto storto.»

«Un bel fatto» diciamo al comandante «che un sommergibile vada all’attacco di due motoscafi addetti alla caccia di sommergibili.» Lui ci spiega: «Quei due scafi non avevano siluri, probabilmente erano armati soltanto di mitragliere e di bombe da getto. Speravano di imbrogliarci; speravano che noi, alla vista, ci si ficcasse sotto, e giù allora le bombe. Così speravano. Invece, quando si sono visti attaccati… E poi chissà precisamente che cosa volevano? Per quella notte comunque non si è visto altro.

«Passiamo alla notte successiva. Verso le 3.30, sotto una splendida luna, ecco due magnifici cacciatorpediniere. Mi parevano bei grossi, con due fumaioli. Ma che cosa potevo fare? Saranno stati almeno a 8000 metri, con rotta normale alla mia. Li ho visti per un momento quando sono passati nella scia della luna, poi sono scomparsi nel buio.

«La sera dopo, verso le sette, ho visto al periscopio due Mas che stavano facendo ascolto. Probabilmente la nostra presenza era stata segnalata e speravano di beccarci. Naturalmente io ho fermato tutto e sono andato in quota (quota negativa s’intende). Loro sono rimasti sopra di me un paio d’ore. Li sentivo razzolare su e giù, ma non mi hanno scoperto. Col buio se ne sono andati.

«Uno, due, tre… adesso siamo al quarto incontro col nemico. Era al mattino. Stavamo per chiudere il portello e scendere da basso, cominciava a farsi chiaro, quando ho visto un bel caccia. Non c’era tempo da perdere. Gli siamo andati incontro navigando sempre in superficie, e nel frattempo si era fatto chiaro. A una certa distanza, fuori un siluro. Ma questa bestia di un siluro non viene in superficie? Addio sorpresa. Naturalmente il siluro ha fatto due bei baffoni bianchi e gli inglesi l’hanno subito visto. Lo hanno visto e hanno subito messo la prora su di noi.

«Come se non bastasse, ecco che una vedetta mi chiama: Comandante, dice, c’è un altro caccia sulla dritta. Guardo: anche questo era abbastanza vicino, non più di 2.500 metri; ma quel che è peggio mi veniva addosso a tutta velocità. Giù allora, noi. Ci siamo ficcati sotto a tutta velocità ma poi siamo subito tornati a quota periscopica per vedere. Chissà che non si potesse combinare ancora qualcosa. Guardo, e vedo che il primo caccia si era levato di mezzo; il secondo invece continuava a venirci addosso.

«Manovro per silurarlo. Pronti per il lancio di poppa, ordino, aprire i cappelli cinque e sette, caricare le bombole, togliere gli spilli. Era una manovra buona, il caccia non doveva sapere esattamente dove io mi trovavo, bastava che continuasse per quella rotta. Macché: proprio quando stavo per lanciare, questo signore – per caso oppure aveva visto il periscopio? – questo signore ha accostato rimettendomi la prora addosso. Non restava che togliersi di mezzo.

«Avevo appena deciso di immergermi – si può dire – e sono cominciate le bombe. Prima tre, vicinissime, veramente brutte. Devono avermele tirate col lanciabombe se no non si spiega; il caccia infatti era ancora abbastanza lontano. A bordo è successo un quarantotto, lampadine saltate, eccetera.

«Un minuto dopo, altre quattro bombe, queste certamente portate dal caccia. Vicine, ma un po’ meno. Noi giù, intanto, il più profondo possibile. Ma il caccia se ne è andato quasi subito. Che cosa era successo? Aveva visto un nostro aereo? Non riesco a capire. Già mi aspettavo una giornata calda, fermo fino alla notte seguente, braccato coi periteri, sotto una pioggia di bombe. Invece mi hanno lasciato solo, grazie a Dio.

«Altri due caccia – o erano gli stessi? – li ho visti la notte successiva, anche questa volta troppo lontani. Ma scusate, adesso mi sbaglio, questo non è stato la notte successiva, ma due notti dopo.

«Poi, un bellissimo scherzo. L’ufficiale di rotta mi dice: C’è un piroscafo con due fumaioli. Guardo anch’io: è un piroscafo. Ci dirigiamo subito contro, ma mi accorgo che o va molto adagio oppure è fermo. E un piroscafo autentico, pitturato di nero, non c’è dubbio in proposito. Avanti, avanti. Mi accorgo intanto che andiamo troppo sotto costa, i fondali diminuiscono, 60, 50, 40 metri, c’è qualcosa che non funziona. Bene, mi dico, qui non ci vedo chiaro, veniamo in superficie.

«Vengo infatti in superficie e vedo che questo magnifico piroscafo si era andato a incagliare in costa; non si era sbandato di un centimetro. Ma non c’era niente da fare. Doveva avere avuto qualche grosso guaio, per causa degli italiani, immagino. Doveva esserci stato un incendio. Le soprastrutture annerite, la bandiera non c’era, gli alberi di carico non c’erano: un relitto insomma, senza un’anima a bordo. E me ne sono andato via.

«Passa un altro giorno. Di notte ho visto i due caccia di cui ho detto poco fa. Poi all’alba ti vediamo un affare, una luce azzurra che fa dei segnali. Evidentemente ci dirigiamo subito contro a tutta forza, ma dopo un po’ vedo, non nella direzione sua ma un poco a dritta, un’altra macchia scura. Faccio armare il pezzo e la mitragliera. Insomma, per farla breve, erano ancora i due Mas di tre giorni prima. Quando siamo stati a una buona distanza, apriamo il fuoco col cannone sul Mas di dritta, con la mitragliera su quello di prora.

«Anche questi due Mas se la sono subito squagliata; e io come facevo a inseguirli? Intanto mi domandavo: chi sono? E evidente che neppure questi hanno siluri; forse vogliono speculare sulla dabbenaggine del comandante nemico, nella speranza che lui vada sotto e così ci possono tirare le bombe.

«Basta. La sera dopo incocciamo ancora questi due mametti (tale l’espressione del comandante, anche se ignota alla Crusca), vado loro addosso e faccio una bella sventagliata con la mitragliera, a scopo più che altro dimostrativo, e poi me ne vado. Dopo mezzanotte, torno sul posto. Questa volta, dico, andiamo all’assalto. Ed ecco, pressappoco nel punto dove avremmo dovuto ritrovarli, si vede una sagoma, una sagoma piccola ma comunque molto più grossa dei Mas.

«Ci mettiamo la prora sopra e lancio un siluro. Questo siluro parte e passa sotto. Vi dico allora una cosa: ne avevamo le scatole piene di questi inglesi. E ci siamo andati addosso. Abbiamo ridotto di velocità e sparando come pazzi lo abbiamo speronato.

«Era un piroscafo, non grande, si capisce. Lo abbiamo preso in pieno. Vraan! Uno schianto tremendo. Bisognava vedere che scintille. Il mio battello si è ficcato un po’ sotto, infilandosi col muso in giù, poi è ritornato fuori, senza danni allo scafo. Ma un bello squarcio al piroscafo glielo abbiamo fatto. Poi silenzio.

«Chiamiamo. Da bordo non risponde nessuno. Allora ci siamo girati intorno e abbiamo visto che mancava una lancia di salvataggio. Avevano tagliato la corda, evidentemente, appena ci avevano visti. Intanto quel bell’affare ha incominciato a imbarcare acqua, a andare giù, a andare giù. Ma non potevo mica aspettare che affondasse. Non era davvero prudente. Solo un altro giro intorno, per vedere se ci fossero naufraghi; ma non c’era nessuno. E così si è chiusa la faccenda.

«Sulla via del ritorno, in acque tranquille, di pieno giorno, mentre si navigava in superficie, una vedetta mi fa: “Comandante, c’è un aereo sulla sinistra”. C’era, difatti. Ancora parecchio lontano, ma doveva essere molto grosso. Io dico: qui bisogna levarsi di mezzo. E faccio subito rapida immersione. Ci aveva infatti già visti, quel dannato. Dopo qualche minuto sentiamo degli scoppi intorno. Bombe di profondità, naturalmente, ma per fortuna lontane, tirate a schiovere.

«Poi abbiamo fatto ritorno.»

Il comandante ha finito di raccontare. Parola più parola meno, abbiamo trascritto il suo discorso tale e quale. Non abbiamo aggiunto spiegazioni, che sarebbero state inutili, né alcun commento, che sarebbe riuscito fuori tono. La semplicità stessa del racconto descrive questi uomini. Perché certo vi sarete ben resi conto che razza di impresa sia stata, che avventure da far venire i brividi, che istanti spaventosi quando si videro la prua del cacciatorpediniere piombare addosso a tutta andatura; e poi quelle bombe, quegli incontri notturni coi misteriosi navicelli nemici, quel partire allo sbaraglio contro i due scafi, piccoli sì ma fatti apposta per dare la caccia ai battelli sottomarini; e infine quella speronata conclusiva, costi quel che costi, quel sommergibile che si dimentica di essere sommergibile per diventare una creatura viva e furibonda, vero e proprio leviatano, come la balena bianca del mito.

Sarà poi affondato il piroscafo o sarà riuscito a tenere? In fin dei conti questo ha poca importanza, per lo meno non ne ha poi tanta. L’importante, umanamente parlando, è quel muso di ferro scarnificato e contorto, quel tagliamare divelto. Adesso naturalmente l’aggiusteranno, lo rifaranno nuovo. E poi il battello ripartirà per altri mari di guerra. Peccato non poterla conservare, quella prora mozza, alla guisa di trofeo, informe maschera di metallo e di ruggine; nelle cui ferite mostruose si leggerebbero facilmente molte magnanime cose.

“Corriere della Sera”, 2 agosto 1941