L’ombra dell’ammiraglio

10 SETTEMBRE 1940

A me giornalista, qui accolto per il breve periodo di una missione – la “mia” nave non essendo partita – è stato offerto, massima cortesia, il letto dell’ammiraglio. L’ammiraglio non c’è, a bordo, e i due alloggi a lui destinati erano vuoti. Uno è per la navigazione, minuscolo, ricavato alla base del torrione prodiero; l’altro, per i periodi di sosta, spazioso ed elegante, nella cosiddetta “tuga” poppiera, al livello della coperta. A me è stato dato il più bello.

Una camera e un bagno. Niente di babilonese davvero. Ma in confronto alle scaglie d’acciaio di cui è irta la nave, in confronto alla nudità guerriera di tutto il resto, l’impressione era quasi lussuosa. Il damasco verdolino sulle pareti, mobili e porte lucidi di impiallicciature e vernici, il tappeto per terra, i finestrini rettangolari invece che oblò, la poltrona e le tre poltroncine, il giaciglio a vera forma di letto (anche se piccolo), con elastico e materasso, la plafoniera con quattro lampadine, gli altri lumi sparsi qua e là parevano cose di un altro mondo, dopo le scabre architetture della restante nave, dove ogni piacevolezza è sacrificata all’austero dio della guerra. Come se, esaminando una locomotiva, scopriste, dietro uno sportellino annerito, uno scrigno foderato di raso con dentro filigrane preziose e fiori di vetro.

In realtà non c’era esagerazione di eleganza o di sfarzo. Niente più che il logico omaggio, di decoro e comodità, all’alto grado. Eppure a me, piuttosto sensibile al prestigio gerarchico, a me che da scolaro consideravo la matita del professore più bella e desiderabile di qualsiasi altra matita al mondo, che da soldato immaginavo l’ufficio del colonnello come un santuario proibito, dove si respirava aria squisita e rara, a me questo alloggio, già intravisto su altre navi grazie al palpito di qualche tendina, incuteva grande reverenza, col fascino delle cose inaccessibili. Ed io adesso potevo entrarvi a mio esclusivo piacimento, sdraiarmi sulla poltrona, fumare la pipa (anziché nobili Virginia), pulirmi le unghie, leggere romanzi gialli (anziché aridi trattati di cinematica e strategia navale); i miei porci comodi potevo fare – ecco la situazione, come se fosse casa mia, nell’alloggio dell’Eccellenza.

La nave percorreva fieramente il mare in burrasca, le onde diventando più cattive via via che si avvicinava la sera. Percorreva il Mediterraneo in tenuta di combattimento verso il posto dove era stato segnalato il nemico, e a bordo profonda era l’aspettazione degli animi; i mille e più uomini non pensavano che al proprio servizio, incuranti del sonno e di ogni materiale lusinga, ciascuno badava esclusivamente alla propria arma, al proprio strumento, al proprio macchinario, al proprio lavoro, soltanto io fra tutti non avevo niente da fare. Eppure avevo l’alloggio più bello e comodo del bastimento e la notte potevo dormirci come un papa, in pigiama, mentre tutti gli altri giacigli della nave, nessuno escluso, sarebbero rimasti deserti. Perché nelle notti di navigazione i marinai non possono stendere le brande, gli ufficiali dimenticano le cuccette, perfino il comandante, che pure ne avrebbe diritto, rinuncia a sdraiarsi e si concede al massimo un breve sonno, su in plancia, nella poltrona, vestito di tutto punto. Neppure l’ipotetico ammiraglio, se ci fosse, riposerebbe bene come me: in queste notti anch’egli si dovrebbe adattare e rifugiarsi nella cuccetta di navigazione, nel camerino minuscolo alla base del torrione prodiero. Neppure il signor ammiraglio e io sì, invece.

Perciò sentivo vergogna e mi raggelavano gli sguardi dei marinai, su di me fitti, mentre varcavo la porticina d’accesso. Erano sguardi di benevola curiosità, ora ne sono sicuro. Al momento però li interpretavo severamente, vi leggevo diffidenza e amari rimproveri. Che cosa penseranno? mi chiedevo, schiavo come sono ancora del rispetto umano. Nella migliore delle ipotesi – dicevo tra me – essi hanno un gran desiderio di sapere: chi sono io esattamente? a quale merito misterioso era dovuto tanto privilegio? Perché questa suprema distinzione? Ero un principe in incognito forse? No, no – assicurava un bene informato – è un giornalista, un corrispondente di guerra. Gli altri tacevano, guardandomi lentamente. E io passavo dinanzi, facendo grandissimi sforzi per simulare scioltezza e disinvoltura.

Poi discese la notte e le onde flagellavano con violenza la nave, spazzando prora e poppa, il vento mugolava contro gli spigoli, i marinai si accartocciavano nei cappotti, le vedette esploravano il buio, gli uomini del turno smontante giacevano assopiti per ogni dove, sui pavimenti di ferro, ai piedi delle torri, nell’affocato ponte di batteria così come sulla sommità della plancia. Io mi sentivo più che mai inutile; anche se avessi vegliato, rinunciando per pudore al sonno, sarebbe stato dopo tutto una posa vana.

Nella speranza di essere scorto dal minor numero di occhi possibile, mi avviai solitario, nel buio, all’alloggio ammiraglio. Purtroppo nel corridoio d’accesso incespicai in un groviglio di marinai addormentati per terra. Altro che passare inosservato. Si scostarono molto rispettosamente, quasi fossi sul serio un alto ufficiale e raggiunsi la stanza. Vi era un tepore intenso come di serra e le lampadine creavano, con la luce ridotta da combattimento, rosea penombra da alcova. Faceva tanto caldo che misi in moto il ventilatore: pensando a quelli di fuori, alle vedette, ai cannonieri di guardia, ai segnalatori che il vento intorpidiva di freddo.

Alla fine mi stesi sul letto. Mi vennero in mente – chissà perché – i commissari del popolo del 1917, voracemente sdraiati sui talami dei palazzi principeschi, sotto trionfali baldacchini araldici. Le macchine della nave rombavano, l’acqua nella bottiglia saliva lentamente da un lato, poi dall’altro, con moto alterno, l’acqua faceva l’altalena, in controgioco col rollio della nave. Ed io, mollemente disteso, trascorrevo così in posizione orizzontale, a una velocità di 22 miglia, sopra i cimiteri marini, dove le alberature dei vascelli defunti si intrecciano a scheletri di capodogli (e nell’intrico della fantomatica selva luccicano ancora qua e là, nelle tenebre, gli ori e i diamanti dei pirati).

A questo punto il sonno, con lieve oscillazione della tenda, entrò nella camera. Cerimonioso, scambiandomi per un giovanissimo comandante di divisione navale, cominciò a girarmi attorno in atteggiamento assai persuasivo. E io sentivo vergogna al pensiero dei marinai e del vento. Ma ero troppo stanco per tener duro.

Ed ecco – avrei detto che mi ero appena addormentato – un personaggio socchiuse la porta, spingendo dentro la testa (un’ombra, poco più di un’ombra). Guardò un attimo, fece un colpetto di tosse, con due passi fu di fianco al letto. Portava una palandrana scura, la spada – se ben ricordo – una lunga feluca in capo: un antico ammiraglio.

«Voi, che cosa fate qui?» mi domandò rudemente con voce roca e ingorgata di sdegno. «Ma, sa?, io sono…» tentai di spiegare, ma lui incalzava beffardo: «Voi dormite, eh? Nel mio letto dormite, vero? Il bel signorino!». Poi, assumendo un tono di ferro: «Vergogna, dovreste avere vergogna! Ah, e che cosa aspetta? Fuori di qui, marsch!, e a suo tempo verranno i conti!». Qualcosa di simile disse, le frasi precise non le ricordo. Dopo tutto era un’ombra, poco più di un’ombra. Io balbettavo, polverizzato, senza articolare parola, e in cuor mio riconoscendo che egli aveva abbastanza ragione.

Il suo braccio destro, vastamente gallonato, era teso ad indicarmi la porta. Mi vestii in un amen, sgusciai fino alla soglia, infilai il corridoio, mi trovai all’aperto e mi accorsi che l’alba era prossima. Vidi, qua e là, figure di marinai imbacuccati, immobili come sfingi, nonostante la nave facesse un ballo d’inferno. Passai loro dinanzi cercando di farmi piccolo; dov’è la mia bella disinvoltura? Ma essi non mi guardarono più, essi ora fissavano intensamente la solitudine procellosa del mare, cercando il nemico.

(Inedito)

10 settembre 1940