Una crudele serata

Ho l’impressione ch’egli seppe di dover partire soltanto ieri, durante il pranzo, mentre si disponeva a una serata piacevole e senza pensieri. A un certo punto, dal ballatoio che contorna a una certa altezza la sala del ristorante un amico lo salutò. Ora che ci ripenso, era un saluto speciale, diverso alquanto dai soliti, accompagnato da un curioso gesto, quasi contenesse un sottinteso. Forse un segnale convenuto. In quanto a lui, rispose con un piccolo cenno amichevole che allora mi parve naturalissimo, adesso invece, nel ricordo, si riempie di complessi significati. Ciò avveniva verso le otto e mezzo di ieri sera nella sala centrale del ristorante dove eravamo, abbastanza fastosamente illuminata.

Nell’affollato ritrovo, suonando altresì l’orchestrina, sembrava da principio assente, grazie a una speciale disposizione dell’ora e degli uomini, il pensiero di questi tempi, che ci insegue per lo più dovunque. Tuttavia non c’è dubbio: come l’amico, dalla balaustra del ballatoio, gli ebbe rivolto quel saluto, egli seppe che stamane sarebbe dovuto partire. Evidentemente non se l’aspettava così presto. E poteva essere quella la notizia più grave da lui mai ricevuta: la vita sua stessa poteva restarne mutata, e in che modo irreparabile. Mai – stamane l’ho saputo – gli era stata commessa un’impresa simile, dove le probabilità di tornare non sono maggiori delle altre. E lui lo sapeva, non è che si facesse illusioni, due mesi fa me ne aveva accennato molto vagamente, come a un progetto di altri, temerario. Dunque la notizia doveva essersi fatta strada in lui fin nelle vene più riposte, come una fiamma. Eppure nessuno di noi, presenti, se ne accorse. Egli non mutò volto, né tralasciò di mangiare, né dimostrava impazienza, né ebbe sospensioni di parole, né si distrasse in alcuna maniera. Ho in mente con esattezza la scena. Si parlava, per caso, di inverno e di nebbie. «A me è capitata bella, una volta…» egli raccontava. «… Arrivato a Vienna di sera c’era una nebbia d’inferno e mi avevano detto che l’albergo era a due passi dalla stazione e invece cammina cammina c’è voluto almeno un quarto d’ora di taxi, non mi ricordo più quanti scellini mi è costato. Poi al mattino dopo… (e qui comparve sul ballatoio l’amico e si ebbe quello scambio di saluti)… bene, quando è stato il mattino dopo la nebbia se n’era andata e dalla finestra dell’albergo ho visto proprio di fronte la stazione, sarà stata a un 200 metri, quel ladro di autista…»

Una storiella da poco, siamo d’accordo, e vecchia per giunta. Lui non è un’aquila, del resto, in fatto di spirito, tutti i suoi amici lo sanno. Eppure a mezzo della stupida storiella egli aveva saputo di dover partire stamane, con tutte le conseguenze immaginabili, buio varco che si apriva improvvisamente sul cammino della vita. Egli aveva appreso tale notizia e anziché impallidire era andato avanti a raccontare, non si era smarrito, con eleganza superiore aveva dominato la nausea che, al paragone del pensiero incombente, doveva suscitargli così piatta conversazione. Poiché al suo fianco cominciavano ad affollarsi, invisibili, i grandi fantasmi della guerra, parlando di cose fatali, e nello stesso tempo il cameriere gli chiedeva se volesse formaggio, se preferisse vino bianco o rosso e miserie del genere. Eppure egli rideva, vi assicuro, al termine della sua mediocre storiella, rideva come un ragazzo in spensierato abbandono (con quel segreto nel cuore!).

Infatti egli sapeva di dover partire entro poche ore ma non poteva rivelarlo ad alcuno. Anima viva non doveva sapere. Un segreto di peso inestimabile era connesso alla sua partenza. Parecchi milioni avrebbe pagato il nemico per averlo. Cosicché noi, sedendo con lui al ristorante, si ignorava che fra poche ore ci avrebbe lasciato, inabissandosi in dubbiosissimo mare, senza avere troppa fiducia di ritorno. Anzi, in un certo senso, dall’attimo che lo aveva saputo, egli si era già staccato da noi, era già parecchio lontano e con noi era rimasto, a tenerci compagnia, soltanto un involucro di carne che parlava, gestiva e si comportava proprio a somiglianza di lui (ormai disperso nelle lontananze misteriose della guerra).

Adesso che anche io so, posso valutare la grandezza di quella pena. Oh, come egli avrebbe preferito di essere veramente solo, sconosciuto e ramingo per le vie della città piovigginosa. Tra le luci e la gente del ristorante, la costrizione al segreto lo rendeva infatti anche più abbandonato e solitario che se fosse stato nel cuore delle montagne. Ma la cosa più crudele era un’altra: al ristorante c’era, con lui, la moglie, quella mite e fragile creatura. Chissà perché, ieri sera sembrava diversa dal solito, più vivace e pungente. Appena egli ebbe finito la storia della nebbia viennese, lei disse, forse un poco eccitata dal vino: «Ma lo sai, caro, che l’avrai già raccontata un centinaio di volte?». Forse proprio a motivo del vino, come non l’avevo mai vista fare, si divertiva a stuzzicare lui, a prenderlo in giro, in modo da renderlo un pochino ridicolo.

Egli sorrise con quella apparente ottusità aristocratica (accentuata forse dalle spalle leggermente ricurve) e rispose: «Ma a loro» e accennava agli altri commensali «ma a loro non l’avevo mai raccontata!». Come se ciò lo potesse scusare.

Poveretta, lei così dolce d’animo, con il bene che gli vuole. Un estro maligno le andò suggerendo via via diverse altre piccole cattiverie ai danni di lui, affinché poi ella ne avesse molto a soffrire. Se avesse saputo! Ognuna di quelle parole gettate là per una specie di bizza fanciullesca, oggi le si convertirà in veleno. In questo istante ella le rammenterà a una a una, amaramente piangendo di averle proferite. Mi par di vederla, pallida, immobile come una statua dietro i vetri, gli sguardi tesi al mare deserto. Con me, altre due persone sedevano al tavolo, marito e moglie, giovani, e con le loro risate la incoraggiavano a proseguire.

Molte piccole particolarità della serata, al momento insignificanti, mi si rivelano al ricordo con risonanze dolorose. Quasi per impedirle di insistere su quel tono, non per orgoglio ma per pietà verso lei, egli intanto parlava e parlava, enunciando corrette banalità sui vari argomenti. E c’era probabilmente anche il desiderio di vincere la troppa solitudine, a lui imposta dal segreto. Parlava e parlava; fino a che lei – poveretta – lo interruppe, quasi sgarbata, dicendogli che era un gran chiacchierone e che la smettesse. Perché è scritto che bisogna far del male anche alle persone più amate.

Insistette anzi lei a prenderlo in giro sul tema della eccessiva loquacità, meravigliandosi perfino che “con la sua chiacchiera non gli fossero mai capitate delle grane”. «Con me per esempio» soggiunse, e ci guardava con ingenua soddisfazione coniugale «non è mica capace di tenere un segreto. Anche se non parla, glielo leggo subito in faccia. È così apprensivo. Basta una cattiva notizia, una piccola preoccupazione a farlo cambiare. Quando parte in missione, per esempio, figuratevi se non lo capisco. Non glielo vado a dire, naturalmente, ma lo so almeno dodici ore prima, dalla sua faccia!» E iersera appunto era lieta perché il volto del marito era sgombero e di conseguenza non c’era pericolo in vista, e loro due sarebbero potuti stare insieme in santa pace e giornate di serenità intima li aspettavano. Generosa dunque, una volta tanto la guerra!

Egli non contraddisse, bensì la guardava con comprensione amorevole, quasi fosse bambina in vena di capricci, ed ora capisco che ne aveva una grande pietà. Quanto egli avrebbe dato perché lei tacesse. Che amaro scherzo. Quanto più ella si divertiva alle sue spalle, quanto più lo prendeva in giro (ma che bisogno mai, proprio iersera, lei di solito così dolce e affettuosa?), di altrettanto cresceva il peso dell’angoscia da scontare. Certo egli già vedeva sorgere per lei lunghe ore di rimorso, ore e giorni di pena, giorni e settimane forse, settimane e mesi, e più ancora, fino al termine della vita, se la fortuna gli fosse stata contraria. Ma, inconsapevole, ella continuava ad aggravare l’avverso incantesimo, da cui sarebbe stata suppliziata. Ahimè, proprio questa volta ch’egli partiva per un viaggio peggiore del solito, non gli aveva letto nulla sul volto, neanche un’ombra minuscola. Ed era sicura, meravigliosamente certa di non vederlo partire, né oggi, né domani, né per un buon tratto ancora.

Il crudele trattenimento durò fin oltre le dieci; quando l’orchestrina tacque, noi uscimmo all’aperto e per la prima volta nella sera in noi rinacque il molesto pensiero al quale sopra è stato accennato. Ma poco dopo ci si salutava e loro due si persero, verso casa, nella strada rigorosamente buia. Ora io lo conosco abbastanza e gli voglio abbastanza bene per poter dire come si è comportato. So che per l’intera notte egli non ha fatto a lei (quella mite creatura) il minimo cenno a una vicina possibilità di partenza; che l’ha lasciata nella illusione e crudelmente avrà perfino combinato di trovarsi oggi alle cinque e un quarto in piazza del Municipio; perché questo ignobile inganno costituiva il suo dovere. So che stamane prima dell’alba, senza svegliarla, egli sarà scivolato fuori del letto e poi della camera, e poi della casa. So inoltre che fra poco – sono quasi le otto del mattino – lei, ancora grondante di sonno, allungherà nel buio una mano per cercarlo accanto a sé, dormiente, e troverà le coperte vuote, già fredde, il posto deserto. So che il suo piccolo volto si farà pallido leggendo il breve saluto da lui lasciato su un biglietto; e che dal fondo dell’anima allora gli stupidi discorsi di ieri sera risorgeranno, le risate, le parole una per una, adesso non più innocenti ma simili a sacrilegi. Oh, lui non era capace di tenere un segreto, vero? E non poterlo chiamare indietro neppure per un istante, per dirgli che lei aveva fatto apposta, che aveva semplicemente scherzato, sciocche parole sfuggite nella frivola eccitazione dell’ora. E invece soltanto il silenzio tetro della casa, e se suona il campanello della porta è inutile correre a vedere, è soltanto quella odiosa finestra aperta sul mare; il quale è una immensa ed esecrabile distesa di acque deserte.

“Corriere della Sera”, 8 gennaio 1943