Fine del sommergibile nemico
DA UNA BASE NAVALE, 2 OTTOBRE
La torpediniera che ha affondato un sommergibile inglese è appena ritornata alla base ma già a poppa è stata tesa la tenda, i marinai rassettano la coperta, il comandante seduto all’ombra sta dettando il rapporto della missione. E intorno a lui sono gli ufficiali i quali tutti hanno visto la fine del sommergibile nemico, uno dei quattro recentemente giubilati. Il comandante ci dice: «Ecco qui. Vi posso fare leggere il rapporto ma c’è poco da dire».
Non ci vuole molto infatti per raccontare uno di questi duelli fra la superficie e l’abisso. Sono strani combattimenti che durano pochi minuti e gli avversari non si possono vedere; se si vedono vuol dire che uno dei due è condannato a morte. Battaglie quasi mute prive di epici suoni; perché i colpi attraversano non il libero cielo con le voci fiammeggianti delle bordate, bensì la cieca profondità del mare donde emerge soltanto qualche tenebroso fuoco.
E il pathos della guerra non nasce da prospettive fumose di scafi coronati da vampe e lanciati in piena corsa attraverso i bianchi colonnati delle salve in arrivo; al contrario è un pathos sordo e informe, la presenza della morte nascondendosi sotto un innocente sipario di acqua. E nulla si scorge di insolito, e se qualche cosa compare sui flutti vuol dire che la tragedia è compiuta.
Nella striscia di mare a lei assegnata, la torpediniera andava rastrellando su e giù mentre i ricognitori aerei trapanavano con gli sguardi a perpendicolo le acque limpide e placidissime. Il sole del pomeriggio risplendeva la sua vecchia e simpatica sagoma cara ai marinai; sagoma di un tre pipe che tutti sanno ormai che cosa significhi. Le venerabili siluranti dai tre lunghi fumaioli che in maggioranza parteciparono all’altra guerra si sono coperte combattendo con gli inglesi di straordinaria gloria.
Con la loro già storica uniforme, che è anacronista forse ma non priva di nobiltà e di eleganza, esse corrono su e giù per il Mediterraneo infaticabili come giovinette, gareggiando in bravura con la nuova generazione, con le brillanti nipoti, assai più veloci, snelle e potenti e nei porti, dove serpeggiano le gigantesche perfette marine irte di cannoni, le tre pipe spesso solitarie entrano con modestia, quasi inavvertite, si ormeggiano a una banchina secondaria; non si fa in tempo a voltare la testa che sono già ripartite. Poi ogni tanto uno dei loro nomi serpeggia tra gli equipaggi delle regie navi col suggello della vittoria.
In quanto alla nostra torpediniera, essa stava battendo la striscia di mare a lei assegnata così da lasciare ben poco spazio a disposizione di un eventuale nemico. Dalla tramoggia di poppa regolate a opportuna profondità piombavano in mare le bombe di getto; una semina perfetta che non aveva già la pretesa di vedere germogliare ogni seme; di solito il prodotto era sterile, sulla superficie a ciascun lancio faceva seguito poco dopo un ampio rigurgito ora in forma di fontana ora di liscia cupola fatta di schiuma e di acqua, un piccolo maremoto che presto si spegneva nel nulla. Era lecito sperare che a un certo punto uno dei semi generasse e che finalmente spuntasse fuori non già vuota spuma, ma il muso del nemico trafitto Non solo bombe; la torpediniera si tirava dietro, assicurata a un lungo sottile cavo metallico, una torpedine a rimorchio.
Ed ecco il cavo di questa torpediniera allentarsi di colpo. Qui comincia il duello. Il cavo è stato stroncato. Tirato a bordo il moncone, si constata che deve avere urtato contro qualcosa; le fibre metalliche, al punto di rottura, ricordano certe tragiche corde di sciagure alpinistiche. E contro che cosa può avere urtato il cavo, se il fondale è di oltre 1.000 metri? Un pesce non sarebbe bastato a troncarlo per quanto corpulento e massiccio. Non può trattarsi che del sommergibile.
Tutto ora dipende dalla rapidità e dalla precisione con cui a bordo avverrà la trasmissione e l’esecuzione degli ordini, dalla precisione del comandante nel calcolare la distanza e il tempo, dalla sua presenza di spirito. La torpediniera reagisce, fa dietro front, dirige al punto in cui il cavo si è rotto. E intanto si regolano le bombe da getto: si può stimare dalla lunghezza del cavo superstite che il nemico navighi a 40-50 metri di profondità. «Fuori uno, fuori due, fuori tre, fuori quattro…» ordina il comandante in plancia telefonando al tenente che sta a poppa estrema. Tutti sono al posto di combattimento; pronti a qualsiasi sorpresa. Sono attimi eterni. I marinai in silenzio pregano: «Buon Dio, fa’ che incocciamo il sommergibile, fa’ che vinca la nostra nave». «Fuori cinque, fuori sei!» Gli occhi scrutano con ansia la scia, solco della seminagione.
Ecco lo schianto tetro della prima bomba, pare che venga da un sotterraneo remoto; ecco il suo rigurgito sommitale tutto di schiuma bianca. Poi la seconda, poi la terza. Al quarto colpo dalla superficie non esce più limpida acqua marina, bensì un fiotto nerastro, fiotto di nafta. Pochi istanti, e a 600 metri da poppa emerge un tragico simulacro: la sagoma fosca di un sommergibile, la torretta inclinata di almeno 30 gradi. Non fa paura ormai. In apparenza il bestione è intatto, ma l’improvvisa emersione, l’accentuato sbandamento significano assai più che il pallore cinereo nel volto di un appestato.
Viene su in mezzo a un frenetico ribollio, assomigliando a un bestione in furore. Non c’è dubbio: il battello è stato colpito e ora cerca una disperata salvezza; cerca di sfuggire l’abisso che lo aspira, vorrebbe volare, se potesse togliersi da quella cupa cisterna. Il comandante inglese ha dato l’ordine dei momenti gravi: «Aria per tutto». L’aria si è allora gettata in ogni parte del sommergibile furiosamente, ha estromesso l’acqua dei doppi fondi delle casse di compenso e l’acqua zampilla all’esterno liberando momentaneamente il petto del mostro. Il comandante della torpediniera dice: «Gettava fuori acqua da tutte le parti, pareva la fontana di Trevi».
Quale dramma ora si compie nella cavità dello scafo? Esso resta a galla pochi secondi. La torpediniera non fa neanche in tempo a brandeggiare i cannoni, non fa in tempo, come tenta, a speronarlo, il nemico ridiscende nel buio. Bolle palpitano ancora in superficie là dove esso è emerso. La torpediniera ci passa sopra, getta altre sei bombe, spunterà ancora qualcosa, salirà dal fondo una definitiva documentazione di morte? Infatti il bastimento riappare, questa volta non più orizzontale ma spaventosamente diritto con la prora verso lo zenit, simile a viscida torre. Un estremo sforzo di vita lo inchioda per l’ultimo saluto al cielo e alla luce. Poi si rinfodera nel gorgo, qualche forza potente lo inghiotte finché non resta che un tremolio di risucchio che adagio si estingue.
Un’ultima dose di bombe per eccesso di scrupolo, ma è inutile, guardando sottobordo i marinai vedono una specie di ombra nera e difforme sempre più vaga, e intanto sgorga funerea la fontana della nafta, il sangue del mostro sale a fiotti dal sepolcro, si spande con fantasiose iridescenze. Compaiono inoltre briciole della rovina, tracce di olio bruciato, pezzetti di legno, strane forme metalliche che subito si inabissano. Quanto tempo durerà ancora la discesa della bara di acciaio? Il mare ormai non ha fretta e di sopra l’acqua è tranquilla, caldo il sole d’agosto, limpidissimo il cielo, la navicella vittoriosa si allontana verso la base a portare la notizia.
“Corriere della Sera”, 2 ottobre 1941