La mamma
del sommergibilista
Dopo che fu partito in missione gli venne in mente che da tre giorni non aveva scritto alla mamma. Nell’ultima lettera le aveva detto di aver preso imbarco su di un sommergibile e niente altro. Non l’aveva preparata in alcun modo (si potevano inventare tanti pretesti) a un suo silenzio prolungato. E lei era una donna molto semplice, certo non conosceva i segreti della guerra sottomarina. Ma come avrebbe potuto stare dieci, quindici, venti giorni e forse più senza notizie del figlio?
Due giorni dopo la partenza, da certi discorsi fatti dagli ufficiali, capì che sarebbero stati fuori almeno due settimane, questo come previsione minima. Sette giorni dopo pensava continuamente alla propria casa, non per debolezza d’animo, ma per immaginare che cosa facesse la mamma; gli pareva di vederla andar su e giù per le stanze, inquieta, trasalire ogni volta che qualcuno batteva alla porta. Dopo dieci giorni questo pensiero era diventato penoso (e il battello già incrociava in acque molto lontane, dove la morte stava in perenne agguato). Il decimo giorno, a forza di pensarci su, si ricordò che da ragazzo, recatosi a lavorare qualche tempo in un paese vicino, andava a trovare la mamma quasi ogni notte, in sogno. Ci si provò ancora, nei brevi turni di riposo, addormentato sotto i quattro lucenti fondi-mobili dei tubi di lancio, ma aveva perduto l’allenamento. Tutt’al più intravedeva il tetto della casa, non riusciva neppure a toccare la soglia.
Ci vollero altri sei giorni. Ed ecco una notte lei se lo vide d’improvviso comparire dinanzi (naturalmente in sogno). Com’era spaventata, povera donna, e come stanca di aspettare.
Lo guardò con occhi che avevano pianto per lunghe notti, ma che ora risplendettero per un istante di gioia. Gli disse: «Figlio mio, finalmente!». Risplendettero per un istante di gioia, poi un’ombra triste calò di nuovo a coprirli. Perché – anche nel sogno – Martino non appariva fresco, fiorente, bello, pulito, così come il giorno che era partito da casa; ma risultava quale era in realtà, marinaio di un sommergibile in guerra, navigante da quindici giorni in mari nemici; forte sì e fiducioso, ma un poco stanco, la pelle unta, pallido di clausura, parecchio consumato all’interno dall’ardua prova.
Gli sfiorò con le mani il volto, gli domandò: «Martino, come mai?» e pareva improvvisamente aver capito – lei semplice donna che di guerra nulla conosceva – che cosa significasse sfidare giorno e notte la morte chiusi in quel budello d’acciaio, privi d’aria e di sole, poveri di sonno, separati dal restante mondo nella più dura solitudine. E, ricordando le ansie degli ultimi giorni, forse pensò che sarebbero state molto più tormentose se avesse saputo la verità.
Ma lui rispondeva: «Eh, sì, ho deciso di lasciarmi crescere la barba. È di moda sui sommergibili, sai? Non ti piace?».
«No, no, ti sta bene. Sembri più uomo, ecco questo solo volevo dire.» Ma erano di moda sui sommergibili anche quella faccia pallida, quegli occhi arrossati? Lei non diceva più nulla, si accontentava di guardarlo, non aveva più coraggio di chiedere, per non angustiarlo. Lui allora disse: «Ho avuto un po’ di influenza la settimana passata, per questo sono diventato un po’ pallido. Ma sto già rimettendomi. Qui si sta molto bene».
«Si sta bene, dici?» «Oh, sì» disse il figlio. «Ciascuno di noi ha un bel lettino e tutta notte si dorme. Al mattino poi, si esce in coperta a prendere il sole… mi par d’essere quasi in vacanza. Ma perché mi guardi così? Non mi credi?»
«Certo che ti credo» rispose la mamma. «Non puoi immaginare quanto sia contenta (come tremava però la cara voce). Ma dimmi: non correte pericoli? Non ci sono burrasche? e gli inglesi? Non andrete troppo lontani, spero. Io ti conosco, Martino; se non corri qualche rischio tu non sei contento.»
Martino si sforzò di ridere, senza riuscirci gran che, a dir la verità, perché qualcosa gli chiudeva la gola. «Macché pericoli. Quaggiù il mare è sempre tranquillo. E non si incontra mai anima viva. Gli inglesi stanno da tutt’altra parte… ma aspetta un momento, mamma, ho l’impressione che qualcuno mi chiami…» Di colpo disparve, abbandonò il sogno, si risvegliò sotto i fondi-mobili dei tubi di lancio. C’era un allarme.
Per due ore “nel sogno” la mamma lo aspettò di ritorno. E infatti alla fine lui ricomparve, ancora un pochino più pallido, sembrava, la barba un poco più lunga. «Dove sei stato, Martino? Era successo qualcosa?» «Oh, no,» disse lui «mi chiamavano per fare una partita a scopa. Si divertono così i miei compagni, per ammazzare le sere…» Una partita a scopa, che bugie, e adesso il battello procedeva nella notte fonda, adagio adagio, aspettando le ombre di navi nemiche. «Martino…» insisteva la mamma «tu sei inquieto, c’è qualcosa che mi nascondi… che cosa sono adesso questi colpi lontani? arrivano fino a qui. Non li senti anche tu, Martino?» Lui fece atto di ascoltare. «Non sento niente io, non sento proprio niente. Stanotte il mare è così tranquillo. Anche il comandante è andato a dormire. Ma tu non mi credi, mamma.»
«Sì, ti credo» rispose la donna facendosi forte. «E adesso tornerete in porto?» (due angeli stavano ad ascoltare, perché in tempo di guerra c’è anche la censura dei sogni. «Interrompiamo?» propose uno, più sospettoso. «Lascia, lascia» ribatté l’altro, che conosceva meglio Martino). Martino infatti rispose: «Non lo sappiamo, questo non te lo so dire… ma ti devo salutare, adesso, arrivederci, mamma, mi chiamano ancora… deve essere per la scopa…».
Si separarono così, di colpo. Lui si risvegliò ancora sotto i fondi-mobili dei tubi di lancio, udì la rauca voce dell’interfonico: «Tubi tre e quattro, pronti per il lancio!» (cominciava il combattimento). Anche lei si destò, e nella camera buia si guardava attorno con grande inquietudine. Poi le parve di udire ancora la voce di lui: «Sta’ tranquilla, mamma… macché pericoli… tutta notte si dorme… gli inglesi stanno da tutt’altra parte…». Oh, non ci credeva davvero. Aveva capito tutto, lei. Ma i suoi occhi non lagrimavano più, guai se lui lo avesse saputo. Per amore del figlio, abbassò di nuovo le palpebre, facendo finta di dormire.
“Corriere d’Informazione”, 3 marzo 1941