Convoglio Silrmn

Raccontare a due giorni di distanza tutto quello che ricordo. La sera prima della partenza, in quadrato, mentre si giocava a pinnacolo (e poco dopo ci sarebbe stato l’allarme aereo), udimmo un gemito lungo, a intermittenza. Chi è che si lamenta? domandò il comandante in seconda. Io dissi: deve essere un gatto. Chissà che cos’è, disse un altro. Qualcuno fece: La nave si lamenta, è un brutto segno. Vidi il comandante Ronselle tornare dal “Gorizia” dove c’era stato rapporto dei comandanti. Non sembrava di buon umore. Poco dopo, uscito di camerino, incontrai Arena, che mi disse che era un convoglio come l’altra volta, di sei navi, due delle quali si sarebbero unite a noi sotto lo stretto. Oltre al “Gorizia”, al “Trieste”, al “Trento”, sarebbero venuti l’“Abruzzi” e il “Garibaldi”. Sull’“Aviere” poi mi avevano detto che da Malta nei giorni scorsi era uscito un incrociatore da solo, ciò che lasciava supporre che l’altro, colpito dai nostri aerosiluranti il mattino del 9, fosse in avaria. La mensa fu alle sei. Poco dopo si partiva. Ora è inutile che ricordi i discorsi col maggiore commissario Padalino, la visita fatta nella segreteria di macchina al maggiore Lambiase; venne anche il comandante in seconda e si parlò della nostra guerra. Dopo un po’ io andai a prendere (mi sembra) il paltò e il primo volume di Leopardi e lo portai nella segreteria amministrativa, dove in precedenza avevo portato la sedia a sdraio. Venuto anche Padalino a sistemare le luci, ci sdraiammo, convinti che almeno fino all’alba non ci sarebbero state sorprese. Il brutto veniva all’indomani e specialmente la notte successiva, quando ci saremmo trovati nel mezzo del Mediterraneo. Noi avremmo dovuto scortare i piroscafi, salvo imprevisti, fino alle ore 13 del 23. Dunque mentre scrivo la nostra divisione sarebbe dovuta essere qui di ritorno. Ma è successo come l’altra volta. La luce era troppo debole, e la posizione sulla sedia a sdraio troppo incomoda per poter leggere a lungo. Leggiucchiati qua e là i Detti di Filippo Ottonieri, mi disposi a dormire. E già stavo entrando nel sonno quando di fuori udimmo voci concitate.

Qualcuno diceva: allarme! Poi uno aprì la porta per avvertirci. Possibile? appena fuori Messina? Ci vestimmo con velocità straordinaria. Pronto? mi disse Padalino. Non ancora, risposi. Lui mi precedette in plancia.

Un bengala si era acceso in cielo. Gli inglesi dunque sapevano di noi. Il “Gorizia” e altre navi spararono un poco contro un aereo che si vedeva benissimo per via del suo luminìo. Noi non sparammo. Vidi a questo punto il brogliaccio. Non cominciava bene la missione. Non solo Malta sapeva che eravamo usati ma aveva tutte le buone intenzioni di perseguitarci. Ci mettemmo in sala nautica, rinunciando alle sedie a sdraio. Eravamo seduti sul sofà, io, verso la parete, Padalino, Cappello, se non mi sbaglio. Credo che mi ero addormentato.

Lo schianto prodotto dal siluro rimarrà per sempre – credo e spero – confitto nella mia mente, con la sua voce che inutilmente io cerco di definire. Fu come un triplice orrendo scuotimento verticale; e mentre si spegneva la luce intravidi tutto quanto a me attorno selvaggiamente sballottato, il tavolino, gli elmetti, le porte. Il pensiero dell’esplosione mi insegue anche adesso con un suo significato doloroso; c’è un senso di pietà per la nave, l’orgogliosa e bellissima nave, improvvisamente stroncata da una forza spaventosa; e in fondo a questa sensazione c’è l’immagine del comandante. Era di là, in plancia, e pareva ingiusto che questo toccasse a lui.

Il colpo fu di un’incredibile brutalità, contraddistinto dall’elasticità del movimento, come se la plancia fosse stata sospesa a un sistema di molle. E difficile pure esprimere il significato latente, per così dire, dello schianto; il quale era misterioso e paurosissimo, nello stesso tempo aveva una grande eloquenza. Diceva: una faccenda così non vi è mai capitata. Voi avete letto molte storie di catastrofi, come fossero assurde leggende. Quello che pensate fosse una sinistra teoria, toccasse soltanto agli altri, vi avrebbe sempre risparmiato, ora è successo a voi. Come in altre ore forti della vita bisognava fare un salto terribile: dalla tranquilla uniformità della vita comune a un piano altissimo e agghiacciante, il piano delle tragedie e delle avventure romanzesche, che si riteneva riservato per legge agli altri. Tutto questo si pensò in un attimo, mentre si balzava in piedi e ci si affacciava alla porta, ancora tutta pervasa da tremiti. Ancora una cosa: questa voce funesta, che nessuno aveva mai udito, fu ugualmente da tutti subito riconosciuta. Quasi che nel fondo dell’animo ci fossimo ingegnati a immaginare simile esplosione; e tale immagine corrispondesse al vero. La sua violenza e ciò che vedemmo appena usciti sull’ala di plancia indussero a pensare una fulminea catastrofe. Fumo, vidi, e anche indistinte di uomini, e una vampa rossastra verticale, che salì dai piedi del fumaiolo.

Pensai al deposito munizioni, all’incendio, a restare asfissiati. Rientrai nella sala nautica. Padalino diceva «Perdio non c’è una luce qui?». Raccolsi il berretto. Cercai al buio la mia maschera antigas; ero convinto che ce ne sarebbe stato bisogno. Ne afferrai una, poi mi accorsi che era una di quelle grandi, forse del comandante. Ero già fuori, sull’ala di plancia. Un’agitazione fantomatica di ombre sullo sfondo lattiginoso della notte. Pensai: ma è vergognoso tenere questa maschera che non è mia. Dall’altra parte la teneva la mano di un altro, non so chi. «Di chi è questa?» domandai stupidamente. Poi la gettai dentro nella sala nautica. Tutto ciò in pochi secondi.

Dopo l’urto infernale si fece una strana quiete e silenzio; nel quale cominciarono a emergere le voci umane. «Fermare le macchine!» gridava il comandante. Guardai la sagoma dell’albero di poppa. Non era inclinato. Tutti aspettavano il primo movimento della nave verso la tomba. In che punto esattamente mi trovavo? Non ricordo. Mi pare che il comandante fosse salito sulla predella dell’ala di plancia. Gridò «Tutti al loro posto di combattimento! Tenere chiuse le porte stagne».

Poco dopo, dall’ala di plancia di sinistra, nel silenzio spaventoso, si udì il ronzio di un aereo.

Un luminìo, che pareva altissimo, simile alle stelle, passò sopra di noi velocissimo. Ci hanno visto, pensai. Anche di altre navi che erano a noi vicine. E il “Gorizia”! sentii dire. Poi dal basso giunse, sopra il brusio degli uomini che stava placandosi, una voce agghiacciante: «Basso! basso!» invocava con estrema disperazione. «Uno scenda a vedere cos’è successo!» disse il comandante. Scesi, in mezzo all’andirivieni di uomini (la nave consumava l’ultimo abbrivo) giunsi al boccaporto del centro. Sotto c’era buio, soltanto qualche lampadina azzurra a mano. Cercai il maggiore Lambiase direttore di macchina. E andato a poppa, mi disse uno. Io dissi: Il comandante vuole notizie! Un sottufficiale mi condusse verso una porta stagna, chiusa. C’è tutta acqua di là. E dov’è che il siluro ha colpito? Le due caldaie! E le paratie tengono? Finora tengono. È arrivato da che parte? Da dritta è arrivato, qui sotto. (Invece era arrivato da sinistra.)

Corsi su a dirlo al comandante che stava in piedi sulla predella. Ora si udiva un’altra voce disperata, più fioca, che veniva dal fondo: «Aprite, basta che levate la griglia». E i colpi di qualcuno che batteva su una lamiera. «Aprite questo! aprite questo.» Erano fuochisti che si erano arrampicati sotto la griglia, non ancora soffocati dall’acqua. Il fratello di uno di essi chiamava «Basso! basso». Poi uno gli disse: «Sii uomo». E lui tacque.

Si era fermi, il “Gorizia” se n’era andato. Un caccia (il “Perseo”) poi un altro (il “Corazziere”), poi una terza silurante (il “Carabiniere”) stavano da presso. Si chiese al “Corazziere” di girare intorno a scopo di sorveglianza. Il “Corazziere” cominciò a girare. Poco prima aveva chiesto la nostra velocità. «Siamo fermi» fu risposto «tra poco rimetteremo a lento moto.» Ma era possibile? Con un binocolo e un gesso l’ufficiale di rotta Cappellini intanto controllava l’assetto. Tengono le paratie? Discesi ancora a chiedere in ponte di batteria. Mi dissero di sì. Alcune stavano puntellandole. Fuori c’era una quiete immensa. Liscio il mare, come in attesa che succedesse qualcosa. Le grida lamentose si erano taciute. In plancia arrivavano notizie via via più tranquillizzanti. La luce era ritornata. Si lavorava per mettere in pressione le macchine di poppa. Ma si era ancora fermi. Gli aerei probabilmente ci avevano visto. Probabilmente i due incrociatori di Malta erano in giro. Se ci avessero pescato, non avremmo neanche potuto sparare.

Con uno sforzo cercai di preparare l’animo anche a questa eventualità. Ci saremmo dovuti lasciare smantellare pezzo a pezzo prima di abbandonare la nave. Padalino intanto continuava a curare il brogliaccio con notevole serenità d’animo. Il comandante fremeva di poter mettere in moto. Adesso sul mare, dietro a noi (la nave aveva la prora a ovest) ricominciavano a sparare. In attesa di un bagno in mare io avevo preso due pastiglie di simpamina. La prima disposizione dell’animo si era nel frattempo mutata.

Subito dopo il siluro avevo pensato: ecco ora mi tocca ciò che pensavo inverosimile, la dura prova del destino da cui mi ritenevo, chissà perché, escluso, quasi fossi un beniamino della sorte; ora mi tocca probabilmente morire. (E pregavo Dio che mi togliesse la paura. Ma quanto diverso era dalle sere tranquille in cui, leggendo Sant’Agostino e Pascal, mi illudevo di essermi fortificato. Mi ero allenato a saltare un muricciolo e presumevo di scavalcare una tetra barriera di smisurata altezza, che si perdeva nel cielo! Tuttavia ero forse più pronto di quanto non fossi stato durante il combattimento notturno.) Poi, non inclinandosi la nave, ritornando la luce, passando il tempo senza nuovi attacchi nemici, nacquero le speranze che prima si erano lasciate. Non una speranza lieve, bensì fortissima e violenta.

Ciò che era peggio per la pretesa che essa implicava e che noi si vedeva gravemente in pericolo. Prima però che immaginassi giunse la notizia che le macchine di poppa erano pronte.

«Avanti a lento moto», ordinò il comandante. E poi «Ferma!» perché comunicavano che due o tre imbarcazioni erano a mare; e bisognava legarle. Anche questa. Il comandante fu anche qui fermo e sicuro. Finalmente le barche furono legate e le acque di fianco alla plancia cominciarono lievemente a incresparsi, a formare tante piccole onde diagonali che si allontanavano. Voglio andare adagio, non val la pena di rischiare ora che siamo in moto, diceva il comandante.

Ben presto vedemmo che la nave faceva più di quanto si sperasse. Si era parlato di due miglia, dapprima, poi di tre, quattro. Ma ora le acque spartite dalla prora riuscivano addirittura a rompersi un poco, qua e là, con schiumette bianche. «Quante miglia sono, Cappello?» «Almeno cinque miglia, comandante.» Da Capo dell’Armi eravamo a circa tredici miglia. Cominciò così la lenta via del ritorno, tra un continuo nevrastenico andare e venire di segnalazioni e di ordini. L’immersione pareva aumentare, poi si fermò.

La nafta in centrale di tiro, centralino telefonico, camera ordini, accennava a salire. Scesi laggiù a chiedere notizie e nella batteria sozza di nafta, che formava qua e là nere pozze, c’era un brulicare di uomini, lampade, tubi, arnesi di ogni genere. Vidi, giù dal portello di una delle centrali protette, uomini seminudi immersi fino alla cinta nella nafta. E a catena buglioli pieni di nafta venivano spediti su in coperta dalla scala vicina.

«Il comandante vuol sapere se le paratie tengono.» Mi dissero di sì. Poi andai a cercare al complesso 6 notizie di un marinaio che dicevano proiettato in mare. Andai all’ultimo complesso di poppa a s. Mi dissero che era il complesso 2. Stavo per andare a prora a cercare il complesso 6, quando mi venne in mente di chiedere: C’è nessuno mancante? Sì, uno, un certo Castaldi, mi pare, sbalzato in mare dal colpo. Arena, direttore di tiro dalla lª DT, lo aveva udito chiamare, a circa 300 metri. Fu tratto in salvo dal Perseo.

Discesi ancora dalla plancia per cercare l’ordinanza di Padalino se avesse ancora caffè nel termos, per il comandante. Non ne aveva più e allora dissi a Ives di prepararlo. Fui ancora al complesso 2 per chiedere particolari sulla sparizione di Castaldi. Poi il comandante mi mandò a dire al comandante in seconda di preparare, per l’arrivo, una nota dei mancanti e di informarmi quanti fossero: venti fuochisti, mi disse, due o tre sottufficiali. Lui mi pregò di cercare la sua ordinanza. La trovai in riposto e la accompagnai alla scaletta (che si apriva, a s. nel corridoio trasversale e sotto alla plancia). Ci sono notizie per il comandante? chiesi. Il livello della nafta sta leggermente aumentando. Quando lo dissi al comandante, lui ribatté, ma come è possibile? Se mi hanno detto adesso che non sale! La cosa finì lì.

Ma intanto, e da un pezzo, all’orizzonte si accendevano, verso sud-est-est, nuovi bengala, a tre quattro cinque per volta. All’orizzonte si vedevano pure fumi e tra le nubi, su in alto, delle strisce biancastre, verticali, che si ritenevano proiettori. Ma stavano ferme. Poi si capì che era la scia dei bengala che stavano accendendosi. Erano lontani, per fortuna; non provocavano sull’acqua riflesso, illuminavano soltanto una estrema striscia (orizzontale) di mare all’orizzonte; e poi lucevano ancora dopo essere scomparsi là dentro.

A brevissimi intervalli, sotto i bengala, si alzavano dal mare fitte traiettorie rosse di mitragliere, per lo più basse, spesso incrociate. Era il convoglio? Il “Duca degli Abruzzi” risultava colpito! Vedevamo la terra; a poco a poco Capo dell’Armi si faceva al nostro traverso, non vedevamo l’ora di contornarlo e di infilare lo stretto. I bengala sembravano avvicinarsi. Adesso lunghi riflessi si producevano sull’acqua. Che convenga andar più sotto terra? chiese il comandante. Tra poco potremmo accostare. Afono per il mal di gola, sempre pronto, estremamente sicuro e deciso il comandante di vascello Cappello era al suo fianco. Forse il convoglio tornava verso Messina, a velocità molto superiore alla nostra; e noi potevamo rimanere di nuovo coinvolti nella zona dei bengala. Ma non finivano mai gli inglesi? Forse stavano peggio di noi, le altre navi laggiù, sotto la pioggia di luce. Quella accanita persecuzione sembrava provenire da una forza maligna e potentissima, senza carità umana (Poi si seppe che gli aerei avevano preso di mira l’“Abruzzi”, colpito a poppa e fermo).

Il comandante, un po’ a nord, vide i due rimorchiatori, spediti da Messina, passare verso levante senza vederci. Più tardi avrebbe spedito il “Corazziere”, il “Carabiniere” e quindi il “Bersagliere” a chiamarli. Ma non vennero. Erano andati in aiuto all’“Abruzzi”.

Finalmente qualche bengala cominciò a calare dietro Capo dell’Armi, segno che eravamo ormai nello stretto. Anche qui potevano raggiungerci, è vero, ma era molto diverso. Tra l’altro non pareva più verosimile un attacco navale. Ed eccoci, prima del previsto, dinanzi a Messina, e i rimorchiatori non vengono. Distanza da fare, Ranieri! Tremilacinquecento! Tremilaquattrocento, diminuisce! Tremilacento! diminuisce.

Con grandi allucchi il comandante fece avvicinare il “Bersagliere”, quindi il “Vivaldi” che si era dapprima ritenuto il “Perseo”.

“Corazziere” e “Carabiniere” furono mandati in aiuto all’“Abruzzi”. Debole luminosità sopra Aspromonte. Lumini che sembrano rimorchiatori e non sono. E qualcuno poteva anche venire da terra! Un motoscafo almeno ce lo avranno! Salii, ormai. Non c’era quasi più nulla da temere. Sommergibili era sperabile non ce ne fossero.

Alle prime luci si avvicinò un rimorchiatorino. Un altro nero e lungo ci passò di prora e scese giù per lo stretto in direzione dell’“Abruzzi”. All’ingresso del porto salutammo la madonnina; la gente era sull’attenti in ogni reparto.

Attraccati che si fu, il comandante scese di plancia, mandò a chiamare Lambiase e lo abbracciò. Ma quante cose dimenticò, che peccato.

Da un diario inedito, 1941