Il cacciatorpediniere ferito

XXX LUGLIO

Vedemmo sulla coperta del cacciatorpediniere appena rientrato nel porto la slabbrata breccia aperta dalla granata nemica. Era un foro ovale da cui sarebbe passato un bambino piccolo. Affinché la gente, camminando, non inciampasse o non mettesse dentro un piede, avevano coperto il buco con una stuoia (o paglietto); ma sembrava che esso fosse stato nascosto per una specie di pudore.

Sotto, attraverso l’osteriggio, si intravedeva il locale delle macchine dove il proiettile era esploso e aveva appiccato l’incendio. (Il nemico era a poco più di 4.000 metri, in numero di parecchie navi da guerra, sei, otto, di più forse, difficile a stabilire con tutta la nebbia da lui seminata; mentre loro erano in due cacciatorpediniere solamente, e avevano già coi cannoni bucato due siluranti inglesi, pochi istanti prima silurato un piroscafo e un’altra unità da guerra; e proprio allora avevano invertito per la manovra di disimpegno.)

Guardando in giù, non si notava speciale rovina; però nella penombra l’allineamento geometrico dei tubi, delle macchine, delle valvole, presentava un colore spettrale, assai diverso dal solito; tutto aveva una patina opaca e cadaverica, a somiglianza degli oggetti umani rimasti per secoli sottoterra. Laggiù erano nate le fiamme. (La nave si era fermata, fumo nero proruppe dalle sue viscere; ma i cannonieri, anche quelli investiti direttamente dall’incendio, continuavano a sparare come nulla fosse successo; e quattro cacciatorpediniere nemici si fecero sotto, a ventaglio, sicuri della preda.) Anche in coperta c’erano cicatrici. Vedevamo la corrosione del fuoco, quella lebbra calcinosa che dava al ferro e agli ordigni qualcosa di morto, i laidi stillicidi della nafta, i fumaioli butterati da schegge, i segni del dramma. (Difesa dal valoroso bastimento gemello, la nave aveva superato, immune, l’attacco dei caccia nemici, era riuscita a rimettersi in moto, aveva dovuto di nuovo fermarsi per la ripresa delle fiamme, aveva respinto un assalto di aerosiluranti, subito senza danni, una scorreria di bombardieri; e lei continuava a bruciare, dal centro si sprigionava una specie d’inferno. Dopo gli inglesi, il fuoco; ed era stata una lunga, quasi disperata battaglia; ore su ore, la strada della salvezza sembrava non dovesse finire mai.) Ed eccolo qui, salvo, finalmente, sotto un placido sole. Trasfigurato dal travaglio. Ma noi vedevamo intorno facce meravigliose di uomini. Barbute, sudicie, pallide per la fatica. Ma che forza c’era in esse, che razza di felicità.

Quasi emersi da un vortice tenebroso, essi rivedevano ora la luce. E dopo aver essi sentito così a lungo fluttuare intorno il gelido soffio del Tartaro, la vita tornava a sorridere, assolutamente nuova, carica di promesse, come la vedrebbe un fanciullo, quasi fosse ancora da incominciare. Le soavi cose della terra, le amate sembianze, la città natale, la vecchia casa, i fiori, gli affetti, dolci immagini che al culmine del dramma si erano fatte incredibilmente lontane, vaghi ricordi di un’età trapassata, adesso si riavvicinavano, quasi palazzi incantati sorgevano di nuovo all’orizzonte, prossime certezze, riempiendo i cuori di attese ineffabili.

Ora noi avremmo voluto ricostruire la scena; le artiglierie fiammeggianti, il comandante impavido in plancia, i candidi pioppi dei proiettili nemici sempre più vicini, lo schianto sordo della granata, le fiamme, i cannoni che tuttavia sparavano e sparavano, poi il lungo calvario sulla via del ritorno, questa gloriosa avventura. Eppure non riuscivamo. Le invisibili tracce della battaglia, come cimeli dissepolti, sembrava chiudessero in sé il segreto; e noi non lo volevamo dire. Ciò che era avvenuto a bordo, e sarà lungamente narrato e forse diventerà leggenda, era scomparso ormai nelle profondità del passato. Solo nel cuore di questi uomini continuava a vivere ed essi certo lo conserveranno gelosamente fino alla morte, lo alimenteranno con la nostalgia e col rimpianto come preziosissimo bene. Sinceramente li invidiavamo. Perché tali gioie sicuramente non appartengono alla vanità della vita.

Ma il tempo intanto passava portandosi via a poco a poco anche questa mattina di sole. E a un tratto noi guardammo gli uomini della nave con occhi speciali, propriamente dal di fuori. Essi esprimevano letizia e ritorno alla vita, orgoglio di aver dato tutto il possibile e di portare indietro una vittoria stupenda. Tuttavia il loro animo – si vedeva – correva avanti, tratto dalle speranze eternamente rinascenti, con trepidazione già tendeva ad altro: alle gioie prossime, alle proprie case, al giorno che la nave sarebbe completamente guarita e capace di riprendere il mare, alle future prove. Né si accorgevano abbastanza come proprio questa, che noi vedevamo, fosse per loro una delle ore più grandi della vita.

“Corriere della Sera”, 1° agosto 1942