Un nostro sommergibile
penetra nel centro
di una formazione nemica
XXXX, 28 NOVEMBRE
Un sommergibile italiano osservava la città di Philippeville che riposava sotto la luna. Si era spinto sotto in modo quasi temerario e ormai non distava dal molo più di 1.000 metri. Dalla torretta che oscillava alquanto per via del mare in aumento, il comandante Alpinolo Cinti guardava. La città e il porto sembravano morti, completamente abbandonati dagli uomini. Egli vedeva le gru, i magazzini, vedeva i tetti della città risplendenti di luna, i palazzi, le strade deserte, i viali, gli alberi; non un segno di vita umana, non un fiammifero acceso. E deserto era anche il porto. Si sarebbe detto che la guerra fosse immensamente lontana da quella città assopita che, a motivo della luna, come succede, sembrava miraggio favoloso nato sull’aspra riva.
Delusione. Poche ore prima, quando si era deciso di dirigere per Philippeville, in tutti si erano moltiplicate le speranze guerriere. Erano proprio contenti. Né ci si nascondeva certo il rischio grandissimo. Si trattava di ficcarsi dentro la casa del nemico. Il sommergibile, arma cauta e silenziosa, un tempo sinonimo di insidia occulta, doveva trasformarsi pressoché in un mezzo di assalto. Per colpire il traffico anglosassone lungo le coste francesi dell’Africa del Nord i nostri battelli hanno ormai quasi adottato per sistema ciò che una volta poteva considerarsi audacia d’eccezione. Bougie, Bona, Philippeville li hanno visti avventurarsi non solo a ridosso delle coste ma fin dentro alle rade, con meraviglioso disprezzo della morte: laddove trovano rifugio piroscafi e unità da guerra, dove sbarramenti di mezzi navali pendolanti per tutta la notte chiudono pericolosamente il passaggio, dove gli sguardi stessi delle sentinelle terrestri giungono a esplorare le acque.
Stavolta era il sommergibile di Cinti a tentare la difficile sorte. All’ingresso della rada aveva incontrare una motovedetta, uno scafo veloce che pareva dirigersi contro di lui. Si era immerso. Con i mezzi di ascolto aveva sentito allontanarsi il nemico. Non era successo niente. Egli era riemerso dopo alcuni minuti, era sgusciato dentro, aveva traversato la rada e adesso era giunto in prossimità del porto. Purtroppo non c’è nulla di buono. Non un piroscafo, una cisterna, un cacciatorpediniere. Tutto assolutamente vuoto.
Non siamo fortunati, pensarono forse allora i sommergibilisti ricordando gli ultimi gloriosi esempi di Rigoli, Erler, Forni, Priggione, Longhi e Gigli che avevano fatto in analoghe circostanze, sempre in acque algerine, buonissime prove. Non c’era che andarsene dunque, ritornare alla zona di agguato e aspettare migliore occasione. Per ultimo scrupolo, prima di lasciare la rada, Cinti si portò ancora sotto gli scogli che chiudono a ponente la baia, se mai nelle vicinanze ci fosse qualche cosa alla fonda. Anche qui acque deserte. Quindi egli si allontanò dalla costa.
Era scritto però che quella fosse una notte propizia. Non invano il sommergibile era partito con tanta fede. Verso le quattro, a circa quindici miglia da Cap de Fer, la vedetta di sinistra gridò qualcosa al comandante (occorreva gridare per farsi sentire, tanto era lo scroscio delle onde). «Vedo un’ombra di prora» disse la vedetta. E anche il comandante, l’ufficiale in seconda, l’ufficiale di rotta e gli altri tutti che erano in coperta videro perfettamente. Ben presto nell’atmosfera limpidissima si poté distinguere. Un convoglio nemico veniva avanti da levante.
Si videro alcuni piroscafi, di cui il primo molto grosso, di almeno quindicimila tonnellate, che avanzavano in linea di fila. Con questi, due unità da guerra, probabilmente cacciatorpediniere, uno dei quali di rispettabili proporzioni. Più a destra, alquanto staccata, una petroliera di mediocre statura. Più a destra ancora, praticamente al traverso del sommergibile, un terzo cacciatorpediniere. Qualcuno a bordo dice di aver scorto anche un’altra ombra, probabilmente una quarta unità di scorta dietro la petroliera, ma il comandante non è sicuro.
Il sommergibile venne così a trovarsi nel centro della formazione nemica. Doveva agire prestissimo, senza perdere un secondo, altrimenti quelli lo avrebbero scoperto. E la luna era proprio alle sue spalle, piacevolissima cosa. Cinti allora puntò la prora contro il grosso della formazione e lanciò due siluri. I piroscafi e uno dei cacciatorpediniere formavano contro l’orizzonte quasi un unico sipario senza soluzione di continuità. Bersaglio meraviglioso.
Fatto il primo lancio, Cinti accostò immediatamente a sinistra, per lanciare di poppa contro la petroliera che stava capitandogli addosso. Mentre accostava, il primo siluro esplose. Se ne vide benissimo la vampata proprio al centro del primo piroscafo, una fiammata altissima seguita da imponente fumo nero. Dalla torretta non udirono l’esplosione. Il fragore delle onde era troppo forte.
Ma nell’atto che Cinti accostava, i nemici si accorsero di lui. I due cacciatorpediniere estremi della formazione lanciarono ciascuno un bengala. Due faci color giallo oro si accesero nella sommità del cielo cancellando la luce di luna tanto erano potenti; poi lentamente calarono, ampliando il loro gelido splendore, cosicché i piroscafi, le navi da guerra, lo stesso piccolo sommergibile, le onde a una a una con le loro creste schiumose si rivelarono, mentre le fiancate del mercantile colpito, che si piegavano sempre più oblique affossandosi verso la tomba, mostravano le astute fantasie della loro mimetizzazione.
Sarebbe stata una scena stupenda se quei lumi, quelle metalliche sagome di navi, quelle onde coronate di bianco non avessero significato morte vicina.
State ancora a sentire. Nell’atto che il primo siluro partiva di poppa contro la petroliera, la petroliera, a sua volta, accostò presentando la prora e sparò una prima cannonata. Sistemato sull’estrema prua il pezzo, si mise a vomitare colpi su colpi contro il battello italiano. Un secondo siluro, allora; il primo difficilmente poteva giungere a segno. In quanto ad armare il cannone, era per i sommergibilisti praticamente impossibile, per le ondate che spazzavano la coperta. Sott’acqua allora. Un cacciatorpediniere era ormai vicino con la speranza di speronare. Giù con la massima rapidità nella tetra cisterna del mare.
Ma qui, come tante altre volte, ci accorgiamo quanto le parole siano povere. Noi abbiamo visto il comandante Cinti già sbarbato, vestito di tutto punto in uniforme ordinaria, ritemprato da una notte di sonno.
Un’immensa frattura. L’abisso, che separa da noi tutto ciò che è finito, rendeva l’avventura notturna simile a una strana favola. E lui, il comandante, raccontando non si agitava, non alzava la voce, non tradiva alcuna emozione; la sua voce era pacata e tranquilla, quasi fossero faccende di un’altra avventura, di un’altra guerra e una quantità di anni fosse intanto passata. Chiusi erano in lui il ricordo vivo, la verità sofferta, ben chiusi nel profondo dell’animo; così per lui come per tutti i suoi compagni. E noi inutilmente ci sforzeremmo con l’aiuto della fantasia e del mestiere a risuscitarli. Povere le parole, poverissimi gli aggettivi di fronte alla grandezza di simile prova. Le parole dicono: «Siluri di prora, esplosioni, idrofoni, cacciatorpediniere al contrattacco, mare forza 6»; ma queste parole sembra non contino nulla, paiono un miserabile scherzo al paragone di ciò che è stato.
Ora la cronaca deve dire che il sommergibile era appena immerso quando si udì ben distinta, ripercossa nel mare, un’esplosione. Anche la petroliera era stata colpita. Fu un rumore caratteristico, come se si fosse sollevato qualcosa di pesantissimo che poi ripiombasse giù di schianto nell’acqua, un rumore come di cascata. Poco dopo, più lontano, altre due esplosioni. Come mai? Descrivere la manovra del sommergibile con le posizioni rispettive delle navi nemiche, rotte, percorso dei siluri, sarebbe troppo complicato. Spenderemmo un mucchio di parole e probabilmente voi non capireste lo stesso.
E a questo punto comincia il travaglio del disimpegno, con i caccia nemici che girano sulla testa, ansiosi di prendersi una vendetta. Ecco i minuti eterni dell’attesa, mentre si sentono battere sopra lo scafo, con rumore di sassolini, i raggi degli ecogoniometri nemici, il che significa che si è stati scoperti. I minuti lunghissimi che si aggiungono gli uni agli altri fino a formare una mezz’ora e le mezz’ore una dietro l’altra con la lentezza di secoli a formare quegli immensi spazi di tempo che gli uomini definiscono ore; e così via senza riposo per i cuori umani, finché tredici ore e mezzo di inquietudine tormentosa saranno passate.
Quasi immobile era il sommergibile giù nella nera fossa perché gli altri non sentissero. E anche dentro quel budello metallico tutto era fermo o quasi. Letteralmente nel sommergibile si viveva in punta di piedi; non si parlava ma si sussurrava, non si muovevano stoviglie, non ci si spostava da un locale all’altro se non per una assoluta necessità. E intanto di sopra? Da un pezzo doveva essere nato il sole, e, come dicono i marinai, continuava lassù una intensa “ammoina”. Si presume che fosse un grande affannamento per il salvataggio di naufraghi; gli stessi cacciatorpediniere non dovevano sapere più se rispondere alle invocazioni di aiuto o continuare la caccia al battello italiano; e se non tirarono bombe di profondità – quali erano attese ormai con la massima certezza dai nostri – deve essere stato per non mettere a repentaglio la vita dei superstiti in balia delle onde. Lo scuotimento dell’acqua infatti li avrebbe potuti ammazzare.
Le siluranti ronzavano sopra al sommergibile; lo avevano senza dubbio identificato, non gli davano tregua: eppure non fecero altro. L’uomo, in queste circostanze, preferirebbe che la tempesta si scatenasse piuttosto che quella incertezza. Perché non tiravano le bombe? Che cosa aspettavano quei cani? Ma le bombe non venivano. A una a una, lentissimi i cacciatorpediniere sempre razzolando sulla verticale del sommergibile, si consumavano le ore. Passò la mattina, arrivò mezzogiorno, ci si inoltrò nel pomeriggio. Nessuna bomba ancora.
Fino a che alle 17.30 gli strumenti di ascolto segnalarono campo libero. Le acque nelle vicinanze erano vuote. I nemici se ne erano andati. Il mare intanto si era fatto infernale, almeno di forza 7. In quel crepuscolo il battello viene su, fa la carica. Entro lo scafo che ballava paurosamente da una parte e dall’altra dalle scosse della tempesta, qualcuno cominciò a cucire la bandierina nera della vittoria che sventolasse all’arrivo. E malgrado non si stesse bene davvero, i marinai del turno smontante si misero insieme a cantare.
“Corriere della Sera”, 29 novembre 1942